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Roberto bartali.it

Ottobre 2003

22 Ottobre 2003 (Corriere della sera)
Quei «nuclei» che cercano spazio sotto la stella brigatista

ROMA - Hanno impiegato venti pagine scritte e incolonnate al computer, sotto l'intestazione «Brigate rosse» completa di stella chiusa nel cerchio, per dire che «lo strumento della lotta armata» consiste anche in un modesto ordigno fatto esplodere sul davanzale di una finestra. L'avanguardia restano le Br «per la costruzione del partito comunista combattente» che hanno colpito i «nemici di classe» D'Antona e Biagi, ma adesso sul terreno dello scontro si presentano le «Br-Guerriglia metropolitana per la costruzione del Fronte combattente antimperialista». Secondo gli analisti dell'Antiterrorismo, il documento fatto trovare l'altra sera sancisce l'evoluzione degli Nta, i Nuclei territoriali antimperialisti che dal '95 in poi hanno compiuto mini-attentati sparsi soprattutto nel Triveneto, sul tipo di quello contro l'Informest di Gorizia. Oggi la nuova formazione annuncia una campagna di «fattivi e ineludibili passaggi politici, logistici e militari» e afferma che tutto ciò avviene «nel riconoscimento del percorso concretamente rivoluzionario proposto in questi anni dall'organizzazione Nta». Quei Nuclei tentano di diventare una nuova componente delle Br, così come nel '99 una parte degli Ncc (Nuclei comunisti combattenti) si trasformò nelle Br-pcc che hanno ucciso D'Antona. Qui il «livello di scontro» è più basso, ma anche questo per l'Antiterrorismo è un segnale: in un momento in cui le Br-pcc sono ancora in difficoltà per il colpo subito con l'arresto di Nadia Lioce e l'uccisione di Mario Galesi (quest'ultima debitamente «celebrata» a pagina 19 del documento), nuovi «combattenti» si propongono di affiancare l'organizzazione con altre azioni di propaganda armata, seppure minori. In particolare rilanciando la campagna internazionale della «iniziativa rivoluzionaria»; le Br-Guerriglia metropolitana annunciano infatti di voler «esercitare ruoli e compiti di direzione dentro il percorso rivoluzionario in atto e, nello specifico, dentro quello che oppone Imperialismo ad Antimperialismo». Gli obiettivi futuri dovrebbero dunque essere di carattere internazionale, anche se molte pagine riguardano la situazione interna, i progetti «neo-corporativi» del governo e la presunta complicità dei sindacati. Nel volantino si parla degli attentati dell'11 settembre 2001 e si esaltano le azioni delle Brigate Al Aqsa e di Hamas «in Palestina», delle Farc colombiane e di Sendero Luminoso in Perù, del Grapo in Spagna e della «17 novembre» in Grecia, dei «feddayn di Saddam» e degli hezbollah libanesi, degli indipendentisti corsi, dei contadini boliviani e dei «guerriglieri ceceni massacrati dall'esercito di Putin». E si ricorda che le stesse Br-pcc guardavano all'estero siglando il patto di unità d'azione con la Raf tedesca. L'interesse della nuova sigla e del nuovo documento, per gli analisti, è ancora maggiore poiché arrivano all'indomani dell'ultimo proclama fatto uscire dal carcere da sette detenuti «irriducibili» che ancora sottoscrivono le azioni delle Br. I «militanti prigionieri» hanno scritto che «il rapporto di guerra» con lo Stato va coltivato «fin da subito anche a partire da nuclei esigui di avanguardie rivoluzionarie». E hanno ribadito l'importanza di «istanze e nuclei che hanno preso concretamente posizione sia in appoggio all'iniziativa delle Br, sia assumendosi la responsabilità di disporsi nello scontro con contenuti e pratiche offensivi», cioè con attentati anche piccoli. Se l'interpretazione dell'Antiterrorismo è esatta, uno di quei Nuclei ha raccolto l'appello e cerca un proprio spazio sotto la stella brigatista. freccia rossa che punta in alto

24 Ottobre 2003 - Terrorismo, sei fermi per l'omicidio D'Antona.

La polizia ha catturato nella notte sei appartenenti alle Br, considerati i responsabili materiali dell'omicidio di Massimo D'Antona, il consulente del ministro del Lavoro ucciso a Roma il 20 maggio del 1999. Il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu dice: "Crediamo di aver individuato i responsabili dell'omicidio D'Antona e anche quelli dell'omicidio Biagi". "Siamo garantisti e aspettiamo il giudizio definitivo della magistratura". Tre uomini sono stati arrestati a Roma, un uomo e una donna a Firenze e a Pisa, un'altra donna, romana, in Sardegna. I pool anti-terrorismo delle Procure di Roma, Firenze e Bologna hanno coordinato l'operazione che è scattata nella notte. I provvedimenti sono stati emessi nei confronti di Paolo Broccatelli, 35 anni, Laura Proietti, 30 anni, Marco Mezzasalma, 44 anni, Cinzia Banelli, 40 anni e Roberto Morandi, 43 anni e Alessandro Costa, 33 anni. Sono tutti accusati del reato di banda armata e tutti, tranne Alessandro Costa, sono indagati per "finalità terroristiche" nell'omicidio di Massimo D'Antona. Stando alle prime indiscrezioni i fermi sarebbero stati emessi per "motivi di urgenza operativa": c'erano i pericoli di fuga degli indagati, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Gli investigatori sono coordinati dai pm romani Franco Ionta e Pietro Saviotti. "L'operazione di oggi rappresenta il risultato di un enorme sforzo investigativo. Si tratta di un buon risultato, ma ci sarà da lavorare ulteriormente", dice Ionta. Laura Proietti è stata catturata a Poltu Quatu in Costa Smeralda, dove sembra che lavorasse in un bar. A inchiodarla la prova del dna: gli investigatori che la seguivano da tempo nella Capitale avevano recuperato un mozzicone di sigaretta appena gettato, da cui è stata recuperata la prova. Il profilo del dna è identico a quello di un frammento di capello trovato nel furgone utilizzato per l' attentato a D' Antona. Le due persone arrestate in Toscana, invece, lavorano in ambienti ospedalieri. Sarebbero anche responsabili della rapina all'ufficio postale di via Torcicoda, avvenuta a Firenze il 6 febbraio scorso e della fallita rapina alle Poste di via Tozzetti, che risale al 5 dicembre scorso. Gli investigatori ritengono che entrambi i colpi siano stati messi a segno nel tentativo di autofinanziare l'organizzazione. A Roma è stato poi scoperto, nel quartiere Quadraro, un covo a cui avrebbe fatto capo un gruppo di brigatisti. Gli investigatori sono arrivati all'abitazione grazie a un mazzo di chiavi sequestrato a Nadia Desdemona Lioce, la brigatista protagonista della sparatoria del 2 marzo scorso sul treno Roma-Arezzo. In casa c'era una donna, una disabile di 46 anni. Sarebbe stata usata come copertura. La donna, infatti, vive nell'abitazione dal 1999. In quella casa avrebbero dormito spesso anche la Lioce e Galesi, con la scusa di fare assistenza domiciliare. Secondo gli investigatori l'appartamento è stato "un sicuro punto di riferimento dell'omicidio D'Antona". Tanto da essere utilizzato anche in tempi precedenti all'arresto della Lioce. I fermi sono il frutto di mesi di indagini, partite dalla sparatoria del 2 marzo scorso sul treno Roma-Arezzo, che costò la vita a Mario Galesi, e al sovraintendente di polizia Emanuele Petri. Gli investigatori sequestrarono alla Lioce due computer palmari attraverso i quali hanno individuato gli altri componenti del gruppo. L'operazione è stata possibile grazie al ritrovamento di due numeri di utenze cellulari all'interno di una casella di posta elettronica. La Lioce e Galesi erano da tempo nel mirino della Digos di Roma come elementi centrali delle Nuove Brigate Rosse. Le prime ordinanze di custodia cautelare furono emesse nell'ottobre scorso, insieme a quelle di Michele Pegna e degli irriducibili delle Br rinchiusi nel supercarcere di Trani. Sono Antonino Fosso, Michele Mazzei, Francesco Donati e Franco Galloni. Secondo la ricostruzione della Procura di Roma i sei fermati avrebbero "partecipato e organizzato, in concorso tra loro e con altre persone alla banda armata e alla associazione eversiva Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente". freccia rossa che punta in alto

26 Ottobre 2003: I SEGRETI DELLE BR

ROMA - I nomi di battaglia scritti per esteso sono otto, cinque uomini e tre donne: Aldo, Andrea, Barbara, Beppe, Maria, Paolo, Roberta e Ugo. Poi ci sono nove iniziali o sigle puntate - tipo «P.», «Co.» e altre - riferite ad altrettante persone. Il totale fa diciassette. Il che significa che, se pure tutti i sette fermati o arrestati dell'altro giorno sono effettivamente militanti delle Brigate rosse, sommandoli a Nadia Lioce e a Mario Galesi, si arriva a nove persone individuate. Vuol dire che all'appello mancano ancora - almeno - altri otto terroristi. Forse di più, se quei diciassette nomi o sigle ricavati dal computer palmare della Lioce non comprendono tutti i neo-brigatisti in servizio; o forse di meno, se tra gli indagati non ancora finiti in carcere ce n'è qualcuno già sotto controllo. Fatto sta che i conti ancora non tornano: anche all'indomani della più incisiva operazione antiterrorismo portata a termine dopo la ricomparsa delle Brigate rosse restano dei brigatisti in libertà. E poi mancano le armi. Non solo la pistola calibro 9 corto «di marca allo stato imprecisabile» che ha ucciso Massimo D'Antona e Marco Biagi. L'arsenale delle nuove Br - che comunque non dev'essere granché se due latitanti come Lioce e Galesi andavano in giro con una sola arma, una semiautomatica Beretta 7,65 con numero di matricola abraso - comprende almeno due mitragliette Uzi, bombe a mano Srcm da esercitazione, e qualche calibro 38. Anche questi dati emergono dal computer palmare caduto in mano agli investigatori dopo la sparatoria del 2 marzo, che ha provocato la morte di Galesi e l'arresto della Lioce. Dopo la «retata» dell'altra notte e le 101 perquisizioni che l'hanno accompagnata, il lavoro dell'Antiterrorismo prosegue per trovare i brigatisti mancanti e pareggiare i conti del «settore logistico» dell'organizzazione. Devono saltar fuori i covi e i mezzi di trasporto: tre furgoni o furgoncini (un Fiorino, un'Ape e un Seat Terra), almeno due auto (una 500 e una Fiat Uno), cinque motorini (un Geo Peugeot nero, una Vespa, un Honda Sh 50, uno Scarabeo avana e un Free), due biciclette. Una grigia e una bleu. Mezzi utilizzati negli spostamenti durante le «inchieste», nelle rapine, nei due omicidi firmati dalle Br. O per muoversi nelle città. A parte Roma, Firenze e Bologna, prima dei nuovi arresti erano state rilevate tracce della presenza di brigatisti a Pistoia, Siena, Empoli, Livorno e Pontedera. L'esiguità delle strutture e dei soldi a disposizione dell'organizzazione, oltre che la «caduta» di due militanti del peso di Lioce e Galesi, è probabilmente uno dei motivi per cui le Br stavano lavorando a una «risoluzione» nella quale si indicava la necessità della «ritirata strategica». Il documento, ancora in elaborazione, sarebbe stato trovato a Roma, in casa di uno degli arrestati l'altra notte, Marco Mezzasalma. Ma fino al marzo scorso l'interruzione dell'offensiva non era nei programmi, se nell'agenda elettronica erano annotati progetti di nuovi attentati (come quello per colpire il «dialogo tra le parti sociali» (probabilmente contro il presidente della Commissione sugli scioperi Martone) e strategie politiche da elaborare. «Occorre procedere all'elaborazione delle linee e della ricerca di obiettivi politico-militari, nonché alla definizione di uno schema di previsioni politiche sulla guerra, sul referendum, sulle deleghe, sulle elezioni amministrative, sul Dpef, sul presente italiano, sulle riforme istituzionali, su federalismo e forme di governo», è scritto in una pagina del palmare. E ancora: «Definire meglio il ruolo che vanno a svolgere nello scontro componenti come Cofferati, la Cgil e la Fiom». Tutto questo, secondo le nuove regole interne all'organizzazione, deve avvenire col contributo di tutti i militanti. In alcuni documenti si fa cenno agli «elaborati teorici» prodotti in ossequio alla norma che sancisce «l'unione del politico col militare», com'è sempre stato nella tradizione brigatista. Significa che non ci sono teorici e pratici, professori e manovali: tutti devono fare tutto, contribuire al dibattito politico come partecipare alle inchieste e all'«attività di reperimento». Negli scritti trovati alla Lioce c'è l'eco delle frizioni verificatesi quando qualche militante «irregolare» s'è lamentato di essere impiegato solo in furti e attività minori, rivendicando un ruolo di maggiore prestigio nella «prassi». La risposta è stata che il «rivoluzionario di professione» deve piegarsi alle esigenze del gruppo che prevedono anche quei compiti. E all'organizzazione deve dedicare la sua intera attività il cosiddetto «militante complessivo», la figura che viene indicata come modello per le nuove Br.
All'interno di questa definizione, gli investigatori ritengono di aver individuato diverse categorie di militanti, a partire dai regolari (clandestini e non) e dagli irregolari. Le definizioni sono mutuate dalle Br degli anni Settanta, ma i comportamenti cambiano con i contesti in cui ci si muove. Il livello di impegno varia a seconda del tempo che si può dedicare alle Br. Nel processo interno cui è stata sottoposta si legge che la «compagna So», che per i magistrati è Cinzia Banelli, «prendeva ad esempio il caso dell'apporto di altri compagni, collocati e rimasti in un rapporto di livello inferiore che prevedeva un'attività meno impegnativa, sono rimasti interni e rispetto al livello iniziale sono cresciuti». La possibilità di dichiararsi «prigioniero politico» di fronte a magistrati e forze dell'ordine è riservata ai regolari. L'ha fatta la Lioce, che era ricercata e quindi clandestina, e l'ha fatta ieri Roberto Morandi, che ricercato non era. Chi dovesse essere preso in compagnia di un regolare senza esserlo, deve dichiararsi genericamente «militante rivoluzionario». Tra i compiti dei brigatisti c'è pure quello di tenere i contatti con i «rapporti locali», probabilmente irregolari, come faceva la «compagna So», mentre le nuove Br si sono date la regola di non accettare al proprio interno i brigatisti della stagione precedente. A meno che, commentano gli analisti, non siano rientrati in clandestinità proprio per proseguire la lotta armata, come si ipotizza per Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. In ogni caso, in uno dei documenti saltati fuori dall'archivio elettronico è scritto che l'organizzazione «esclude di ricercare processi aggregativi con forze militanti provenienti da una fase di scontro precedente». Questo perché sarebbero «esposti all'attività della controrivoluzione», cioè di investigatori e inquirenti che li conoscono e probabilmente li sorvegliano. Ma anche perché dall'elaborazione teorica trovata nel palmare su evince che nell'organizzazione si entra dal basso, senza i ruoli dirigenziali che un vecchio brigatista potrebbe rivendicare. «Militanti complessivi» si diventa alla fine di un lungo percorso, sottolineato da Nadia Lioce a proposito di Mario Galesi: «Ha avuto la volontà politica di mettere a disposizione della rivoluzione le proprie energie senza limiti né condizionamenti estranei agli scopi rivoluzionari... Una disponibilità che connota il militante delle Br e che costituisce sempre una condizione primaria affinché sempre più ampi spezzoni di classe possano far avanzare il processo rivoluzionario». freccia rossa che punta in alto

(Il Messaggero): PELLEGRINO: "Restano in pochi, non più di dodici".

ROMA - «Il fatto che non si sia mai voluto indagare fino in fondo sul nucleo toscano delle Br ha consentito alla struttura terroristica di sopravvivere alla propria sconfitta, di riorganizzarsi e di compiere altri omicidi». È l'amara riflessione di Giovanni Pellegrino, l'ex presidente della commissione Stragi che per due legislature, dal '94 al 2000, ha indagato sui fenomeni eversivi italiani. Sei arrestati e altri due terroristi identificati. Nadia Lioce presa con le armi in pugno sul treno Roma-Firenze nella primavera scorsa e il suo compagno morto nella stessa sparatoria. Si può considerare chiusa la partita? È davvero un colpo definitivo quello inflitto con gli arresti di ieri? «È certamente un'operazione importante che può aprire la strada alla sconfitta delle nuove Brigate rosse, ma soltanto se si avrà il coraggio stavolta di andare fino in fondo. Ho sempre pensato che il nucleo sopravvissuto non superi a livello operativo le venti persone: ne abbiamo scoperte otto. Benissimo. Ne mancano ancora dodici e poi c'è quel livello superiore mai identificato». Il lavoro d'indagine sull'omicidio D'Antona è uno degli ultimi svolti dalla commissione Stragi? «Sì e l'operazione di oggi conferma quella che all'indomani del delitto era stata la nostra ipotesi investigativa: ad uccidere erano stati i "giapponesi", così li chiamavamo, cioè quel piccolo gruppo convinto che la guerra contro lo Stato potesse continuare a oltranza. Quelle Br-Pcc che avevano puntato tutta l'attenzione sui progetti riformatori del mondo del lavoro e che speravano di radicarsi nelle fabbriche. Lo stesso gruppo che a cavallo degli anni Novanta aveva portato a compimento gli omicidi del sindaco di Firenze Lando Conti e del consigliere di De Mita Roberto Ruffilli. Lo stesso che due anni fa è tornato allo scoperto a Bologna con Marco Biagi». E che prima di D'Antona aveva portato a termine un attentato molto sofisticato alla sede dello Iai di via Brunetti ? «Sofisticato per le modalità dell'agguato: esplosivo fatto detonare attraverso un timer collegato ad un telefonino. Ma anche come obiettivo per il rilievo e il significato che assume un attentato all'Istituto affari internazionali. Dunque c'è ancora in circolazione qualche bel cervello». Forse il vero cervello delle Brigate rosse che fin dai tempi del sequestro Moro ha agito a Firenze indisturbato? «Non vorrei andare troppo lontano nel tempo. Ma certo il fatto che non sia mai stato scoperto chi fosse l'Anfitrione del covo di via Barbi, dove durante il sequestro si riuniva il comitato esecutivo delle Br, e che noi sospettammo essere Giovanni Senzani ha consentito alla nuova generazione di riorganizzarsi. Un'informativa del Sismi assicurò che Senzani in quel periodo era negli Usa, ma nessun accertamento è stato fatto per stabilire se questa fosse la verità». freccia rossa che punta in alto

27 Ottobre 2003 (Misteri d'Italia)
CASO MORO: PER PELLEGRINO NON FU UCCISO A VIA MONTALCINI

- Aldo Moro non fu ucciso nel garage di via Montalcini. Da quel covo il presidente della DC "fu portato via prima del fatale 9 maggio: quando i brigatisti hanno descritto il trasporto di Moro da una cesta di vimini dall'appartamento di via Montalcini al bagagliaio della Renault 4 parcheggiata nel box dell'immobile, forse hanno raccontato una scena realmente avvenuta, ma qualche giorno prima". Pellegrino, presidente della commissione Stragi per due legislature, dal 1994 al 2001, torna sul sequestro di Aldo Moro e sul mistero dei covi delle Brigate Rosse ancora sconosciuti. Secondo Pellegrino, sulla base delle conoscenze acquisite in commissione, vi fu un'altra prigione dove Aldo Moro fu tenuto prigioniero per poco tempo prima dell'esecuzione. La nuova dichiarazione dell'ex senatore DS sono contenute nel volume di Rita Di Giovacchino, giornalista del Messaggero, dal titolo Il libro nero della Prima Repubblica (Edizione Fazi). "In molti in commissione - afferma Pellegrino - ci eravamo convinti che Moro fosse stato trasferito nel ghetto ebraico, zona che era già stata oggetto di indagine da parte dei giudici Ferdinando Imposimato e Rosario Priore". La seconda ipotesi che l'ex presidente della commissione Stragi avanza sul sequestro Moro riguarda il memoriale. Quelle carte furono oggetto di una sorta di "scambio" tra le BR ed apparati di intelligence. "Si trattava di documentazione sensibile e cioè tale da allertare i timori dei servizi segreti occidentali e gli apparati del KGB e di altri servizi segreti dei paesi del Patto di Varsavia: cecoslovacchi, rumeni, bulgari". La strategia, secondo Pellegrino, fu duplice: "da un lato i servizi segreti orientali che si posero l'obiettivo di carpire questi segreti, dall'altro l'intelligence occidentale che tentò di coprirli. Credo che se Dalla Chiesa fosse stato ancora vivo ci avrebbe aiutato a far chiarezza su questo aspetto della vicenda". Il riferimento di Pellegrino a Dalla Chiesa è particolarmente curioso e anche piuttosto malizioso. Tutti sanno che il primo ad occuparsi del memoriale di Aldo Moro - trovato nell'ottobre del 1978 nella base BR di via Moontenevoso a Milano - fu proprio il gen. Dalla Chiesa, e il primo a gestirlo fu un suo braccio destro, il col. Umberto Bonaventura. freccia rossa che punta in alto

30 Ottobre 2003 (Corriere della Sera)
LA RICOSTRUZIONE

«Moro, ecco chi portò via le carte di Monte Nevoso» Faccio le fotocopie e te le rimando indietro». Domenica primo ottobre 1978; ore 11.15. A Milano in via Monte Nevoso un ufficiale dei carabinieri esce dal covo delle Brigate rosse appena scoperto con una valigetta di pelle marrone. Dentro ci sono le carte di Aldo Moro: interrogatori, appunti e lettere scritti durante il sequestro nella «prigione del popolo». Un mucchio di fogli che nessuno ha ancora contato o catalogato, portati via prima che qualunque magistrato possa esaminarle. Quelle pagine tornano in Monte Nevoso solo alle 17.30. Ed è intorno a questo buco nero lungo più di sei ore che continuano a intrecciarsi i misteri della Prima repubblica, inclusa la vicenda del delitto Pecorelli. Ora la cronaca dell'irruzione nella base brigatista viene descritta dal protagonista, Roberto Arlati, all'epoca capitano agli ordini di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Le memorie dell'ex ufficiale raccolte dal giornalista Renzo Magosso saranno in libreria la prossima settimana. E il volume edito da Franco Angeli è destinato a far discutere, a partire dal titolo «Le carte di Moro, perché Tobagi». Perché secondo Arlati e Magosso un unico filo oscuro unisce le due vicende. A portare via le carte di Monte Nevoso infatti sarebbe stato l'allora capitano Umberto Bonaventura. L'ufficiale, diventato poi dirigente del Sismi, è morto lo scorso ottobre alla vigilia della deposizione davanti alla Commissione Mitrokhin. È lui che - ricorda Arlati - si fece consegnare i documenti: «E che non ti fidi di me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto. Tra un paio d'ore arriva anche il generale. Le vuole leggere e non qui, davanti ai tuoi uomini». Davanti alla Commissione stragi Bonaventura nel 2000 si limitò a dire di «essersi fatto mandare» il dossier su Moro e non di averlo ritirato personalmente. E Arlati non può dire nulla sulla sorte delle pagine. Ma nel libro più volte vengono sottolineati i contrasti tra gli uomini dell'Antiterrorismo e altri ufficiali iscritti alla P2. Contrasti che avrebbero determinato l'allontanamento della squadra di Arlati dal covo prima che venissero completate le ispezioni nelle pareti alla ricerca di rifugi murati, come quello che solo 12 anni dopo fece riemergere altre carte di Moro. Giochi di potere che - secondo il libro - avrebbero influito su un terribile errore di valutazione. Arlati dichiara che uno dei suoi uomini - chiamato in codice «Ciondolo» - aveva segnalato con sei mesi di anticipo la minaccia a Walter Tobagi, il giornalista del Corriere assassinato il 28 maggio 1980. Ma la sua informativa rimase nei cassetti per anni. freccia rossa che punta in alto

31 Ottobre 2003 (Corriere della Sera)
Regolari e irregolari, i due «giuramenti» delle Br
La formula di iniziazione delle reclute trovata nel palmare della Lioce. Stabiliti tre livelli di «impegno»

ROMA - Il dibattito era in pieno svolgimento all'inizio di questo 2003 che ha visto la ricomparsa delle Brigate rosse sul treno diretto Roma-Firenze, la mattina di domenica 2 marzo, quando una pattuglia della polizia ferroviaria intercettò i «militanti complessivi» Mario Galesi e Nadia Lioce. Bisognava stabilire le regole per reclutare nuove forze e irrobustire una rete definita «troppo esigua» dagli stessi brigatisti. Cercando di ottenere, dalle persone disposte a entrare nell'organizzazione, una sorta di adesione formale, con tanto di dichiarazione d'intenti sul «livello di internità» che volevano assumere. Dal controllo della Polfer nacque lo scontro a fuoco che uccise il sovrintendente di polizia Emanuele Petri e il brigatista Galesi. Nadia Lioce finì in carcere e il suo computer tascabile, il palmare Psion serie 5MX, nelle mani degli investigatori. Con tutti i suoi documenti segreti. Compreso quello in cui si discute l'ipotesi di predisporre una formula da sottoscrivere al momento dell'ingresso nelle Br. «Viene proposto - si legge in un file del palmare - il criterio di porre nei passaggi di formalizzazione di rapporti stabili con proletari e compagni rivoluzionari che compiono il passaggio di adesione alla proposta politico-organizzativa delle Br, la dichiarazione di riconoscimento nella linea politica e nei principi organizzativi, e la dichiarazione del tipo di rapporto in cui s'intende entrare; in particolare se ci si vuole relazionare concretamente all'obiettivo della costruzione dell'organizzazione dei rivoluzionari di professione oppure se si vuole concorrere a questo fine senza assumersi in prima persona questa responsabilità, in un rapporto organizzato ma esterno». In sostanza, bisogna dire prima se si vuole essere brigatisti a tempo pieno o a mezzo servizio. Tra i partecipanti al dibattito, ce n'è uno che suggerisce perfino le domande formali e in qualche modo solenni da sottoporre all'aspirante brigatista: «Riconosci la strategia della lotta armata e la linea politica che propongono le Br? Elemento determinante di questa è il Pcc (partito comunista combattente, ndr ) e la sua costruzione; il tuo riconoscimento si qualifica come un'intenzione di costruire-fabbricare il Pcc, ossia un'organizzazione di quadri politico-militari, militanti di professione, disponendoti personalmente in funzione della realizzazione di questo obiettivo? Oppure sei intenzionato solo a partecipare allo scontro seguendo la direzione politica delle Br?». Sono domande che ricordano riti d'iniziazione dal sapore quasi mistico, ma chi le propone avverte: «Questa dichiarazione non comporterebbe nessun automatismo, le scelte di integrazione in un rapporto organico vanno prese da una sede dirigente. Questa dichiarazione non ha un carattere definitivo, ma sancisce solo una candidatura, o il tipo di relazione che s'imposta e il tipo di apporto». Evidentemente le Br sono rimaste segnate dai problemi sollevati da chi aveva promesso un certo tipo di «relazione» e poi non era stato in grado di sostenerla. Per questo la «compagna So» - che secondo gli inquirenti è la pisana Cinzia Banelli, arrestata nel blitz della scorsa settimana - è finita sotto procedimento disciplinare. Ma non solo lei ha deluso le attese dei brigatisti: «Uno spunto nasce dall'analisi sull'indisciplina di Barbara. Un altro dalle difficoltà espresse da Co.. Un altro da (...) vincoli temporali e sociali che condizionano l'attività imponendo di fare scelte dipendenti non dall'efficacia rispetto all'obiettivo, ma da questi vincoli. Un altro ancora dalla posizione espressa da Lu. sulla sua intenzione di doversi occupare della sua famiglia». Troppe questioni private, par di capire, s'intromettevano e forse s'intromettono ancora nella militanza di chi ha aderito alle Br e finisce per mettere in secondo piano le esigenze dell'organizzazione. Di qui l'idea della formula di adesione formale, con tanto d'impegno sul tipo di disponibilità che si ha intenzione di garantire. E di qui la decisione di istituire una terza categoria, intermedia tra il «regolare» a tempo pieno e l'«irregolare» part-time : «Date le condizioni storiche e la necessità di avere forze che possano essere radicate e presenti nel campo proletario, e nello stesso tempo di avere il massimo di agibilità nel lavoro militante, si riconosce la figura del semiregolare». In un altro passo del documento, indicandoli dal basso in alto, vengono descritti i diversi gradi di adesione alle Br: «Sono identificabili tre livelli. Gli apporti attivabili in base alla loro disponibilità a occasione (gli irregolari, ndr ). Gli apporti attivabili in base a una disponibilità stabile ma vincolata e non svincolabile (i semiregolari, ndr ). Gli apporti attivabili senza riserve», cioè i regolari, che non necessariamente devono essere clandestini e sparire dalla circolazione come avevano fatto Lioce e Galesi, anche prima di diventare latitanti. I regolari non ricercati possono restare a casa con moglie e figli, svolgere anche un lavoro «pulito», ma il loro primo pensiero restano le Brigate rosse e il partito comunista combattente. In base a ciò che hanno detto e a quel che viene fuori dalle vite vissute finora, gli investigatori ritengono che Roberto Morandi (proclamatosi «prigioniero politico» e militante delle Br-pcc) fosse un regolare, sebbene non clandestino. Simone Boccaccini, invece, sedicente «militante rivoluzionario» semplice, potrebbe essere un semiregolare o un irregolare. Dipende da quello che si accerterà sulla sua partecipazione alle azioni e alla propaganda delle Br. Adesso sono in carcere come altri presunti brigatisti, che però ancora non hanno aperto bocca con i magistrati, e forse in cella si faranno (o torneranno a farsi) la domanda dell'iniziazione: «Riconosci la strategia della lotta armata e la linea politica che propongono le Brigate rosse?». freccia rossa che punta in alto

(Il Manifesto) «Queste Br, non figlie nostre»
Barbara Balzerani: «Il rapporto tra movimento e organizzazioni armate è abissalmente diverso da quello dei '70. Oggi non c'è spazio alcuno per l'opzione armata. Allora se ne parlava ovunque. Noi volevamo la rivoluzione. Questa invece è un'opposizione sociale e alla guerra»

ROMA - Tra le nuove Br e il movimento di oggi ci sarebbe, stando alle dichiarazioni e alle interviste che circolano in questi giorni, un rapporto identico, sia pure in formato minore, a quello che sussisteva una trentina d'anni fa tra le organizzazioni armate e le aree più radicali del movimento. Un rapporto se non di fiancheggiamento almeno di colpevole silenzio e di omertà. Un rapporto reso ambiguo, secondo l'ex militante di Prima Linea Sergio Segio, dal non ammettere che i nuovi brigatisti vengono dalla stessa area del sindacalismo di base e dei disobbedienti. Barbara Balzerani, che delle Br è stata dirigente più a lungo di chiunque altro, non concorda. Qual è la differenza tra il rapporto Br-movimento oggi e negli anni `70? È abissale. È una differenza complessiva, di ambito, di contesto storico e culturale. Davvero non riesco a capire di cosa parli Sergio Segio. Più specificamente? Allora c'erano migliaia di militanti nelle organizzazioni armate, e le azioni militari erano centinaia. Non dico che i gruppi armati fossero maggioritari nel movimento. Ma i militanti erano davvero migliaia. Dal quel che si capisce, oggi si tratta di un gruppo molto ristretto, una quindicina di persone che in 15 anni ha fatto due azioni militari. Restano fatti gravissimi, è ovvio, ma si tratta di un fenomeno residuale. In Italia non c'è un'emergenza terrorismo. Pensi che il movimento mantenga margini di ambiguità e che dovrebbe prendere maggiormente le distanze da quelle frange residuali armate? Ma da cosa dovrebbero prendere le distanze? Il ragionamento di Luca Casarini, nell'intervista a Repubblica, mi pare del tutto condivisibile. E non è ambiguo, dice cose molto chiare. Togliamo per favore il velo dell'ipocrisia: nel mondo si commettono crimini orrendi, qui si parla di comportamenti illegali. Non mi sembra proprio che questo movimento esprima un'attitudine politica e pratica come quella che abbiamo conosciuto negli anni `70. Anche perché è un movimento che viene da una sconfitta storica: non solo la nostra ma quella di tutta un'ipotesi rivoluzionaria.
Perché, secondo te, quella sconfitta ha modificato la natura dei movimenti d'opposizione? Oggi nessuno parla più di rivoluzione. Quella degli anni `70 era una mentalità rivoluzionaria, che mirava a togliere a qualcuno il potere. Questo è un movimento d'opposizione sociale e alla guerra che in alcuni momenti, come durante il conflitto contro l'Iraq, trova vasti strati di consenso. È una differenza strutturale. Oggi nemmeno quelli considerati più «cattivi» adoperano pratiche simili a quelle degli anni '70. Se qualcuno lo pensa, vuol dire che evidentemente quella storia se la sono dimenticata tutti. Qualcuno sostiene che la limitata violenza delle manifestazioni di oggi, pur non comparabile a quella degli anni `70, abbia comunque un effetto simile e comporti gli stessi rischi di degenerazione... Questa è la percezione di gente che è rimasta annichilita. Se non vedi le differenze tra l'oggi e l'allora, finisci, come Segio, per fare un discorso meccanicistico, per cui una cosa porta inevitabilmente all'altra. Come chi dice che è automatico passare dallo spinello all'eroina. Vedi, certe volte penso che oggi, se si guarda solo alle nefandezze del potere, le condizioni sarebbero persino più favorevoli di quelle dei `70 alla nascita di una lotta armata. Però non è così, perché le soggettività sono tutte diverse. È la situazione sociale e politica stessa che non permetterebbe il ripetersi di quell'esperienza. Il fatto che non lo si veda, dimostra che quella storia non è stata ancora rivisitata, capita e superata. Al movimento viene rimproverato il non riconoscere che i nuovi brigatisti vengono dalla sua stessa area politica e culturale. Come quando si parlava di voi come delle «sedicenti Brigate rosse»... Anche ammettendo che i militanti delle nuove Br vengano dai centri sociali, e non è affatto detto, l'esiguità stessa del fenomeno gli toglie ogni rilevanza. Sempre di dieci persone si tratta. L'importante è che nel dibattito politico di questo movimento non c'è alcuno spazio per l'opzione armata. Non era così negli anni `70. Se ne parlava ovunque. Anche chi era contrario, lo era perché non riteneva maturi i tempi e non accettava le forme delle organizzazioni armate, ma l'opzione era presa in considerazione da tutti. Lo vedi persino dai testi dalle canzoni. Il rap dei centri sociali parla di rabbia sociale. Il canzoniere di Lotta continua era una manifesto politico. E allora dov'è che questa cultura della lotta armata permea quella del movimento. Le accuse alludono apertamente a «infltrazioni nel sindacato di base»... Secondo me parlare di infiltrazione brigatista nel sindacato di base significa dare a questo gruppo una valenza politica molto maggiore di quanto non abbia in realtà. Lo ripeto: noi non eravamo maggioritari nel movimento ma eravamo una presenza reale. Non mi pare che la situazione di oggi sia paragonabile. Come ti spieghi che lo spettro della vostra esperienza venga agitato ancora contro ogni movimento d'opposizione che si affaccia sulla scena pubblica? Perché si è impedito che quell'esperienza venisse discussa e ripercorsa criticamente, in modo da superare davvero un periodo storico. Si è scelta una cesura, e le cesure non servono a niente. Siete accusati di non aver mai criticato pubblicamente le vostre scelte di allora... Questo non è vero. Non abbiamo usato la formula per cui, prima ancora di iniziare a discutere, dovevamo ammettere di aver commesso tutto il male del mondo. Abbiamo proposto un altro ragionamento. Abbiamo detto che noi non eravamo soli e non eravamo marziani, che se quella fase storica la si vuole capire e riattraversare, bisogna che tutti i protagonisti politici di allora lo facciano, assumendosi ciascuno le proprie responsabilità. Non è che noi non avremmo voluto affrontare una discussione profonda sulla nostra esperienza. Forse non saremmo stati in grado di farlo, ma questo è un altro discorso. Avremmo voluto, ma nessun altro era disponibile. E così si finisce per non capire, ad esempio, che questi delle nuove Br non sono figli nostri. Anche perché noi avevamo dato a tutti, anche con ragionamenti pubblici, la possibilità di cogliere la discontinuità storica.
Cosa pensi oggi della scelta della clandestinità, che ha segnato la vostra esperienza politica? Che sia assolutamente improponibile. La vicenda delle Br è interna alla tradizione rivoluzionaria novecentesca, della quale siamo stati forse gli ultimi e magari un pò inadeguati interpreti. Il mondo adesso è cambiato. Intendiamoci: c'è ancora chi comanda e chi obbedisce, c'è ancora chi mangia e chi ha fame. Ma sono cambiate sia le forme in cui tutto questo si esprime, sia quelle in cui si esprime l'opposizione a tale realtà. freccia rossa che punta in alto

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