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Roberto bartali.it

Settembre 2003

6 Settembre 2003: Macaluso: «Moro, il Pci e le Br»

Ora che si riparla del caso Moro dopo il film di Bellocchio a Venezia, e dopo la «Piazza delle cinque lune», due film di cui si discute molto, ci chiediamo se la linea della non trattativa con le Br sia stata giusta. Liberi pensatori come Sciascia erano per lo scambio perché «la ragion di Stato non vale una vita». Quelli che bloccarono qualunque trattativa, a distanza di 25 anni hanno avuto dei ripensamenti? Lo chiediamo a Emanuele Macaluso, uno dei leader storici del Pci di allora. «Io in quel periodo - dice - ho sostenuto con convinzione la linea della fermezza con Berlinguer, Amendola, Pertini e gli altri. E questo per tre motivi: primo perché una trattativa avrebbe dato legittimazione alle Brigate rosse e quindi avrebbe allargato la loro presenza e l'area del consenso; la seconda preoccupazione era che in definitiva il Pci, che era stato indicato come "padre" delle Br anche dalla Rossanda, perché loro parlavano di leninismo, di comunismo, aveva l'esigenza di marcare una rottura radicale; terzo perché eravano arrivati nell'area di governo e quindi era necessario segnare con forza che il Pci era un partito dello Stato, dell'arco costituzionale. Infine nel Pci c'era ancora molta gente come Pajetta, Amendola e altri che avevano fatto anni e anni di carcere i quali avevano trasmesso anche a noi che quando si fa politica si deve rischiare, quando si sta in carcere non bisogna piegarsi, che chi fa questa scelta la deve fare fino in fondo. C'era insomma anche una questione morale, tutta una concatenazione di motivi per cui il Pci su questo fronte fu abbastanza compatto». Nemmeno quando le Br proposero lo scambio uno contro uno, la vita di Moro in cambio della liberazione di Paola Besuschio, che tra l'altro era ammalata e non aveva ucciso nessuno? «Anzitutto nessuno credeva alla serietà di quella proposta, si pensava che l'avrebbero ucciso lo stesso e che quella richiesta dell'ltimo momento era solo un modo per fare dire di sì e poi ucciderlo lo stesso. Ci fu solo Bufalini che disse: ma in fondo si potrebbe liberare la Besuchio.Ma come ricordava Andreotti la Besuschio aveva una condanna definitiva e non si capiva come potesse uscire dal carcere». Avete mai valutato cosa sarebbe stato di Moro se le Br lo avessero lasciato libero? «In effetti molti si sono chiesti come mai le Brigate rosse non lo abbiano liberato, perché Moro libero sarebbe stato un elemento destabilizzante per il maggiore partito di governo. Però dai calcoli fatti, in definitiva loro, o chi per loro o con loro, pensavano che era necessario dare una prova di forza, per significare che non si fermavano davanti a nulla, che non avevano scherzato, che con loro non si scherzava». Eppure il giudice Sossi di Genova l'avevano liberato. «Ma Sossi non era Moro. Moro era lo Stato. Infatti loro avevano detto: abbiamo colpito il cuore dello Stato. Era qualcosa di diverso, la trattativa era con il cuore dello Stato, per il cuore dello Stato». Tre settimane dopo il rapimento di Moro entrai nella sede della Dc in Piazza del Gesù per una conferenza del segretario dc Zaccagnini. In una stanza deserta vidi arrotolati dei grandi manifesti a lutto «per la morte di Moro». E Moro era ancora vivo. «Questa è una cosa che non ho mai saputo. Forse quei manifesti furono stampati quando ci fu quel volantino che diceva: cercate il cadavere di Moro nel Lago della Duchessa. O forse è stato lo zelo di qualcuno. Se lei dice di averli visti, ci credo, ma francamente resto sorpreso». Lo chieda a Beppe Sangiorgi, allora addetto stampa della Dc, il quale mi disse: «Sai, è per essere preparati al peggio». freccia rossa che punta in alto

11 settembre 2003 (Panorama)
PANORAMA SULLE NUOVE BR
Nome vecchio, terroristi nuovi di Marcella Andreoli

- I militanti delle Br sono solo una decina, i veri registi fanno capo a un'altra formazione. Lo ha rivelato un padre dell'eversione. Mettendo in allarme gli 007 italiani. La nostra intelligence ha lanciato l'allarme: "Imprenditori e sindacalisti sono nel mirino delle Brigate rosse" si legge nell'ultima relazione sulla politica informativa e della sicurezza. Gli 007 sostengono che i terroristi sono all'opera per colpire i "progetti di riforma soprattutto in materia di lavoro" e dunque "il ventaglio degli obiettivi riguarda l'imprenditoria e il mondo sindacale". Nulla di nuovo, in apparenza. Da anni le Brigate rosse inseguono il loro disegno: interferire, con azioni più o meno clamorose, nel mondo del lavoro per raggiungere due obiettivi. Da una parte, innescare una crisi di fiducia tra le istituzioni e settori strategici della produzione. Dall'altra, scardinare ogni forma di unità sindacale. Però è la prima volta che i nostri esperti di terrorismo firmano una denuncia così circostanziata e allarmata. Cosa hanno scoperto nel sottosuolo brigatista? Non sono passati nemmeno sei mesi dall'ultima operazione di effettivo contrasto contro le Brigate rosse. Uno dei capi dell'organizzazione terroristica, Nadia Desdemona Lioce, è stata acciuffata sul treno che la stava conducendo da Roma a Firenze. Il brigatista che era con lei, Mario Galesi, è rimasto ucciso nel conflitto a fuoco aperto con la polizia ferroviaria che è costato la vita anche al sovrintendente Emanuele Petri. La documentazione in possesso dei due br, a cominciare dal computer palmare, ha consentito di fare passi in avanti nelle indagini. I risultati istruttori sembravano descrivere l'attuale nucleo centrale brigatista come un residuato della potente organizzazione che, un tempo, era riuscita a tenere in ostaggio il Paese con il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro. A conti fatti, sostenevano gli esperti, le Brigate rosse contano oggi su pochi elementi e su un arsenale assai povero. Non a caso, per uccidere il professor Massimo D'Antona e per "giustiziare" il professor Marco Biagi, entrambi esimi giuslavoristi, le Br erano state costrette a usare la stessa arma, una pistola calibro 9. Inoltre, sembra ormai accertato che siano scesi in azione, sia nella capitale sia a Bologna, gli stessi elementi. Sono lontanissimi i tempi in cui in ogni capoluogo di regione si nascondevano brigatisti in grado di uccidere. Che cosa ha spinto allora i nostri 007 a lanciare un allarme che implicitamente sostiene una rinnovata potenzialità di fuoco delle Br? Andando a spulciare negli archivi dei terroristi si possono fare buone scoperte e da queste conviene partire. Ricordate Giuseppe Maj, un ingegnere votato all'insurrezione e in là con gli anni (è nato nel 1936 in un paese del Bergamasco, Schilpario), indiscusso capo del Carc, sigla che sta per Comitato di appoggio alla resistenza comunista? Maj è stato arrestato a Parigi alla fine dello scorso mese di giugno. Erano sulle sue tracce due procure, di Bologna e Napoli, che formalmente non lo ritengono un imputato ma, grazie a una serie di intercettazioni telefoniche, un utile elemento per arrivare ai vertici delle Br. Nelle prigioni francesi Maj è finito solo per via della sua passione (e abilità) nel falsificare documenti di identità. Ebbene, Maj si è dichiarato prigioniero politico pur non avendo un ruolo effettivo. Ma la sua conoscenza della galassia terroristica risulta di primissima qualità. È nel suo archivio che si possono decriptare non solo la radiografia del gruppo armato, ma anche le beghe e le alleanze che dividono e attraversano le Br e le organizzazioni terroristiche minori. "Sono attualmente dieci le persone che compongono le Brigate rosse, Partito comunista combattente" ha scritto Maj in un suo documento. È una denuncia tranciante dell'esilità della struttura di vertice br che va presa per veritiera perché nei sotterranei dell'eversione è lecito sostenere qualsiasi tesi ma non il falso al fine di non disorientare militanti e simpatizzanti. Perché Maj mette a nudo la gracilità delle nuove Br? Cosa sa l'attempato ingegnere? In pratica, Maj sostiene che i terroristi hanno ricominciato a uccidere per conquistare un'egemonia sul campo, mettendo in difficoltà altre organizzazioni come il Carc guidato da Maj. Testualmente: "Non ho elementi per affermare che l'attentato di Roma (l'assassinio del professor D'Antona, ndr) sia stato consapevolmente progettato per ostacolare il Carc. Ma se le dieci persone che attualmente compongono le Br-Pcc avessero voluto ostacolare il nostro lavoro, avrebbero fatto esattamente quello che hanno fatto". Come è possibile lanciare un j'accuse così perentorio senza un'apparente briciola di prove? Come è possibile sostenere che si è ucciso un "nemico di classe" per colpire un compagno di strada? Il fatto è che prima di arrivare alla decisione di iniziare la nuova stagione di omicidi ( D'Antona e poi Biagi) nella galassia terroristica sono avvenuti scontri e dibattiti. Maj ne è a diretta conoscenza tanto che, probabilmente per mettersi in salvo dalle indagini ma non solo da quelle, due mesi prima dell'uccisione del professor D'Antona entra in clandestinità. Poi, dal suo rifugio, lancia strali alle Br e ne mette in dubbio l'autorevolezza e persino il marchio. Maj sostiene: la paternità degli omicidi è dei Ncc, non delle Br. Ecco così entrare prepotentemente in scena i Ncc, cioè i Nuclei comunisti combattenti. Può sembrare una questione di lana caprina: Br o Ncc, che differenza fa? Ma per gli esperti è un punto nevralgico. Primo: nei documenti di rivendicazioni dei due omicidi, le Brigate rosse fanno riferimento al ruolo insostituibile svolto dai Ncc. Secondo: se davvero i brigatisti sono soltanto una decina, quanti sono invece i militanti dei Nuclei comunisti combattenti? Ora, si ricorderà che i brigatisti vivono in clandestinità, i Ncc invece alla luce del sole e dunque individuarli risulta più ostico.
Un terzo dato viene preso in considerazione dagli investigatori, soprattutto dopo aver analizzato il computer palmare di Nadia Desdemona Lioce e ascoltato una serie di intercettazioni. Le nuove sigle terroristiche che hanno firmato attentati piccoli ma mirati, per esempio quello alla Cisl di Milano del luglio 2000, rivendicato dal Npr, Nucleo proletario rivoluzionario, non sarebbero frutto di emulazione ma l'attuazione di una precisa strategia: le Br sono abilitate a firmare gli omicidi, per le azioni minori si ricorre a sigle meno impegnative. Insomma, marca doc e sottomarca, sotto la regia dei Ncc. Ecco perché i nostri 007 hanno lanciato l'allarme. I militanti delle sigle minori, come appunto il Npr, sono annidati nel mondo del lavoro. Il documento di rivendicazione aveva destato enorme preoccupazione: per gli analisti era stato stilato sulla base di informazioni di prima mano emerse nei dibattiti interni agli ambienti della produzione e del sindacato. freccia rossa che punta in alto

11 Settembre 2003 (Il Giornale)
AL CINEMA CON L'EX BRIGATISTA ADRIANA FARANDA,"COME È POSSIBILE CHE NON SIANO RIUSCITI AD ARRESTARCI?"
"MORO LIBERO AVREBBE FATTO PIU' DANNI CHE MORO MORTO"

- "Forse potevano prenderci. Non posso avere una certezza, ma è una domanda che oggi mi faccio. Come è possibile che non siano riusciti ad arrestarci? Nel movimento, o all'Università di Roma, molti sapevano dove eravamo, chi eravamo. I nostri contatti con la famiglia Moro erano sotto gli occhi di molti, i nostri interlocutori noti agli inquirenti". Adriana Faranda guarda la scena in cui Roberto Herlitska-Aldo Moro scrive le minute delle sue lettere, osserva i giochi di sguardi tra carceriere e prigioniero. Valuta le parole, i tic, i dettagli. E poi quasi sobbalza per la scena in cui la terrorista Maya Sansa-Annalaura Braghetti litiga con un suo amico che le parla del dilemma di una terrorista che arriva a perdere le sue certezze. Alla fine, quando il film è finito, scuote la testa: "Per me è bellissimo. È incredibile come Bellocchio sia riuscito a calarsi nella nostra psicologia, nel clima di quel tempo e a scavare una verità più profonda di quella esteriore. Non mi stupisce che uno straniero possa non averlo capito: la sceneggiatura è così immersa dentro il nostro stato d'animo, che in ogni immagine racconta qualcosa, forse più agli ex brigatisti che agli altri. Lo è al punto che spiega anche a noi cose che non avevamo capito, o che abbiamo capito dopo, o che non abbiamo ancora capito nemmeno oggi. Bellocchio ha messo le Br sul lettino dello psicanalista". Adriana Faranda, venticinque anni dopo via Fani. Adriana Faranda davanti a Buongiono notte, il film che ha infiammato Venezia. Di quella pagina di storia italiana lei è stata protagonista. Dirigente Br di primo piano, unica a dissociarsi - con Valerio Morucci - sulla condanna a morte. Ma non per questo si sente meno in causa, al contrario: si riconosce anche lei nel meccanismo descritto dal regista. Non è stata facile convincerla a parlare: fino ad oggi aveva schivato tutte le richieste di intervista sul film. La conosco bene da anni, ho lavorato spesso insieme al suo compagno, Gerald Bruneau, francese, uno dei più famosi e fantasiosi fotografi che oggi lavorino in Italia. Malgrado questo, la sua riluttanza a vedere insieme Buongiorno notte era molto forte: "La brigatista in sala per il film sui brigatisti non mi pare una buona idea. È una scelta inopportuna". Sono tornato alla carica con una cassetta strappata alla produzione: "E se lo vedessimo a casa tua?". Ma i dubbi restavano: "Temo il cliché della frase rituale, l'ex br racconta... Accade due o tre volte l'anno e poi ripetiamo sempre le stesse cose: stereotipate, tranquillizzanti per tutti, verità comode anche per noi". Eppure è stato proprio il film di Bellocchio a far sì che questa analisi impietosa non si ripetesse. Sono andato con una collega a Martignano, nella casetta di campagna dove la Faranda lavora discretamente, lontana dai riflettori e da Roma: fa la fotografa, si occupa di un progetto di solidarietà con l'Iraq, ha due cani enormi. Dopo il film abbiamo parlato, fino alle quattro del mattino. Adriana è diversa da molti altri ex br, e tende a raccontare le cose come le ha vissute allora. Spiega i suoi ragionamenti a distanza di un quarto di secolo, ma documenta sia le cose che si sono rivelate giuste che quelle sbagliate, sia le ipotesi centrate che quelle ormai inverosimili, se non deliranti. Ripercorre le decisioni più drammatiche, la dinamica del sequestro vista da "dentro", distingue l'analisi sul piano "politico", "umano" e "storico": "tre livelli: che - spiega - si sono intrecciati, ma sono sempre rimasti divisi. Non nasconde le sue zone d'ombra, proprio lei che ha fatto 15 anni di carcere senza pentirsi. Dice cose nuove rispetto a quelle che ha scritto nel suo libro, e inizia con una piccola "rivelazione" sul film. Bellocchio spiega che nel personaggio ispirato alla Braghetti e recitato da Maya Sansa ha messo anche cose di altri protagonisti e di sé. Ma stupisce che l'attrice abbia nel film la linea di opposizione all'esecuzione che fu tua e di Valerio Morucci. È una forzatura? "Tre anni fa Marco venne da me a chiedermi se poteva adoperare il mio libro, "Nell'anno della tigre", scritto con Silvana Mazzocchi, come palinsesto della sua sceneggiatura, come poi ha fatto con Il prigioniero di Annalaura. Mi poneva solo una condizioni: l'assoluta liberta di scrittura. Avrebbe adoperato la formula "liberamente tratto" e pensava ad un titolo che evocasse direttamente la mia storia". Chissà, "Adriana F."... Eri onorata e hai risposto sì? "Ero turbata e ho risposto no". Come mai? "Confesso, la richiesta di assoluta libertà creativa mi spaventava: la mia storia è abbastanza drammatica e complessa in sé. E sinceramente non pensavo che potesse fare uno scavo di questo tipo. Oggi ritrovo nella sceneggiatura molti dei problemi di cui abbiamo discusso all'epoca nel lavoro di Marco. E sono colpita dalla forza del film. Tutto è semplificato, ma reso con grande efficacia. Soprattutto il nodo per me più importante". Quale? "La metafora della nostra claustrofobia. È vero: eravamo tutti chiusi in quell'appartamento. Tutte le Br imprigionate con Moro, asfittiche, chiuse e cieche, prive di legami con il modo reale. È rappresentato per la prima volta, quel nostro senso di angoscia". Sono verosimili i dialoghi? "Non realistici: ma la loro scarnezza evoca bene la povertà di un dibattito chiuso nella camicia di forza dell'ideologia. È bellissimo quel gioco di sguardi separati dalla spioncino e imprigionati in un silenzio pregno di emozioni che allude alla ricerca di un dialogo allora impossibile". Un punto decisivo è il dramma di Maya Sansa-Braghetti, contraria alla condanna ma incapace di opporsi. Ma era verosimile, data la ferrea disciplina interna? "Nelle Br c'era una sorta di scissione. Per capire quei processi bisogna pensare cos'è la clandestinità. Io nella vita normale posso dirti, "Andiamo a Roma perchè è bello". Ma in quel contesto bisognava motivarlo sul piano di una razionale convenienza e su quello politico-dottrinario. È impensabile che Annalura dicesse: salviamo Moro perchè è un uomo: o si traduceva in una linea politica, oppure era come non dirlo". E tu come lo dicesti? "C'erano motivazioni che hanno senso ancora oggi e altre che si rivelarono infondate. Dicevamo che una esecuzione avrebbe autorizzato lo Stato a una rappresaglia sui detenuti, come in Germania. Lo temevo, non accadde. Poi spiegavamo che liberare Moro sarebbe stata la nostra più grande prova di forza. Citavo la convenzione di Ginevra: un conto era assassinare un "bersaglio" in azione di guerriglia, come dicevamo allora, un altro assassinare un prigioniero nutrito, lavato, vestito per due mesi". Non è una ricostruzione ex-post, troppo edulcorata questa? "Nel documento con cui siamo usciti dalla Br usiamo per la prima volta la parola "terrorismo": fece scandalo, anche nel movimento, era la parola dei nostri avversari. Ma non voglio nemmeno idealizzarci, far credere che fosse solo una logica umanitaria, la nostra: era anche un problema politico. Dicevo: partivamo per fare la guerra di classe e finiamo sequestratori. Eravamo nati per abbattere lo stato, siamo diventati come lui. Non è facile da spiegare, oggi". Le Br di Bellocchio vacillano nelle loro certezze dopo il messaggio del Papa, è verosimile? "Altro che: ricordo un impatto molto forte tra i compagni, un turbamento vero. Fu il momento in cui l'idea della condanna a morte fu maggiormente in discussione". Ma come? Paolo VI aveva detto: liberatelo senza contropartite, e Bellocchio immagina che fosse una formula suggerita da Andreotti... "Si, ma anche qui bisogna pesare le parole: il Papa si rivolgeva a noi dicendo: "Uomini" delle Br. Uomini, chiaro? Era un forte ribaltamento del lessico ufficiale, quello per cui eravamo solo assassini. Partiva da quegli stessi valori di umanità da cui ci eravamo mossi noi, prima di diventare una versione in sedicesimo dello Stato-nemico. Sarebbe bastato poco di più per far vacillare un'organizzazione che, come giustamente mostra Bellocchio, era sull'orlo del cedimento per le dinamiche che Moro aveva innescato. Anche il personaggio di Moretti-Lo Cascio ("capo" dei sequestratori, ndr.), pur nella sua feroce determinazione, dubita. E io sono convinto che sia vero, Mario era così. Bastava un gesto, anche slegato dalle nostre richieste, chessò, un cambiamento nelle condizioni di detenzione dei politici... se ci fosse stato, le persone come Annalaura avrebbero avuto la forza di opporsi, invece di vivere solo il dramma interiore che Bellocchio racconta benissimo, con l'associazione simbolica tra lettera di addio di Moro alla moglie Noretta, e le lettere dei condannati a morte della Resistenza". È credibile una brigatista che associa le SS naziste alle sue Br? Due anni dopo la stessa Braghetti che dubita ucciderà Bachelet! "Sì, io credo al dramma di Annalaura, la conosco. C'è quella frase, nel film, che un amico (Paolo Briguglia), le dice: "Non vuoi uccidere Moro ma non puoi opporti, non puoi chiamare la polizia, puoi solo impazzire... Questa condizione l'ho vissuta: sei un né-né, ti si rompe qualcosa dentro, ma non puoi passare dall'altra parte, tradire i tuoi compagni. Nel film il Moro di Bellocchio dice: "Anche la vostra è una religione". Verissimo, eravamo come una chiesa: e se non abiuri non esci dalla chiesa". Devo chiederlo in maniera più netta. Avevate pianificato il sequestro, era il vostro atto più importante: le parole di Moro potevano farvi piangere? "Moro aveva una sua lingua che stupì da subito Moretti. Eravamo partiti per processarlo, e non riuscivamo ad incastrarlo. Moretti ci diceva: "È elusivo, sfugge il confronto, mi porta in giro...". Questa diversità ci scosse. Ma la lettera di Moro alla moglie fu uno choc: quella lingua bizantina diventasse improvvisamente così diretta, toccante... è una cosa che ti stupisce, e può spaccarti il cuore. Su me, su molti di noi ebbe questo effetto". Non era fino a poco prima il capo del Sim, il fantomatico Sistema internazionale delle multinazionali caro al brigatese? "Sì, ma di questo Sim non emerse traccia negli interrogatori, e il fatto ci deluse molto. Saltò fuori Gladio, che non era poca cosa. Ma non era il legame politico economico che era alla base della nostra teoria,. E invece usciva la carica umana di quest'uomo, che noi vedevamo scaricato da tutti i suoi amici, dal sistema in cui aveva creduto. Lo pensavamo l'uomo-chiave del potere, e dopo non potevamo non vederlo come vittima di quello stesso potere. Ecco perchè molto freddamente usavo l'argomentazione - politica, non umanitaria - che a quel sistema Moro libero avrebbe fatto più danni che Moro morto". Eri nel vertice che decise. Ma chi decise? Pare incredibile che si scelse solo in base dei resoconti di Moretti e dei carcerieri. Quale fu il meccanismo? "Si sondarono le colonne e seppi che la maggioranza dell'organizzazione era per l'esecuzione: non sapevo quante Annnalaura ci fossero, contrarie ma disciplinate. A Roma ci opponemmo solo in due". Si decise col.... "maggioritario"? "Se aiuta a capire... a maggioranza sì: il parere delle colonne fu unanime, ma nessuno ha mai saputo in quanti si opposero". La tua riflessione sul mancato arresto prende spunto da uno dei sogni della brigatista nel film, quello in cui lei e Moro stanno uscendo dalla porta di casa e la trovano piantonata da un plotone di agenti che li bloccano.... "Immagine straordinaria. Marco rappresenta così il paradosso delle forze dell'ordine che non riuscivano trovare Moro, e che per lui non lo volevano trovare. Io oggi sono sicura che persone come Cossiga, si adoperarono al massimo delle loro possibilità. Certo, di lettere di Moro io e Valerio ne abbiamo recapitate decine. Una l'abbiamo messa persino davanti a casa di Giulio Andreotti, a Corso Vittorio Emanuele, perchè giocavano d'azzardo, perchè volevamo... "toccargli il naso". Ma i nostri destinatari erano sorvegliati, erano sempre gli stessi, il segretario di Moro e i suoi collaboratori più stretti. la procedura si ripeteva sempre... ecco, io vedo quella scena del film e penso. Come è possibile che non ci abbiano preso?". Lo pensavi anche allora? "No, non lucidamente, ci credevamo invincibili. Certo, quando incontravamo Lanfranco Pace gli facevamo fare cento giri, ma come è possibile che nessuno lo pedinasse? Prima del sequestro fecero irruzione nella mia vecchia casa dove e sapevano che ero nel direttivo, o come si chiamava. Possibile non sapessero chi fossero gli altri? Ad esempio Roberto Seghetti che non era nemmeno latitante? Certo, forse non era automatico arrivare fino a Moro, ma fino a noi sì: eravamo noi l'anello debole della struttura clandestina". Non ti posso non fare la domanda più importante. Ti pare possibile che Moretti potesse essere un infiltrato? "No". Ne sei così sicura? È incredibile quanto potere ha avuto. Quanto peso ha avuto in quelle scelte... "Questa storia la sostiene Alberto Franceschini, ed ha una radice chiara: dividere un prima e un dopo. Le Bierre buone dei vecchi tempi e quelle cattive del sequestro. Le Br che non uccidono e quelle che non uccidono... a me pare una sciocchezza . E poi Moretti si sarebbe fatto vent'anni di carcere per custodire questo segreto? Perchè mai? Con quale contropartita? L'avessero messo fuori avrei potuto capire. No, la verità invece è una, e una sola, purtroppo: e la risposta sta nel film".In che senso? "Perchè come ti spiega Bellocchio, quel delitto è nato è cresciuto dentro le bierre: sostenuto da una logica ferrea, dentro la nostra visione del modo, il nostro modo di pensare e agire, le nostre scelte. I condizionamenti esterni ci possono essere stati e come vedi sono la prima a non escluderli. Ma nessun infiltrato da solo avrebbe potuto fare tutto questo. Moro lo abbiamo ucciso noi, mica i servizi". In questi anni hai mantenuto un rapporto stretto con la figlia dell'uomo che hai sequestrato, come è possibile? "Preferirei non parlarne troppo. Ma Maria Fida ha avuto un coraggio incredibile allacciando questo rapporto con noi quando ancora eravamo in carcere: quando veniva a trovarci subì critiche spietate, soprattutto dai familiari delle vittime della scorta". E se davvero Moro avesse fatto quella passeggiata da uomo libero, come volevate tu e Morucci? "Sarebbe stata un'altra storia. La trattativa avrebbe messo in crisi il regime che volevamo abbattere, ma anche le Br. Io di questo oggi resto convinta". Non ho ancora capito se, per restare nella metafora ecclesiale, Adriana Faranda sia una "convertita" o una "spretata"... "Spretata perché non ho più e non cerco un'altra chiesa, e quelle che vedo oggi, in giro, non mi paiono meglio. Sono riconvertita alle ragioni del dialogo. Ma sopratutto sono tornata al primato del diritto alla vita. Allora ero accecata dalle certezze, e che ora non vedo più una linea netta di demarcazione tra bene e male, dove io sto dalla parte del bene e gli altri al di là del confine". freccia rossa che punta in alto

(Ansa) IMPOSIMATO: MORO POTEVA ESSERE SALVATO, IL GIUDICE, 'BUONGIORNO, NOTTÈ AFFRONTA TEMA CON SERIETA'

- "So per certo che Moro poteva essere salvato e che si e' fatto di tutto per farlo morire". Parola di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore dei processo Moro uno, bis e ter, che si compiace con Marco Bellocchio "perche' il suo film 'Buongiorno, notte' affronta con serieta' questo tema. Andro' a vederlo sicuramente". "Sono 25 anni che mi occupo del caso Moro - ha spiegato Imposimato a margine della presentazione della nuova edizione di 'Forum', il programma di Retequattro che lo vede nel cast -, esattamente dal 17 maggio del 1978: fui chiamato come giudice istruttore dopo il sequestro, quando Moro era gia' morto. E gia' questa e' un'anomalia. E sono stato io il primo ad aver scoperto la prigione di via Montalcini", dove e' ambientato il film di Bellocchio. Da quanto ha letto su 'Buongiorno, notte', pero', Imposimato ha tratto la convinzione che il film, passato in concorso alla 60/ma Mostra di Venezia, "non affronta il problema della verita' storica, secondo me piu' complessa di quella che viene presentata. Nel mio libro 'Vaticano, un affare di Stato' - ha detto ancora Imposimato - ho parlato della presenza di un agente del Kgb che ha pedinato Moro per tre mesi prima del sequestro. Un elemento che e' stato poi confermato dal dossier Mitrokhin". "Anche Renzo Martinelli - ha aggiunto Imposimato, riferendosi a 'Piazza delle Cinque Lune', sempre dedicato al caso Moro - ha fatto un film abbastanza coraggioso, sposando pero' la tesi del coinvolgimento della Cia. E durante il sequestro, nel comitato di crisi costituito presso il ministero dell'Interno, e' confermato che c'erano agenti della Cia e del Kgb". freccia rossa che punta in alto

(INTERVISTA A IL GIORNALE)
MORO: ANDREOTTI, AUTORIZZAI VATICANO A PAGARE UN RISCATTO:

"Scartata l'idea di una contropartita politica, il Vaticano mi sottopose un progetto diverso: un riscatto economico da pagare alle Br. Che io concessi, in linea di principio, anche dopo essermi consultato con Berlinguer". Giulio Andreotti, in un'intervista a IL GIORNALE, rivela nuovi retroscena della trattativa tra lo Stato italiano e le Brigate Rosse durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. All'epoca, il senatore a vita era presidente del Consiglio. L'occasione e' il film di Marco Bellocchio "Buongiorno notte" presentato alla 60esima Mostra del Cinema di Venezia. "Il contatto - prosegue Andreotti - arrivava dal carcere di San Vittore ed era filtrato attraverso la rete dei cappellani carcerari. Un certo signor "X", un detenuto di cui io non ho mai conosciuto il nome, disse che avrebbe potuto fare da intermediario per il pagamento della somma. (...) Mi sentivo tutti i giorni con Berlinguer che ebbe nei 55 giorni del sequestro un comportamento integerrimo: noi i comunisti non li conoscevamo, non ci parlavamo, allora scoprimmo il loro senso dello Stato. Perche' uno degli obiettivi delle Br era far fuori il Pci e accreditarsi come un interlocutore politico. (...) Posto che il governo, lo Stato, non potevano aprire la via ad un qualsiasi riconoscimento (delle Br), posto che non si potevano rilasciare terroristi, nemmeno quelli che non erano stati designati dai brigatisti... Fu individuata una sola che potesse essere liberata, la Besucchio. Il presidente Leone era gia' pronto a firmare la grazia ma si scopri' che aveva un altro procedimento in corso. (...) Piu' che un'apertura, sarebbe parsa una beffa. Io - continua il senatore a vita - avevo chiesto persino ad Arafat e a Gheddafi di aiutarci, se avevano dei contatti. (...) Il riscatto economico era l'unica via possibile. Quando il Vaticano mi consulto' io non mi opposi. Ma la trattativa non ando' comunque in porto, i tempi si erano fatti strettissimi, la situazione precipitava. Moro era gia' condannato". Alla domanda, infine, "Ha avuto dei ripensamenti sulla mancata trattativa?" Andreotti risponde: "Abbiamo pagato un prezzo alto, ma ne avremmo pagato uno peggiore: credo che la linea della fermezza abbia vinto e... Beh, non ne ho le prove, ma penso che Moro, se fosse stato al mio posto avrebbe fatto lo stesso. E che dall'altro mondo, se ci vede, a noi della Dc non ci vuole male". freccia rossa che punta in alto

18 Settembre 2003 (Corriere della Sera)
Moro, simbolo di una tragedia irrisolta «Ma perché la sinistra ora lo ammira?»

- Incontro al «Corriere» dopo il film di Bellocchio tra il regista, un ex comunista e un ex democristiano Macaluso: in quelle sue lettere non c'era viltà. Follini: nessuna differenza tra il politico e il prigioniero - Franchi : partiamo dalle sequenze finali del film. Da una parte la Basilica di San Giovanni, quel funerale di Stato senza salma, quella classe dirigente muta, quasi spettrale, che dà quasi fisicamente il senso della fine della Prima Repubblica. Dall'altra, quel Moro «sognato», che se ne va libero per le vie di Roma e dà l'impressione di fuggire certo dalle Brigate Rosse, ma anche da quella classe dirigente. Bellocchio : la convinzione che ci fossero le condizioni per fare questo film non è stata dettata dalla volontà di affermare una tesi politica, ma dalla riflessione e dalla lettura di molti libri. Anche all'epoca, io ero fuori dalla politica attiva. Ma il sequestro prima e poi l'uccisione di Moro mi lasciarono sbigottito. Già allora mi chiesi, e poi ho continuato a chiedermi, se, proprio quando tutto sembrava già scritto secondo regole ferree, non si potesse trovare invece la forza di romperle, queste regole. Di cedere, apparentemente, ma in nome di un principio di libertà. Io non so e non voglio fare un'obiezione politica a tutte le ragioni, concrete e di principio, invocate per resistere, per non trattare, per rifiutarsi a gesti, anche unilaterali, che avrebbero potuto, forse, salvare la vita di Moro. Però so bene che qualcuno, non credo soltanto Craxi, anche altri, anche molti intellettuali, questa logica non la condivisero. Tutto ciò è stato quasi cancellato, quasi nascosto per anni. Macaluso : Bellocchio dice una cosa giusta: il suo è un film che vuole raccogliere nel pubblico un consenso fondato sulle emozioni che provoca. Lo dico perché, di questi tempi, in Italia, si discute anche di film che pretendono di offrirci «la vera storia» di questo o quel momento delle nostre vicende nazionali. Bellocchio, fortunatamente, fa una cosa diversa, ci racconta, da artista, i comportamenti, le sensazioni, i tormenti, le arroganze e, come lui stesso ha detto, le stupidità di quei 55 giorni nell'appartamento dove fu tenuto prigioniero Moro. Franchi: Ma questo film ha suscitato anche polemiche aspre.
Macaluso: Certo, e non possono essere ignorate. Io non sono d'accordo con Bellocchio: le divisioni non sono state nascoste, né allora né negli anni successivi, hanno attraversato la storia italiana, non foss'altro perché l'esecuzione di Moro significò anche la fine politica delle Brigate Rosse, e perché è da quel momento, non dal '92 e nemmeno dall'89, che inizia la crisi del sistema politico. Il Pci fu, come il gruppo dirigente della Dc, sulla linea della fermezza. E le ragioni per cui la scelse furono più d'una. Certo, era appena entrato nella maggioranza, doveva dimostrare con i fatti la sua fedeltà allo Stato e la sua intransigenza verso l'eversione di sinistra. Ma la generazione che entrava nella maggioranza aveva succhiato il latte dalla generazione precedente, quella del ferro e del fuoco, gente che aveva fatto anni e anni di carcere. La loro idea era: chi assume una responsabilità politica, deve sapere che c'è un rischio, e deve correrlo fino in fondo. A pensarla così, badate, non erano solo i comunisti. Così la vedevano anche Pertini, Valiani, La Malfa: comunisti, socialisti, azionisti convinti che la grazia non andasse chiesta né a Mussolini né alle Brigate Rosse. Per una parte della Dc e del mondo cattolico, per Moro, e anche per una parte della sinistra, la storia era diversa, perché diversa era la concezione della politica e del rapporto con lo Stato. Qui nasce la contraddizione, qui nasce la difficoltà, per i comunisti ma, più in generale, per tutti i laici del cosiddetto partito della fermezza, e anche per alcuni amici personali di Moro, di prendere atto che le sue lettere dal carcere brigatista non solo non erano un atto di viltà, ma esprimevano il suo modo di vedere il rapporto tra l'uomo, la famiglia, la politica e lo Stato. Penso che in questa contraddizione Moro sia rimasto stritolato, e che questa contraddizione, questo travaglio, dal film di Bellocchio, che ci mostra i personaggi «folli e stupidi», così li definisce lui, dell'appartamento, e la classe politica marmificata del funerale, non emergano appieno. Franchi : ma lei esclude che le Brigate Rosse fossero eterodirette? Macaluso : no, non lo ho mai creduto. Però fatico anche a credere, perché conosco il loro mondo, il mondo della politica e il mondo che sta attorno alla politica, che non ci siano state, delle intersezioni, degli intrecci, diciamo così, tra le Br e alcuni poteri visibili e soprattutto invisibili. Non dimentichiamo che Moro era anche un personaggio odiatissimo.
Follini : questo film ha due grandi meriti. Il primo è che sono più le domande che pone che le risposte che cerca di dare: riapre una ferita e molti dilemmi, togliendo di mezzo l'idea che quei 55 giorni siano stati, se così posso dire, una tragedia a lieto fine, nella quale abbiamo pagato prima con la vita di 5 uomini massacrati, poi con quella di Moro, la liberazione del Paese dall'incubo delle Br. Il secondo è che ci restituisce Moro per quello che era. Io l'ho conosciuto e lo ricordo così, anche in certi dettagli. Il Moro che dà del lei ai carcerieri può anche suonare ottocentesco, ma esprime un rispetto e anche un distacco un po' cattedratico che erano davvero suoi, così come l'attenzione e la curiosità per l'altro: ogni individuo rappresentava per lui un mondo irripetibile, anche la persona più lontana portava in dote qualche argomento. Il Moro prigioniero non era diverso dal Moro che ho conosciuto, quelle lettere esprimono il suo pensiero, il film aiuta a spazzare via la paccottiglia di quei giorni, spesso non proprio disinteressata, diffusa per sostenere che non erano moralmente ascrivibili a lui. La mancanza di senso dello Stato non c'entra niente. C'era forse un istinto di difesa personale, ma soprattutto un estremo tentativo di governare politicamente anche il più drammatico dei passaggi. Questo il film lo coglie. Mi convince meno la rappresentazione dei brigatisti. Troppo rispettosi, troppo ossequiosi, troppo attenti ad evitare che il gatto mangi il canarino. E fatico a capire quel segno della croce. Bellocchio : vuole esprimere la dimensione religiosa, in senso fondamentalista, dei brigatisti...
Follini : capisco. Ma alla fine viene fuori un'idea un po' troppo edulcorata dei terroristi. Sono perplesso, poi, su come nel film viene rappresentato il mondo delle istituzioni e del potere, che doveva decidere cosa fare in termini di gestione quotidiana di un Paese che aveva un apparato di sicurezza sotto scacco, e doveva reagire ad un colpo durissimo. Quanto a Moro: è stato nello stesso tempo il campione della democrazia consociativa e il campione dell'alternanza prossima ventura, a lui guardavano tanto i sostenitori di una grande coalizione destinata a guidare per un lungo periodo il Paese quanto quelli che invece pensavano che la naturale conclusione di quella stagione dovesse essere esattamente opposta. Questo problema Moro stesso non ebbe il tempo di risolverlo. Ma è stato l'uomo che si è avvicinato di più all'idea che il conflitto tra forze diverse potesse essere tenuto entro confini di civiltà, direi anche di umanità: lo conferma paradossalmente il fatto che applica questo canone perfino a coloro che lo hanno rapito e lo uccideranno. Detto questo, attenzione. Moro era certamente rispettoso e votato al confronto, ma sapeva essere durissimo nella contrapposizione, anche con i comunisti: non era un uomo dello scirocco. Macaluso : Bellocchio, ma lei che idea si è fatto dei brigatisti? Dal film non l'ho capito bene... Bellocchio : io cerco di raccontare la loro quotidianità mentre di là c'è un signore chiuso a chiave che interrogano e con cui in un certo modo dialogano e trattano. A sinistra qualcuno mi accusa per averli rappresentati all'acqua di rose, altri perché il Moro del film è troppo umano. Io non dico che fossero geni del male, queste categorie non mi appartengono. Ho detto, e confermo, che erano folli e stupidi. Moro in qualcosa mi fa venire in mente mio padre, ma nel rappresentarlo mi sono mosso in maniera assolutamente libera. Era molto più intelligente dei brigatisti perché aveva un rapporto con la realtà umana assai più sicuro, più profondo e più complesso. Loro, dietro l'ideologia, erano disumani. Follini : mi piacerebbe capire meglio la ragione che porta un regista di sinistra a fare un film come questo. Io all'epoca ero un giovane moroteo, ma l'opinione dominante vedeva in Moro il bastione del potere democristiano che doveva essere abbattuto. Perché questa ammirazione postuma? Lo stesso gruppo dirigente comunista guardava a lui come all'interlocutore naturale, ma temeva che fosse l'avversario più insidioso. Macaluso : se è per questo, oggi c'è una sinistra radicale che, probabilmente in omaggio alla questione morale, ha assunto per paradosso come riferimenti Moro e Berlinguer, due grandi mediatori, due teorici del compromesso, considerati gli unici leader salvabili della Prima Repubblica. Franchi : il Moro che se ne va libero alla fine del film mi ha rievocato una sensazione che provai anche in quei giorni, e cioè che molti, all'interno del partito della fermezza, temessero che Moro tornato in libertà sarebbe stato molto diverso dal Moro rapito il 16 marzo.
Follini : Moro aveva capito già nel '68 che il rapporto con il mondo giovanile era molto segnato. Era al vertice del sistema politico, ma intuiva che quella piramide aveva basi fragili, e quindi richiedeva alla politica una grande capacità di inclusione di tutto quello che ne era fuori. Questo è certo. Non sappiamo, invece, quale Moro sarebbe tornato, e quale peso avrebbe avuto, e se lo avrebbe utilizzato per puntellare quel sistema, o per aprirlo, o forse, chissà, per scardinarlo. Ricordo bene molti degli stati d'animo che lei descrive, non voglio aggiungere malizia, penso che tutti lo volessero sano e salvo. Ma certo c'era anche timore per un'incognita che non riguardava solo i rapporti politici, ma l'idea di rapporto tra potere e società che Moro si sarebbe potuto portare in spalla. (a cura di Paolo Franchi). freccia rossa che punta in alto

da Dagospia.it
"BUONGIORNO, BOTTE" - UN CLAMOROSO COSSIGA VEDE IL FILM DEL MAOISTA BELLOCCHIO E REVISIONA LA STORIA DEL DELITTO MORO: "LE BR NON SI ACCORSERO DI AVERE VINTO..."
Giorgio del Re per Sette del Corriere della sera

Del delitto Moro, del sequestro, di quello che è successo in quegli anni, ha parlato poco, pochissimo, e mai a cuor leggero. Francesco Cossiga all'epoca era ministro dell'Interno, e destinatario della lettera più dura di Aldo Moro, quella in cui dal covo brigatista lanciava la sua maledizione biblica: «Il mio sangue ricadrà su di voi». Ma dopo il dibattito che si è aperto sul film di Marco Bellocchio, il presidente emerito ha deciso di fare un'eccezione, vedere Buongiorno, notte per «Sette», e raccontare le emozioni e le riflessioni che questa visione gli ha provocato. È in vacanza in Sardegna (quando gli altri tornano a lavorare lui parte) in una località amena, proprio di fronte a Tavolara, accompagnato dalla sua «famiglia allargata». Le due più giovani collaboratrici del suo staff, Sabrina e Alessandra («Sono incantevoli, vero?»), gli uomini della scorta che vedono insieme a lui il film, in una cassetta della Rai. Durante la proiezione resta quasi sempre in silenzio: ogni tanto una notazione, un'immagine che ha colpito, un promemoria per quello che dirà dopo. Si emoziona - gli occhi lucidi - quando nella tv dei brigatisti rivede le immagini dei funerali della scorta, un gesto della mano, come per fugare una nuvola di pensieri e una frase che sembra parlar d'altro: «Funerali militari...». E poi quando Aldo Moro-Roberto chiama i carcerieri per legger loro la sua lettera al Papa: «Sì, sì... penso proprio che il suo rapporto con loro poteva essere di questo tenore». Una delle frasi più importanti di Giulio Andreotti sulle lettere di Moro gli provoca una piccola sorpresa («La suggerii io»), e la passeggiata finale una rivelazione: «Avevo pronta la lettera di dimissioni, la terza che ho scritto in quei terribili giorni: loro non capirono di aver vinto politicamente. Se avessero resistito per un giorno in più, nella Dc la linea della fermezza sarebbe svanita, io e Andreotti saremmo stati messi in minoranza da Fanfani e dai trattativisti». Dulcis in fundo la conferma di quello che Andreotti ha detto al Giornale: «Sì, è tutto vero, demmo il nulla osta all'ipotesi di un riscatto pagato dalla Santa Sede: Andreotti dice che informò Berlinguer, io posso dire che ne parlai con Pecchioli e lui mi rispose: "Se la cosa uscirà fuori protesteremo, ma non verrà meno il nostro sostegno"».
Presidente, posso iniziare da una do­manda indiscreta e molto personale? «Quale?». È vera la leggenda che i capelli grigi le diventarono bianchi, in una notte, per l'angoscia del sequestro? «In una notte è una leggenda. Cer­to si accelerò quel processo». Che effetto le fa questo Bellocchio, venticinque anni dopo? «Confesso, ho guardato il film con qualche prevenzione, temevo la solita ricostruzione dietrologica e priva di valore... ». E invece? «È un bel film. Lo dico anche forte della conoscenza di un vecchio ami­co, Franco Mauri, che nel 1940 scris­se da appassionato cinefilo un saggio sul realismo nel cinema sovietico». Franco Mauri il suo discepolo trentenne? «No, lo zio». Quindi il film le piace... «C'è del mestiere, nel senso alto del termine: l'arte senza l'artigianato non esiste. Naturalmente, si muove dalla realtà per creare un'altra storia e poi...». E poi? «Ho scoperto un'attrice straordina­ria, Maya Sansa, grande interpreta­zione: non la conoscevo. Conosco in­vece la Braghetti, che ho incontrato quando venne da me a perorare - e le credetti - la causa dell'innocenza del­la Mambro e di Fioravanti. Non mi parlò delle loro cose, forse perché sa­peva come la pensavo». È vero che lei ha conosciuto tre dei carcerieri di Moro?
«Sì, sono uomini e donne, e questo rende ancora più drammatico quello che è avvenuto. Si è detto che Bellocchio ha messo le Br sul lettino della psicanalisi: penso piuttosto che lui, da ex ragazzo maoista, abbia proiet­tato molto se stesso nel film. Le Br sono come lui vorrebbe che fossero sta­te, e la vicenda finisce come lui avreb­be voluto che finisse. Con i brigatisti che mostrano la loro potenza nel se­questro, e alla fine del processo di umanizzazione innescato dalla vicen­da rilasciano Moro. In questo c'è più di un desiderio...». Ovvero? «Credo che Bellocchio sia più figlio del '68 che del '77. La critica che gli faccio è di non rendere fino in fondo la drammaticità dell'evento. Ma lo fa per un motivo preciso: il '68 fu fonda­mentalmente un movimento di ribel­lione borghese, di cui non a caso i due leader principali erano Marcuse, che non trovò nulla di sconveniente nel fare uno studio sul movimento per conto della Cia, e un uomo come Adorno, che aveva ucciso la moglie...». Quindi secondo lei Bellocchio sovrappone date età diverse? «Ma certo. Non capisce che il '77 e il brigatismo, invece, furono una rivoluzione, velleitaria forse, ma nata da radici storiche, sociali e culturali ben più profonde: era il vero frutto della guerra fredda, erano i nipotini di Yalta, come dimostra bene la sequenza del canto partigiano alla commemorazione del padre della terrorista. Le loro radici erano nel mito della Resistenza tradita, la terza Resistenza che sognava la lotta di classe, e fu soppiantata dalla guerra di Liberazione e dalla guerra partigiana». C'è anche il comizio di Lama, però, in cui i brigatisti sono contrapposti ai partigiani, dal Pci... «Era un modo per difendere la sinistra dal coinvolgimento. Anche noi abbiamo usato le armi della manipolazione politica per mantenere con­senso: e a questo fine era più facile chiamarli assassini che rivoluzionari. Oggi in fondo le cose sono molto più grossolane: Berlusconi è un Duce e i comunisti mangiano i bambini...». Non è che si sta ricredendo sulla fer­mezza? «No! Io resto fermo, nonostante l'Unità, che allora fu colonna della fermezza e che ora, come scrive Francesco Merlo, inspiegabilmente diventa trattativista!». Battutaccia... «No, verità. Quell'articolo mi ha colpito: non condivido solo la parte sulla Faranda, perché non credo che debba tacere, non credo alla danna­zione dei colpevoli. Morucci e Faranda hanno passato un travaglio autentico che io conosco. E poi ci sarebbero molti altri in Italia, allora, che avrebbero dovuto tacere. I Ds...». Si prepara un'altra stilettata delle sue? «...Avendo letto il bel libro di Piero Fassino mi rendo conto che gli ex comunisti sono ormai preda di un revisionismo così profondo che presto cancelleranno Berlinguer: per questo non hanno difficoltà a cancellare la fermezza. E non è nemmeno un caso che oggi i Ds si incontrino con Prodi, trattativista di ieri». Ahi, ahi, quando lei cita quel nome... «No, perché? Anzi, le dico che una caduta di stile il film ce l'ha quando racconta la seduta spiritica in cui c'era Prodi, e in cui Bellocchio mette un agente dei servizi, che se tale fosse stato, non sarebbe andato in divisa da colonnello! Prodi...». Sempre a lui ritorna... «Solo per dire che è prova della sua forza il fatto che per quell'episodio egli non fu mai interrogato da nessu­na commissione e nessun magistrato: e dire che fu lui a passare questa notizia a Cavina, che poi la disse al mio capo-gabinetto, Zanda». Le Br: perché lei dice che il film spiega la loro sconfitta? «Perché non si accorsero di avere vinto: ma la parola fine alla solida­rietà nazionale la scrissero loro. È la non compiutezza della solidarietà na­zionale che impedisce il vero bipolarismo e che porta ancora oggi a una visione della politica come lotta tra bene e male». Quindi le Br non capirono di essere a un passo dalla vittoria finale? «Sì, e l'avrebbero avuta perché io e Andreotti saremmo finiti in minoranza. Poi non hanno capito che Moro libero avrebbe avuto effetti altrettanto dirompenti: io sono stato costretto a raccontare che Pecchioli venne da me a dire, dopo la lettera che mi mandò: "Per noi è politicamente morto". Malgrado ciò, noi li abbiamo sconfitti militarmente». E il dibattito sul fatto che forse i brigatisti si potevano prendere? «All'epoca del sequestro i servizi erano quasi smantellati: solo dopo appresi che qualcuno aveva contatti con le Br...». Signorile? «...Una parte del Psi. Se loro ce lo avessero detto, forse saremmo arrivati a Moro vivo». E il fatto che ci fosse un pezzo di Stato che lavorava contro la liberazione? «Fesserie». E l'influenza della P2? «No... Vada da Licio Gelli e gli chieda cosa pensava di Moro». È vero che quella frase sulle lettere di Moro, «moralmente inautentiche», la scrisse lei e la disse Andreotti? «Sì: allora gli psichiatri del ministero avevano questa tesi, Scoppola lo pensa tuttora...». E lei? «Mi sono convinto di avere sbagliato. Quello era davvero Moro. Tentò fino all'ultimo di trattare con le Br, aveva capito fino in fondo il fatto che le Br erano un soggetto politico, e puntavano a un riconoscimento. Io non avevo capito fino in fondo che loro erano l'album di famiglia della sinistra, lui sì. Non dimentichiamo che solo Giampaolo Pansa ebbe il fegato di andare ai cancelli della Fiat e scrivere in un pezzo che a molti operai non gliene fregava nulla di Moro». Per questo l'idea brigatista della «propaganda armata» aveva spazio? «Senza il Pci e senza la fermezza sarebbe passata senz'altro». E cercare di salvarsi per Moro fu vigliaccheria, come pensarono molti? «No. Io ho riletto le sue lettere infinite volte e ho capito la nostra diversità. Io ero un cattolico liberale e mettevo sopra tutto lo Stato. Lui era un cattolico sociale, e per lui la vita di suo nipote valeva più di ogni altra cosa. Andreotti aveva l'etica politica della Chiesa, che mai e poi mai avrebbe accettato la malvagità dell'atto violento». Ma lei mi ha detto che era disposto a pagare! «Pagare sì: mi dissero che avevano già trovato i soldi, ma era quasi una forma di disprezzo: il canale di contatto veniva dai cappellani carcerari e dalle confessioni, per questo è rimasto segreto. Ma riconoscere no». Eppure lei pensa che la trattativa non poteva riuscire? «Oggi so che le Br non avrebbero mai accettato un riscatto». freccia rossa che punta in alto

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