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Roberto bartali.it

Novembre 2003

2 Novembre 2003: (Liberazione)
Intervista a Rossana Rossanda

Rossana Rossanda «è stufa» delle Brigate rosse. beh, certo, non solo lei, e qualcuno sicuramente è anche più stufo di lei. Però la fondatrice del manifesto ha anche dei motivi suoi per reagire con fastidio alle polemiche che si sono riaperte intorno agli arresti di questi giorni: contigui, interni al movimento, reclutati nei centri sociali, uomini e donne "di sinistra". Dunque, stanno nel famoso "album di famiglia" e la sinistra dovrebbe una volta di più fare ammenda, dice la destra e non soltanto la destra... Siccome quella formula l'ha tirata fuori lei, ormai un quarto di secolo fa, non è tanto contenta di vederla piegata a questi usi. Tanto più - questa è la cosa importante é che la sua impressione è che la storia di questi anni sia tutt'altra...
Come è nata la vicenda dell'album di famiglia? La puoi definire una "ribellione filologica". E sarà il caso di precisarla: accadde che nel pieno del sequestro Moro, commentando uno dei documenti delle Br, qualcuno - mi pare su Repubblica - scrisse che quelle parole scendevano dirette dal '68. Ma quando mai? Allora scrissi quell'articolo sul manifesto. Per ricordare che mai il '68 aveva parlato in quei termini della Dc come agente politico della borghesia e dell'imperialismo delle multinazionali. Anzi, il '68 della Dc non parlava proprio: guardava al mondo, contestava la chiusura culturale italiana... Quei termini, scrissi, venivano diretti dalle parole d'ordine del Pci del dopoguerra. È il nostro album di famiglia, dicevo io che di quella famiglia facevo parte. Apriti cielo... Che successe? Che se ne ricavò l'assioma: allora i brigatisti vengono dal Pci. E, guarda, non ho le prove ma sono abbastanza convinta: la linea della fermezza di Berlinguer nasceva anche dalla paura che quando li avessero presi, qualcuno di questi brigatisti si sarebbe rivelato davvero uno del Pci, che so io, segretario di sezione di chissà dove. Ed era un timore assurdo, perché io conoscevo bene quel partito e sapevo che qualsiasi velleità insurrezionale era stata sepolta da Togliatti praticamente subito. Mai presa in considerazione alcuna ipotesi rivoluzionaria nel Pci del dopoguerra... Ma poi, alla verifica dei fatti, davvero quei brigatisti stavano nell'album di famiglia? Per filiazione diretta giusto quelli di Reggio Emilia, del cosiddetto "gruppo dell'appartamento". Gallinari, Franceschini, un altro paio, non di più, nipoti di partigiani... Gli altri in definitiva non c'entravano niente, pensa soltanto alle Br romane. Ne parlai a lungo con Moretti... ...hai scritto con Carla Mosca un libro-intervista con lui, "Una storia italiana"... Sì, l'avevo avvicinato in un'aula di tribunale. «Non sapete nulla di noi», mi disse. «Ti credo, scrivete cose così assurde...», risposi. Volevo sapere, volevo capire, allora frequentare le carceri era più facile di adesso e potemmo scrivere quel libro. Comunque, alla fine la loro non era una provenienza ma una aspirazione: si erano messi in testa che la base del Pci, vedendo Moro nella "prigione del popolo", si sarebbe ribellata alla linea del partito del compromesso storico. Non avevano capito che invece proprio Moro era l'unico vero aggancio che il Pci avesse con la Dc. Lo si comprende bene adesso, per esempio con la pubblicazione degli appunti di Tonino Tatò. A parte Moro, e forse Zaccagnini, non c'era nessuno nella Dc che volesse davvero quell'avvicinamento. E pure Moro... Alla fine, in che cosa di concreto si era tradotta la sua apertura? Che cosa diede davvero al Pci, come potere reale, nelle banche o negli altri luoghi nevralgici? La sua era l'intuizione di un percorso necessario, da cui discendevano ragionamenti spesso un po' tortuosi. Ma in definitiva, a parte la nascita di gruppi dirigenti locali, democristiani e comunisti, più propensi al dialogo reciproco, tutta quella storia del consociativismo secondo me non produsse proprio niente di concreto. Il Pci non entrò mai davvero nella stanza dei bottoni, né dalla porta principale come chiedeva Amendola, né da quella di servizio. Questo chiarisce l'errore di analisi di "quelle" Br E quelle successive? Per me, le Br sostanzialmente finiscono quando cade il gruppo del rapimento Moro. Chiaro, ne erano rimasti fuori tanti, e quello che è successo dopo - Dozier, Conti, Tarantelli, Ruffilli, L'Ucc, il Pcc della Balzerani, il partito guerriglia di Senzani - è la lunga e sanguinosa coda di una storia chiusa, gente che non accettava di deporre le armi come era anche prevedibile che accadesse per una vicenda che era stata davvero un progetto politico che aveva coinvolto tanta gente. Pensa che a cavallo del 1980 erano più degli altri: con un totale errore di analisi e con un profondo errore morale (anche se io non sono di quelli che pensano che la violenza stia soltanto nel terrorismo), ma comunque all'interno di una esperienza politica. Come spezzone politico di una storia razionalizzabile. Non come questi qui di adesso... Ecco, ci siamo. Neghi alle Br del duemila un progetto e una "appartenenza"? Ma quali, ma dove? Sì, si chiamano Pcc, e scrivono documenti dai quali si evince anche una certa preparazione culturale. Tolto questo, a me sembrano quattro gatti assolutamente non in grado di tenere in piedi il minimo progetto. In grado di ammazzare, però. Senti: se è per ammazzare persone indifese come D'Antona e Biagi, è più facile che organizzare uno sciopero in una piccola fabbrica. E sono passati tre anni dalla morte del primo e quella del secondo... quando in Italia c'era davvero il terrorismo di morti e feriti ce n'era uno a settimana. No, se parliamo sotto il profilo organizzativo questi qui non esistono. Le Br in treno si saranno fatte controllare i documenti centinaia di volte, senza che fosse pensabile quello che hanno fatto la Lioce e Gallesi. E tenere i files nel computer portatile, usare i telefonini quando anche i ragazzini sanno che lasciano tracce dappertutto... Quanto agli obiettivi: se neanche le Br avevano capito che il cuore dello stato non era Aldo Moro, chi credono di terrorizzare questi qui? Pensano che se uccidono Biagi qualche intellettuale margheritino si tira da parte? Ma dove vivono? Il tema di adesso sono i loro contatti con il movimento no global, il loro provenire da quel mondo... Ma che c'entrano coi no global? Quel movimento è di grande interesse in un mondo schiacciato sul consumismo ma, francamente... non sono neanche anticapitalisti. Vanno contro le porcherie che si fanno nel Terzo mondo, contro la distribuzione ingiusta delle risorse, i loro leader sono Alex Zanotelli e Naomi Klein... Superano le strisce rosse per terra per prendersi uno sfizio simbolico. Oppure ci stanno quelli lì, i black block di Genova che rompono i bancomat: cose pesanti, non lo nego affatto, ma il terrorismo è un'altra cosa. Guarda, diciamolo chiaro: l'album di famiglia del movimento no global semplicemente non esiste. Gli arrestati di questi giorni frequentavano i centri sociali, alcuni - la destra polemizza molto su questo - erano iscritti ai sindacati di base o alla Cgil. E che ci vuole? dove vuoi andare la sera, se la pensi in un certo modo, se non in un centro sociale? La dimostrazione di quanto poco c'entri la politica sta nel fatto che questi qui, senza essere clandestini, avevano col mondo nel quale vivevano molti meno rapporti di quanti ne avessero le Br clandestine ai loro tempi. Quelli volantinavano, reclutavano, ricordi che a Giuliano Ferrara venne in mente di fare quel questionario a Torino? Di questi qui, nessuno stupore che nessuno che lavorasse o vivesse con loro immaginasse nulla della loro attività... Sempre ammesso - fammelo dire - che questa attività ci sia stata davvero. Mi dispiace, ma io aspetto qualche prova in più di quello che è uscito, e neanche mi basta che uno si proclami prigioniero politico per accollargli un omicidio. Ma insomma: niente progetto politico, niente brodo di coltura, nessuna capacità organizzativa... Come li vedi, come criminali e basta? No, io il termine criminale non lo uso se non vedo nelle azioni una motivazione bassa, di interesse personale. E neanche vedo gente che spara nei parchi come a New York o fa vandalismo metropolitano. Faccio un'altra ipotesi, da verificare però. So che in questo paese esiste uno "zoccolo oppositivo", chiamiamolo così, che mugugna molto. Se non ti senti dentro la corrente liberista che in definitiva tiene bloccato il sistema italiano, se ti senti battuto, isolato, senza nessuna politica che parli a te, io posso aspettarmi il gesto esplosivo, disperato. È come nella Pastorale americana di Philip Roth. Ma siamo alle soglie dell'atto esistenziale, individuale, qui la politica non c'entra quasi più...Però hanno spaventato un paese, sono diventati un fatto politico in qualche modo... Ti pare? A me pare proprio il contrario. Questo è un paese indifferente, una spugna che assorbe tutto. Nessuna vera emozione per Biagi, nessuna vera emozione se nuotando a Lampedusa ti sfiora il cadavere di un immigrato. Solo la scena politica reagisce, ma per regolare i suoi conti, come hanno cercato di fare dopo Biagi contro la Cgil, contro Cofferati, contro il sindacato. Per il resto, è solo indifferenza. freccia rossa che punta in alto

4 novembre 2003 (Il Giorno)
LIBRO SU MORO E TOBAGI - Nel dossier Moro la verità su Tobagi

- Chi portò via dal covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, ancora caldo e ribollente, il dossier di Aldo Moro, ostaggio delle Brigate rosse? E la precisa segnalazione di un sottufficiale dei carabinieri che sette mesi prima avvertiva dell'attentato a Walter Tobagi? Quale fu il ruolo di Umberto Bonaventura, all'epoca capitano dell'Arma, poi colonnello del Sismi, ucciso da un infarto un anno fa nella sua abitazione romana? Un ex capitano dei carabinieri: Roberto Arlati. Un giornalista: Renzo Magosso. Il libro scritto a quattro mani, "Le carte di Moro, perché Tobagi", pubblicato da Franco Angeli, sta per uscire in libreria. Magosso, perché questo titolo?
"Il primo settembre del '78 il governo Andreotti istituisce l'Antiterrorismo e mette a capo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. A Milano è comandato dal capitano Umberto Bonaventura, che ha con sé i capitani Roberto Arlati e Alessandro Ruffino. Quando il primo ottobre i carabinieri entrano in via Monte Nevoso e scoprono le carte di Moro il merito è tutto di Arlati, che ha agito contro il parere dei superiori". Un'affermazione pesante. "Ma che risponde a verità. Nel mese di giugno, pochi mesi prima, a Firenze viene trovato un borsello con una pistola 7,65, fogli di rivendicazione di azioni brigatiste, il documento di uno studio dentistico di Milano, la fotocopia dell'atto di vendita di un motorino in piazza Sire Raul a Milano. Arlati vorrebbe avviare le indagini a Milano. Gli rispondono di no, la competenza è di Firenze. Arlati disobbedisce. Il proprietario del motorino e il paziente del dentista sono la stessa persona: Lauro Azzolini, uno dei capi storici delle Br. Vive a Milano in via Monte Nevoso all'8. La storia che Azzolini sarebbe stato "venduto" dalla Cia è un'enorme balla. La mattina del primo ottobre, irruzione in via Monte Nevoso. I carabinieri trovano carte dappertutto, anche sul lavello della cucina, sui fornelli, nel bagno. È l'archivio delle Brigate Rosse. C'è un plico avvolto in una copertina azzurra. Sono le lettere di Moro prigioniero, gli interrogatori dattiloscritti, riflessioni sul partito, il terrorismo palestinese, lo scandalo dei petroli, gli accordi con la Nato, i finanziamenti alla Dc".Che cosa accade? "Alle 10.45 il capitano Bonaventura è in via Monte Nevoso. Ordina di consegnarli le carte. Arlati obietta. L'altro lo rassicura: giusto il tempo di fare le fotocopie. Alle cinque e mezzo del pomeriggio Arlati si vede ritornare un malloppo molto smagrito. Si scoprirà solo vent'anni dopo che su 450 carte non ne sono state restituite almeno 150". Che cosa succede alle carte? "Una parte viene consegnata a Dalla Chiesa. Il resto rimane a Bonaventura. Dalla Chiesa nota la sparizione, s'insospettisce. Mino Pecorelli parla su "Op" degli incarti scomparsi". Perché Bonaventura tratterrebbe parte del dossier? "Non lo sappiamo. Sappiamo però che a Milano la legione è comandata dal colonnello Rocco Mazzei, iscritto alla P2. Anche il generale Palumbo, comandante della divisione Pastrengo e poi vice comandante dell'Arma, è legato alla P2. Dalla Chiesa viene di fatto estromesso". freccia rossa che punta in alto

9 novembre 2003 (La Repubblica)
FAMIGLIA MORO PREPARA LIBRO
Sequestro Moro, la famiglia racconterà la storia in breve

ROMA - "La nebulosa: il Bignami del caso Moro" e' un libro che racconta i fatti cosi' come si sono svolti nei 55 giorni del sequestro Moro, La storia raccontata in pillole per spiegare ai giovani che cosa successe nel marzo del '78. Il libro e' diviso in capitoli affidati a giornalisti, esperti come Marina Giannetto dell' Archivio di Stato, e magistrati come Ferdinando Imposimato. La figlia maggiore dell' onorevole Dc, Maria Fida, sta seguendo personalmente il progetto:"La prefazione sara' di mio figlio Luca. Avevo chiesto a mia madre Eleonora di scriverla. Purtroppo, non se la sente, sta pero' dettando alle nipotine la storia della famiglia". freccia rossa che punta in alto

(Panorama) - Quando c'eravamo noi...
Alberto Franceschini , uno dei fondatori delle BR "I nuovi terroristi? Non sono figli nostri, dovevamo depositare il marchio".

Parola di Alberto Franceschini. Sergio Segio, già leader di Prima linea, le ha lanciato un'accusa pesante. "Franceschini non può liquidare il fenomeno delle nuove Brigate rosse con la battuta: "Sono una banda di serial killer"" ha sostenuto in un'intervista. Come si difende? Alberto Franceschini, 55 anni di cui 18 trascorsi in carcere, fondatore con Renato Curcio e Mario Moretti delle Brigate rosse, spiega: "Nelle società metropolitane esistono fenomeni di border line che determinano reazioni violente. Negli Stati Uniti, dove non c'è una forte tradizione ideologica, chi si sente al di fuori del circuito sociale si trasforma spesso in serial killer. Il mito è il Far West". Da noi, invece? Da noi, Paese politicizzato, il mito siamo diventati noi, le vecchie Brigate rosse. Noi avevamo come riferimento la Resistenza, loro hanno la mitologia delle Br. Un'eredità pesante. Sono 30 anni che quando si deve discutere di violenza politica vengono chiamate in causa le Br, anche impropriamente. Diciamo che sotto la sigla Brigate rosse vengono catalogati molti fenomeni di emarginazione sociale. Gli ultimi brigatisti arrestati non sono emarginati: posto fisso, tenore di vita dignitoso. Eppure rientrano nel fenomeno del border line. Noi eravamo un'altra cosa. Perché non riconosce le nuove Br come figlie vostre? Negli anni Settanta uno slogan accomunava tutti i movimenti: lo Stato si abbatte e non si cambia. Il concetto della lotta armata aveva non solo una dignità culturale, ma anche un consenso vasto. Noi brigatisti potevamo anche essere pochi, ma le nostre prospettive trovavano un'eco profonda. Forse anche ora. Le Brigate rosse, sostiene Segio, coabitano nel movimento. I valori sono altri, adesso. Eppure c'è qualcuno che scrive sui muri "Galesi spara ancora", trasformando un assassino in un mito. Provocatori. Non si può attaccare un corteo di protesta soltanto perché qualcuno che vi ha partecipato ha poi scritto frasi esecrabili. Eppure le Br esistono, sono riuscite a uccidere due esimi docenti, Massimo D'Antona e Marco Biagi. Da dove nascono? Negli anni Settanta decine di migliaia di persone scendevano in piazza inneggiando alla lotta armata. Adesso saranno una decina, i brigatisti. E a questa decina non interessa niente del movimento... Dalle biografie dei brigatisti arrestati emerge un passato fatto di lotte contro l'emarginazione e di frequentazione dei centri sociali. Circoli di dieci anni fa, residuati bellici. Ragionare in questo modo mi sembra strumentale. Se un brigatista risulta iscritto alla Cgil, cosa vuol dire? Cosa vuole dire? Nel pedigree di almeno quattro dei brigatisti arrestati si staglia l'impegno sindacale. L'impiegato postale Bruno Di Giovannangelo, addirittura, era in lista per la Cgil per le elezioni delle Rappresentanze sindacali unitarie. E questo significa essere interni al sindacato? Andiamo a vedere cosa accadeva negli anni Settanta, ai nostri tempi. I brigatisti annidati nei sindacati erano decine. Per noi l'attività sindacale era fondamentale. Avevamo dei dirigenti, persino, all'interno di tutte le componenti sindacali.
Faccia qualche nome. Angelo Passone. Passone era torinese. Quando fu arrestato era delegato alle Presse per la Fiom-Cgil. Lo era ben prima di militare nelle Brigate rosse. Il clima era diverso, in quegli anni. Si spieghi. Anche nel sindacato c'era una componente che non condannava la lotta armata. Il fatto è che, in quegli anni, la violenza non era solo di sinistra ma anche, come si diceva, di Stato. La strategia della tensione cos'era se non una violenza del potere? C'erano dei settori anche del Partito socialista - io ricordo Riccardo Lombardi - che dopo i golpe in Grecia e in Cile teorizzavano la resistenza armata in Italia. Negli anni Settanta c'era un deficit di democrazia nel nostro Paese. E oggi? La cultura della democrazia è molto più forte. Ricorrere adesso alla lotta armata è fuori tempo?
Nel 1988 abbiamo dichiarato la fine delle Br. Sempre Segio accusa lei e gli altri capi storici delle Br di non aver dichiarato chiusa la fase della lotta armata.
Quello che sostiene Segio è ridicolo. Noi abbiamo preso le distanze dal terrorismo. I dissociati hanno addirittura firmato un atto di lealismo con lo Stato. I dissociati sono oltre 2.500... I br di oggi passano per parenti vostri. Quanti anni hanno? Sono quarantenni, mediamente. Sono gli ultimi sopravvissuti che si credono attori di una storia che si è trasformata in farsa. Purtroppo ci sono dei morti. Valter Ferrarato, 34 anni, è stato ora espulso dalla Cgil per aver dichiarato alla "Stampa" che "Galesi combatteva contro la borghesia e per questo è stato ucciso". Ha anche affermato che "i compagni caduti restano nel cuore di ogni compagno". Lei cosa pensa di un giudizio così accorato sul br Marco Galesi? Siamo in democrazia e anche un pensiero demenziale può essere espresso. Galesi certamente pensava di combattere contro la borghesia. Però non credo che la sua lotta fosse davvero contro la borghesia. Mi spiego: i risultati politici delle Br, nonostante le dichiarazioni d'intenti, sono a tutto svantaggio della sinistra e del sindacato. Quello che accadeva negli anni 70. Noi colpivamo i capi del personale. I nostri nemici erano di classe, i rappresentanti della destra neogollista. Questo agli esordi delle Brigate rosse. Poi lei e Curcio siete stati arrestati (8 settembre 1974) e nel mirino delle Brigate rosse sono entrati i riformisti come Aldo Moro, ideatore di un accordo con il Pci. Sull'omicidio di Moro ci sono ancora molte cose da chiarire. Noi volevamo sequestrare Giulio Andreotti non Moro. C'è una bella differenza. Le Brigate rosse d'antan - lo ha sostenuto lei stesso - erano infiltrate. Quelle di oggi sono pulite? Mi ha colpito che uno degli arrestati era dotato del Nos, il nulla osta di segretezza. Ancora una volta i nostri 007 sono inefficienti? Non credo. Posso sbagliare, ma ho l'impressione che con questa operazione anti Br sia stata finalmente presa la decisione di chiudere con il terrorismo. Decisione presa da chi, con quale ratio? Presa dal potere. La storia delle Br è pervasa di ambiguità. Anche ai miei tempi si aveva la sensazione che qualcuno, lassù, ci lasciasse mano libera per poi chiuderci in un angolo quando il gioco perdeva di interesse. Oggi forse è finita la stagione delle Br, ma se ne annuncia un'altra fatta di pacchi bomba e imperniata su una nuova sigla, emersa nel Nord-Est, Brigate rosse-guerriglia metropolitana. Confesso: il nostro errore più grave è stato quello di non depositare il marchio Brigate rosse e perseguire chiunque lo avesse utilizzato impropriamente. Il risultato è che tutti si possono dichiarare figli nostri. freccia rossa che punta in alto

10 novembre 2003 (Dagospia)
LA MOGLIE DI MORO CHIEDERA' LA RIAPERTURA DELLE INDAGINI?
NORINA MORO CHIEDE: RIAPRITE LE INDAGINI SULLA MORTE DI MIO MARITO
PRIMO PASSO: RIESUMARE LE SPOGLIE DI MORO (DOVE È FINITA L'AUTOPSIA?)

In queste ore Nino Marazzita - avvocato di Eleonora Moro e della di lei figlia Maria Fida - sta preparando la richiesta di riapertura delle indagini dell'assassinio di Aldo Moro. Tra una settimana il documento verrà inoltrata alla Procura della Repubblica, Dopo 25 anni di dolorissimo e ostinato silenzio, Eleonora Moro, detta Norina, ha deciso che era ora di farla finita con i vari processi Moro. Azzeriamo tutto. Si ricomincia da capo. Mettendo in rilievo depistaggi di servizi segreti, indagini sbagliate e/o carenti, conclusioni aberranti. Quindi ha dato incarico all'avvocato Marazzita di riassembleare e rispulciare quel milione di pagine che, nel corso di 5 lustri, ha formato il fascicolo (e il mistero) della morte Aldo Moro. Il primo passo ha per oggetto la consegna del documento certificante l'autopsia dello statista assassinato dalle Brigate Rosse. Tutti l'hanno avuto e letto, sia chiaro, ma nessuno lo ritrova. Se tale documento non spunta fuori, Eleonora Moro ha intenzione di chiedere la riesumazione delle spoglie del marito. All'origine c'è il bisogno di Maria Fida Moro di riprendere in mano il documento dell'autopsia - ma la richiesta formalmente la può inoltrare solo la vedova Moro - perché sta preparando un libro - che ha per titolo "La Nebulosa - Il Bignami del Caso Moro" - che dovrebbe essere in libreria a marzo 2004. Dall'autopsia di ieri o dalla riesumazione di oggi, secondo Maria Fida, dovrebbe saltare fuori un "dettaglio" importantissimo. Coadiuvata dal medico legale Alberto Bellocco, la figlia di Moro è convinta che dall'analisi delle spoglie potrà risultare evidente che la morte non è avvenuta a undici kilometri di distanza da via Caetani bensì a 50 metri dalla viuzza che sbocca in via delle Botteghe Oscure. Un altro aspetto da indagare riguarda le molte minacce che Aldo Moro ebbe durante i mesi che precedettero il fatidico 9 maggio 1978. A partire dal treno Italicus del 4 agosto 1974, un espresso che si avviò dalla stazione Termini di Roma con a bordo... freccia rossa che punta in alto

11 Novembre 2003 (Corriere della Sera)
L'AVVOCATO MARAZZITA «Chiederemo la riapertura del caso Moro»

ROMA - L'avvocato Nino Marazzita, da sempre legale della famiglia Moro ha annunciato che entro una settimana invierà alla Procura della Repubblica un documento per chiedere la riapertura dell'omicidio dello statista, assassinato dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni di prigionia. «La richiesta va incontro ai desideri della moglie Eleonora e della figlia Maria Fida. La vedova ha avuto l'idea prima dell'estate - spiega il legale - sulla base di nuovi elementi raccolti nel corso di indagini da noi condotte», dopo un'attenta lettura del voluminoso fascicolo. Non sembra però in vista la riesumazione della salma, nel caso non si rintracciasse il documento dell'autopsia, mai più ritrovato. L'avvocato Marazzita ritiene infatti la riesumazione un «fatto improbabile» considerati i 25 anni trascorsi dalla morte. freccia rossa che punta in alto

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(Dagospia) - PERCHÈ LA VEDOVA MORO CHIEDE DI RIAPRIRE IL CASO MORO, LO STATISTA DC NON FU UCCISO NELLA PRIGIONE DI VIA MONTALCINI - LE MENZOGNE BR E LA TESI DI CRAXI: MORO FU CONSEGNATO AD ALTRI - ANCORA OGGI BRIGATISTI E APPARATI PROTEGGONO QUESTI "ALTRI".

È in via Caetani, dunque, la chiave per decifrare gli ultimi misteri del caso Moro. Ne è sempre più convinta la famiglia dello statista democristiano, che chiederà alla magistratura di riaprire l'inchiesta, come ha anticipato Dagospia (notizia ripresa oggi dai maggiori quotidiani che, deontologicamente mascalzoni e cialtroni e rosiconi quali sono, dal Corriere a La Stampa, si son ben guardati di citare il sito che l'ha scovata - eccezion fatta per La Repubblica). Torniamo a bomba. La versione fornita dai brigatisti, secondo cui il presidente Dc fu ucciso nella prigione di via Montalcini e poi trasportato a bordo di una R4 in via Caetani, non regge alla prova dei fatti. È contraddetta in particolare dai risultati dell'autopsia eseguita subito dopo il ritrovamento del corpo e dall'analisi dei materiali rinvenuti sull'auto: Moro fu ucciso in un luogo distante non più di 50 metri da via Caetani. (Di qui la particolare attenzione al ritrovamento del documento dell'autopsia da parte di Eleonora e Maria Fida Moro). È questa la convinzione anche di Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi e sul terrorismo. Secondo la sua ricostruzione, i servizi segreti trattarono con le Br la liberazione del prigioniero, la trattativa giunse a un passo dal risultato positivo, ma all'ultimo momento qualcuno non rispettò i patti. Ecco alcuni brani tratti da Segreto di Stato, l'intervista concessa da Pellegrino a Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, pubblicata da Einaudi nel 2000 (50 mila copie vendute, editoriali entusiastici di Eugenio Scalfari su Repubblica ed Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera). Ne leggerete delle belle... Tratto da "Segreto di Stato - La verità da Gladio al Caso moro", di Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, con Giovanni Pellegrino (senatore DS e ex presidente della Commissione Parlamentare d'inchiesta sulle stragi e sul terrorismo), Einaudi. Quindi, c'è un momento, nella fase finale del sequestro, in cui Moro è convinto che sta per essere liberato? Lei poco fa ha alluso alla possibilità che, mentre scriveva quelle tre pagine, Moro non fosse nella prigione di via Montalcini. Dunque era stato trasferito in un altro posto? La versione dei brigatisti è che Moro non si sia mosso mai da via Montalcini. C'è però il sospetto, rafforzato proprio dall'ultimo brano del suo memoriale, che negli ultimissimi giorni non sia stato in via Montalcini. Potrebbe essere stato spostato altrove. E dunque, tutto ciò che di inverosimile c'è nella storia raccontata dai brigatisti su come uccidano Moro nel garage di via Montalcini, potrebbe servire in realtà a coprire il vero luogo dell'esecuzione, per non mettere nei guai persone che hanno collaborato al trasferimento dell'ostaggio in un luogo diverso. Avete qualche idea del luogo in cui potesse trovarsi la prigione finale? Alcuni ritengono che dovesse essere molto vicina a via Caetani, il luogo dove venne fatta ritrovare la Renault rossa con il cadavere di Moro. Anche perché la versione brigatista (Moro ucciso in via Montalcini e poi portato in via Caetani) non regge dal punto di vista della ricostruzione dei tempi. Rileggete l'audizione di Maccari, noterete le contraddizioni e i dubbi proprio sui tempi. Fu un'audizione obiettivamente difficile, perché il racconto dell'ex brigatista non quadrava con i risultati dell'autopsia sul cadavere di Moro. Lui sosteneva che il prigioniero fu ammazzato in via Montalcini e poi immediatamente trasportato in via Caetani. Ma l'autopsia ha stabilito che Moro non morì subito, visse ancora dopo gli ultimi colpi. Allora bisognerebbe pensare, stando a quello che dice Maccari, che i brigatisti non si fossero accorti che Moro, mentre veniva trasportato in via Caetani, fosse ancora vivo, e francamente non è credibile. Dunque, l'ultima prigione, come lei dice, poteva trovarsi in una zona non lontana da via Caetani. Ma dove, verosimilmente? Direi in un luogo molto più vicino a via Caetani e comunque nella zona del ghetto ebraico. È questo il convincimento di Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, due magistrati che hanno indagato a lungo sul caso Moro: mentre ispezionavano quella zona, qualcuno li controllò e li fotografò. In via Caetani, dove venne trovato il cadavere di Moro, c'è il palazzo dei Caetani, la famiglia a cui apparteneva la moglie di Markevitch. Coincidenza quantomeno curiosa, non le sembra? Non penso che Markevitch abbia mai abitato in quel palazzo. Semmai, altre furono in quel luogo le presenze che hanno suscitato il nostro interesse. Ad esempio, quella di Hubert Howard, l'ufficiale dell'intelligence inglese che per primo entrò nella Firenze liberata dall'occupazione nazista, e che affidò a Markevitch l'incarico di redigere i programmi musicali della radio Firenze libera. Nominato nel suo Paese baronetto per meriti di guerra, Howard decise poi di vivere in Italia, sposò anche lui una Caetani, cugina di Markevitch, e frequentò a lungo sia il palazzo a ridosso del ghetto, sia la meravigliosa tenuta di Ninfa, nel Lazio meridionale. Quando l'indagine dei giudici bresciani ha riportato alla nostra attenzione la figura di Markevitch, ipotizzando un suo possibile ruolo nella vicenda Moro, ci siamo ovviamente domandati se proprio il suo antico sponsor fiorentino, divenuto poi suo cugino, avrebbe potuto essere il suo contatto con i Servizi occidentali. Un nostro consulente ha indagato anche negli archivi della Fondazione Caetani, che ha sede proprio in quel palazzo, ma stranamente non abbiamo trovato nulla, né sul maestro di musica né su Howard. Il nostro consulente ebbe l'impressione che qualcuno lo avesse preceduto, visto che non c'erano neppure i ritagli di stampa che descrivevano l'intensa vita pubblica di quei due personaggi, e di cui noi eravamo già in possesso. Dunque, qual è la sua conclusione? Nessuna, per il momento. Queste sono linee di una nostra inchiesta ancora in corso, non ancora fatti certi. Concentriamoci allora sui fatti certi. Un punto sul quale lei non sembra nutrire dubbi, è che durante gli ultimi giorni del sequestro, Moro poteva trovarsi in un luogo diverso da via Montalcini... Sí, è cosí... ... ed era convinto di essere a un passo dalla libertà... Certamente... Ora, se tutto questo è vero, non c'è che un'ipotesi, per spiegare quello che può essere accaduto. I brigatisti, convinti ormai che la trattativa sia a un passo dalla sua positiva conclusione, consegnano l'ostaggio all'intermediario o a qualcuno di sua fiducia: una sorta di parcheggio, insomma, in attesa della chiusura formale dell'accordo, che avrebbe consentito il rilascio definitivo del prigioniero. Per stare ai dati oggettivi in mio possesso, posso confermare che il racconto dell'esecuzione fatto dai brigatisti contiene molte inverosimiglianze, molte aporie, che il fratello di Moro, un alto magistrato, ha evidenziato in un ottimo libro. A cominciare dal rischio che incredibilmente i brigatisti avrebbero assunto, scegliendo come luogo dell'esecuzione l'autorimessa di un immobile condominiale accessibile dall'esterno. Per rendere più verosimile la sua versione, Maccari situa l'esecuzione nel primissimo mattino, poco dopo le sei, se ricordo bene. Ma questo innesca una tempistica nel trasporto del corpo esanime di Moro in via Caetani, che assolutamente non torna e non collima, tra l'altro, con i dati dell'autopsia sull'ora della morte. Inoltre, Moretti e Maccari non dicono la verità quando raccontano che l'esecuzione non fu annunciata al condannato, ma soltanto intuita e accettata con rassegnazione. Ancora una volta è Moro a smentirli, perché nella sua ultima lettera alla moglie, come abbiamo visto, scrive espressamente di aver ricevuto l'annuncio dell'esecuzione, che definisce terribile e inaspettato dopo il cauto ottimismo dei giorni precedenti. A tutto ciò riesco a dare solo una spiegazione: che Moro sia stato trasportato ancora vivo (con le modalità e nell'ora - ma non nel giorno - descritte da Maccari) nel luogo (più prossimo a via Caetani) dove, convinto che il trasferimento preludesse alla sua liberazione, scrisse le ultime pagine del suo memoriale. Quelle in cui, appunto, ringrazia le Br per la loro generosità. Ma lì, invece, fu raggiunto dall'annuncio dell'esecuzione, che può essere avvenuta con la collaborazione di qualcuno che non aveva fatto parte del gruppo dei suoi carcerieri. Almeno, questo era ciò che pensava Craxi... Craxi pensava questo? Sí, questa era la sua ipotesi. Craxi, infatti, va a deporre in Commissione Moro, sostenendo che chiunque abbia un'idea di come si svolge un sequestro, non può credere che l'ostaggio sia stato ucciso dalle stesse persone che lo hanno tenuto prigioniero così a lungo. Poi aggiunge: è noto, infatti, che in queste circostanze, tra carceriere e prigioniero, si stabilisce una tale relazione umana, che è assai raro che chi ha custodito un prigioniero sia anche quello che lo uccide. Dunque, Craxi pensava che Moro fosse stato affidato ad altri, o che fossero sopraggiunti altri a cui poi era stato assegnato il compito dell'esecuzione. Io volevo andare ad Hammamet per interrogare Craxi, ma purtroppo il conformismo di sinistra me lo ha impedito. La Commissione aveva deliberato all'unanimità la missione in Tunisia, ci eravamo preparati a lungo e stavamo per partire quando, divenuta pubblica la notizia del nostro viaggio, cominciarono subito i problemi. Anche dei miei amici, come i senatori Libero Gualtieri e Raffaele Bertoni, presero posizione chiedendo addirittura ai presidenti delle Camere che mi venisse impedito di andare ad Hammamet. A quel punto, Craxi cominciò ad accampare motivi di salute per rinviare l'audizione. In seguito, però, venimmo a sapere che, in realtà, era il governo tunisino che si era improvvisamente allarmato. La mia impressione, nettissima, fu che dall'Italia fosse arrivato un messaggio autorevole allo Stato tunisino, il cui senso era questo: possiamo tollerare la vostra ospitalità a Craxi, ma non il fatto che una Commissione d'inchiesta del Parlamento italiano interroghi un latitante. Chissà perché, invece, quando eravamo andati in Sudafrica a interrogare il generale Maletti, non si era scandalizzato nessuno. Fu dunque il Governo italiano a porre il problema? No, non il Governo... ma qualcuno che poteva comunque chiedere al Governo tunisino di ostacolare l'audizione. Ma di che ambito? Politico-parlamentare o istituzionale? Direi, piuttosto, autorità istituzionali sulle quali soprattutto la Procura di Milano poteva avere un'influenza... Il Quirinale? ... Autorità istituzionali sulle quali la Procura milanese aveva una certa influenza. In ambienti giudiziari milanesi, infatti, questa nostra iniziativa fu molto mal vista, fu considerata un errore. Io, naturalmente, mi faccio carico del significato politico che si sarebbe potuto attribuire a questo episodio, però presiedevo una Commissione d'inchiesta e quello che per tutti noi contava era la possibilità di indagare. Avevamo interrogato tutti i «padri della Patria»: Andreotti, Rognoni, Gui, Taviani, Forlani, perché non sentire anche Craxi ? Ritengo che sia stato anche un errore politico impedircelo. Parlo di un errore anche della sinistra, perché alla fine, a causa di questo accanimento, è sembrato quasi che Craxi lo avessimo ammazzato noi. Ricordiamoci che cosa è successo quando è morto Craxi, quanto veleno è stato sparato sul mio partito, i Ds, su D'Alema. Se una Commissione del Parlamento come la nostra fosse andata a sentirlo, la politica avrebbe dimostrato una sua autonomia dalla magistratura. Per quanto mi riguarda, lo avrei interrogato con grande cortesia, non come un latitante, anche perché latitava per problemi che non riguardavano la mia Commissione. Lo avrei sentito con lo stesso rispetto con cui ho interrogato Taviani, Andreotti, Forlani, Gui, Rognoni... Non avete pensato di chiedergli qualcosa per scritto? Sì, certo, ci avevamo pensato ma, francamente, finché non è stato male, ho sempre avuto la speranza di poterlo interrogare di persona. Poi, quando ha cominciato davvero ad aggravarsi, mi sembrò poco rispettoso della sua condizione umana sollecitare delle risposte scritte. Ritengo, comunque, che il fatto che gli abbiano impedito di testimoniare abbia rappresentato non solo un errore politico, ma anche un ostacolo per la nostra inchiesta. Che cosa speravate che vi potesse dire di nuovo, Craxi, a tanti anni di distanza e nella sua diversa condizione di «esule» ad Hammamet? Craxi aveva un ottimo rapporto con Dalla Chiesa e pensavo che avrebbe potuto anche dirci delle cose che il generale gli aveva confidato. Sì, questo era uno dei motivi per cui lo volevo interrogare. E poi, naturalmente, la storia dell'iniziativa socialista per una trattativa. E che fosse giusto sentirlo, è dimostrato dal fatto che una delle audizioni che ci ha fatto capire più cose sulla vicenda Moro è stata proprio quella di Signorile: abbiamo deciso di interrogarlo quando ho capito che non potevo più parlare con Craxi. Agli atti della vostra Commissione c'è la storia di un'altra testimonianza concordata e poi saltata all'ultimo momento, per ragioni misteriose. Quella di Steve Pieczenik, il consulente inviato dal governo americano che, dopo una quindicina di giorni in Italia, perse la pazienza e decise di tornarsene a casa. Sì, una vicenda davvero strana. Per l'improvvisa partenza di Pieczenik dall'Italia durante il sequestro Moro. Ma anche, appunto, per l'ancor più misterioso rapporto che il consulente americano ha tenuto con la nostra Commissione. A un certo punto, infatti, acquisiti finalmente i documenti del Comitato di crisi al Viminale, ci siamo resi conto che Pieczenik aveva dato dei buoni consigli. Volevamo dunque capire i motivi del suo improvviso abbandono e, dopo una serie di contatti, avevamo ottenuto di farlo venire a Roma. Lui ci aveva solo chiesto di assumerci l'onere delle spese e ci aveva persino comunicato il giorno del suo arrivo. Ma subito dopo aver ricevuto la nostra conferma definitiva, Pieczenik ci inviò un fax in cui ci comunicava di aver cambiato idea. In Italia dev'esserci proprio qualcuno che non aveva piacere che noi ascoltassimo Pieczenik. Insomma, Craxi non si poteva sentire perché era un latitante; qual era il motivo «ufficiale» per cui non si doveva sentire nemmeno Pieczenik? Non so proprio chi e perché abbia brigato per non farci incontrare il consigliere americano. Posso dire che da quello che abbiamo letto nei documenti sull'attività del Comitato di crisi, ci siamo fatti l'idea che Pieczenik sia una persona seria. Con noi, invece, non si è comportato seriamente. L'unica spiegazione, quindi, può essere che qualcuno lo abbia convinto della inopportunità di venire a deporre in Commissione stragi. Sulla base di quello che voi avete letto nei documenti, che idea vi siete fatti circa il ruolo del Comitato di crisi istituito al Viminale. A proposito della sua composizione, qualcuno ipotizza che riflettesse quasi plasticamente il contesto geopolitico italiano e persino la frontiera. Insomma, c'era l'Occidente, ma c'era anche l'Oriente che teneva l'occhio e l'orecchio sul ministro dell'Interno. Penso che un'ipotesi del genere sia estremamente credibile e coerente con la personalità di Cossiga: è sempre stato un uomo di fedeltà occidentale, ma non ha mai sottovalutato il fatto che l'Italia fosse un Paese cruciale nel delicatissimo equilibrio fra l'Occidente e l'Oriente. Sono convinto, infatti, che in quel Comitato (in realtà i comitati erano almeno due, uno di consulenti, l'altro operativo) l'unico vero esperto nel settore della sicurezza fosse proprio Pieczenik. Gli altri, appunto, mi sembra che fossero lì più che altro per sorvegliare e riferire altrove. Quel Comitato mi è sembrato un sistema di antenne, ma ciò che veniva antennizzato non era Moro, non era Moretti, non era Morucci, non era la Faranda, ma il sistema italiano. Bisognava, insomma, controllare che non facesse qualche sciocchezza. Il che mi fa pensare che, effettivamente, c'era una reale preoccupazione su quel che Moro potesse dire, e che il compito del comitato andasse quindi ben al di là della consulenza. Tornando a Pieczenik, che genere di consigli diede, prima di abbandonare il Comitato di crisi? Analizzò le prime lettere di Moro, i comunicati delle Br, e propose di trattare, ma tenendo fuori il potere politico. Però, come abbiamo visto, andò via quasi subito. Perché? Secondo molti, e tra questi Stefano Silvestri, se ne andò perché aveva avuto l'impressione che in Italia non fosse possibile fare niente di serio. Silvestri ci ha anche detto che fecero fare a Piecznik un briefing con gli uomini dei Servizi, i quali sembravano preoccupatissimi di Cossiga, e del suo rapporto con le intelligence straniere. Insomma, il problema era: antennizzare tutto e creare un cordone sanitario intorno al ministro degli Interni. Durante il sequestro, il mondo politico si divise tra i fautori della fermezza e quelli della trattativa. Tra i primi c'erano soprattutto democristiani e comunisti. Come possono essere interpretati, oggi, i motivi di quella posizione? Le acquisizioni più recenti dimostrano che, effettivamente, da parte del Pci ci fu una posizione nettissima. Cossiga mi ha scritto un biglietto invitandomi ad acquisire dalla Fondazione Spadolini una lettera che lui, non più ministro dell'Interno, aveva indirizzato al leader repubblicano. In quella lettera Cossiga raccontava che, nei primi giorni del sequestro Moro, l'esponente comunista Paolo Bufalini gli aveva detto che, per Berlinguer, Moro era come se fosse già morto. Un chiaro segnale che il Pci era nettamente contrario ad ogni trattativa. D'altra parte, era una posizione assolutamente comprensibile dal punto di vista del Pci in difficoltà in quella fase perché, come sempre, aveva il problema di legittimarsi: qualsiasi cedimento alle Br doveva essere fortemente contrastato dal Partito, proprio perché c'era quell'album di famiglia in comune... Oggi, comunque, sappiamo che anche nel monolite del Pci esisteva qualche crepa. Piperno ci ha fatto capire, e Barca ce lo ha detto chiaramente, che proprio Bufalini era più possibilista, meno convinto dell'utilità della linea della fermezza. Non a caso, latinista e finissimo traduttore dei classici, Bufalini aveva ricordato l'episodio di Cesare che, sequestrato dai pirati, prima accettò di pagare il riscatto e poi passò alla controffensiva, sterminandoli. Lo stesso Barca mi sembra che non condividesse del tutto la linea di assoluta intransigenza del partito. Infine, credo che anche Pietro Ingrao fosse molto dubbioso in proposito. Se la motivazione vera e più profonda dell'atteggiamento comunista fu il bisogno di legittimarsi, quale ragione poteva spingere invece la Dc a sostenere la linea della fermezza? E inoltre: la rigidità del fronte della fermezza contribuì a indirizzare le vicende verso il tragico epilogo? Il problema, in realtà, era un altro, come ci ha spiegato bene Signorile. La vera scelta non era quella tra fermezza e trattativa, perché anche i socialisti ammettevano che non era pensabile che lo Stato aprisse ufficialmente una trattativa con le Br. La vera scelta era, invece, tra fermezza e immobilismo. Un conto era la fermezza, consigliata ufficialmente perfino dal consulente americano. E un altro era mettere in campo una serie di iniziative di gruppi politici, associazioni umanitarie, Vaticano e, soprattutto, operazioni coperte degli apparati. Ma in quale sequestro di persona conclusosi felicemente, malgrado le dichiarazioni pubbliche, non si è in qualche modo trattato? La liberazione dell'ostaggio è sempre o il frutto diretto della trattativa, o la conseguenza indiretta, perché il dialogo con i rapitori è servito magari a far guadagnare il tempo necessario per preparare un blitz. Perciò, oggi, criticare la posizione politica della fermezza, alla luce delle conoscenze che abbiamo acquisito, mi sembra una cattiveria gratuita o una sciocchezza vera e propria. Lo Stato, nella sua veste ufficiale, non poteva fare cosa diversa da quella che fece. Però, come ha osservato giustamente Signorile, un conto è lo Stato-ordinamento, lo Stato-istituzione, altro è lo Stato-apparato, che può cercare di aprire una trattativa e utilizzarla per liberare l'ostaggio, in un modo o nell'altro... Senza dubbio è così. Ma nel nostro caso, il problema è che l'ostaggio non è stato liberato, né in un modo, né nell'altro. Nel caso specifico di Moro, si era cominciato a fare qualcosa per giungere alla sua liberazione, ma come ho già spiegato, è possibile che tutto abbia finito per incepparsi a causa delle complicazioni provocate dal fatto che l'ostaggio aveva cominciato a parlare con le Br. O che il meccanismo della trattativa sotterranea si sia inceppato quando, a un certo punto, una rotella dell'ingranaggio ha deciso di fermarsi perché non aveva più nessun interesse a salvare Moro. Purtroppo, noi non siamo riusciti ad acquisire elementi sufficienti per avere una certezza in un senso o nell'altro. Il dato sicuro è che tutt'ora ci sono delle zone di reticenza o delle zone di omertà che, a mio avviso, tendono non solo a proteggere qualcosa che è avvenuto, ma anche a proteggere qualcuno. Ancora oggi dev'esserci qualcuno che viene protetto, sia dai brigatisti sia dagli apparati perché questo qualcuno, o durante il sequestro Moro o più probabilmente nella fase successiva, ha dato dei contributi, patteggiando, in cambio, la propria impunità. freccia rossa che punta in alto

12 Novembre 2003: IL RUOLO DELL'EX BORSISTA RUSSO Moro, tre gli elementi per riaprire le indagini

- Ruolo dell'ex borsista russo Sergej Sokolov, eventualità di una prigione diversa da quella di via Montalcini, incongruenza sull'orario della morte di Aldo Moro. Questi alcuni degli elementi, a quanto si è appreso, che saranno alla base della richiesta di riapertura delle indagini sul sequestro e omicidio dello statista Dc ucciso dalle Brigate rosse il 9 maggio del 1978. Si tratta di elementi acquisiti dall'avvocato Nino Marazzita, legale di Eleonora e di Maria Fida Moro, moglie e figlia dell'ex presidente della Dc, dalla consultazione di documenti delle commissioni parlamentari e dalle risultanze di atti processuali sui fatti di via Fani. Per Marazzita, in particolare deve essere approfondita la posizione di Sokolov il cui nome compare nel cosiddetto dossier Mitrokhin come agente del Kgb, che conobbe Moro prima del sequestro durante le lezioni all'università dello statista e che dal 1981 al 1985 fu corrispondente della Tass. Ma anche la possibilità che il covo nel quale era tenuto prigioniero Moro possa non essere quello di via Montalcini, ma più vicino a via Caetani (dove il cadavere di Moro fu lasciato dalle Br), per il penalista, non può essere completamente escluso. Alla base di quest'ultimo sospetto le esigue macchie di sangue scoperte nel vano bagagli della Renault 4 nella quale fu ucciso lo statista e la convinzione che i terroristi non avrebbero mai corso il rischio di essere intercettati durante un tragitto così lungo, circa 7 chilometri che separa le due strade. Infine, per Marazzita, le diverse indicazioni fornite dai Br e dai risultati autoptici sulla morte di Moro impongono una ricostruzione anche di quest'ultimo particolare. Intanto, Enzo Fragalà, capogruppo di An in commissione Mitrokhin, condivide pienamente la richiesta della famiglia di Aldo Moro di riaprire le indagini. «Chiederemo alla commissione di mettere a disposizione della famiglia, oltre alle risultanze dell' inchiesta parlamentare, i documenti relativi ai contatti fra la rete spionistica dell'Est e le Br, e il falso borsista Serghei Sokolov. Così una pagina della nostra storia potrà essere riscritta senza la lente deformante dell'ideologia, con la consapevolezza dell'abnorme livello di penetrazione che il Kgb ha raggiunto nel nostro Paese durante la guerra fredda». Fragalà, che di fatto preannuncia un interesse della commissione per il capitolo Moro, dice che tra i temi da affrontare c'è quello di Giorgio Conforto, agente «Dario» del Kgb, e padre di Giuliana Conforto, nella cui casa furono arrestati Valerio Morucci e Adriana Faranda. Fragalà fa notare che nella documentazione riguardante Conforto che il Sismi ha inviato alla commissione c'è un vuoto che va dal febbraio 1978 al giugno 1979, «in singolare coincidenza con il periodo del sequestro Moro. C'è inoltre una lettera datata 1982 in risposta ad una nota di quattro anni prima: cosa è successo in quegli anni? I riferimenti ai contatti fra la spia del Kgb Giorgio Conforto e le Br erano presenti nella bozza del libro di Mitrokhin che i servizi inglesi inviarono al Sismi, ma sono misteriosamente spariti dalla versione definitiva». Inoltre nella rete di Carlos, il famigerato terrorista internazionale, su cui la commissione ha ricevuto documenti di fonte francese, fra i nomi che vengono citati c'è anche quello di Valerio Morucci. freccia rossa che punta in alto

(L'Eco di Bergamo)
Pellegrino: dietro il sequestro Moro né Cia né Kgb «Ma i servizi, sia a Est che a Ovest, si sono attivati perchè interessati alle dichiarazioni rese dallo statista alle Br»

- Mi aspettavo questa richiesta». Così Giovanni Pellegrino, autore del libro «Segreto di Stato» (Einaudi), commenta la notizia sulla decisione della vedova Moro di far riaprire le indagini sull'omicidio dello statista dc. Per l'ex presidente della commissione stragi ci sarebbe infatti ancora molto da chiarire. Quanto al ruolo dei servizi segreti - dice Pellegrino - «ritengo che sia da Ovest sia da Est si siano molto attivati non tanto sul sequestro quanto sugli "interrogatori" di Moro da parte delle Br». Le indagini su Moro deviate dal Kgb? «Io ho letto diversamente, per la verità, la dichiarazione di Marazzita. Cioè che ci fossero prove di coinvolgimento del Kgb e che i nostri servizi abbiano depistato impedendo che la pista venisse approfondita». Un'ipotesi credibile? «Su questo coinvolgimento del Kgb c'è un unico indizio, per lo meno a monte del sequestro. Uno studente russo che viveva a Roma seguiva le lezioni di Moro all'università, e aveva chiesto alla segreteria di Moro un permesso per assistere alla Camera, alla seduta del 18 marzo in cui avrebbe dovuto formarsi il governo di solidarietà nazionale. Il nome di questo studente figura nell'elenco degli informatori del Kgb, che è venuto fuori nelle carte Mitrokhin e che sembrerebbero attestare che questo giovanotto fosse già in quel momento una "longa manus" del servizio sovietico del quale poi successivamente entrò a fare parte. Questa è una segnalazione che venne anche durante la mia presidenza della commissione stragi, da parte dell'onorevole Tritto, che era uno dei collaboratori più stretti di Moro». Ma allora se erano cose già uscite, qual è la novità? «A mio avviso questo indizio è abbastanza esile. Io continuo a non credere che le Br abbiano agito, nel rapire Moro, né su mandato occidentale - la vecchia idea che dietro le Br ci potesse essere la Cia - né su mandato orientale, cioè per mandato del Kgb. Invece ritengo molto più probabile un'altra cosa» Quale? «Che durante il sequestro Moro, sia i servizi occidentali, sia i servizi orientali, si siano fortemente attivati, soprattutto dal momento in cui fu chiaro che Moro stava parlando nel "processo popolare" a cui era sottoposto e che quindi poteva stare rivelando segreti anche importanti per la sicurezza dello Stato italiano e per quella dell'Alleanza occidentale. Segreti che naturalmente i servizi orientali avevano interesse a conoscere, e i servizi occidentali avevano interesse a coprire e a neutralizzare. Ecco perché io ritengo - e l'ho anche scritto - che in realtà su questa sorta di "secondo ostaggio" che le Br avevano in mano oltre alla persona di Moro (vale a dire i risultati del suo "interrogatorio" da parte delle Br), ci sia stata una forte attivazione dei servizi dell'una e dell'altra parte. Tenendo anche presente che le carte Moro sono state recuperate soltanto parzialmente e in copia. E non si sa chi abbia acquisito gli originali nella forma integrale». Come interpreta questa richiesta della vedova? «Io me lo aspettavo da tempo per la verità. Perché da una serie di accertamenti fatti dalla commissione stragi si era evidenziato, per esempio, tutto un ruolo non ancora investigato sulla parte fiorentina della vicenda. Noi avevamo addirittura individuato in quale casa si riuniva il comitato esecutivo delle Brigate rosse. E avevamo il forte sospetto che a quel comitato esecutivo partecipassero le "altre intelligenze" di cui il presidente della Repubblica Scalfaro parlò nel ventesimo anniversario della morte di Moro. In più c'era una serie di dati che noi sottolineavamo, in particolare quelli che provenivano dall'autopsia di Moro, che rendevano abbastanza inverosimile che egli fosse stato 55 giorni chiuso nel bugigattolo che abbiamo visto nel film di Bellocchio». Per quale motivo? «Perché un uomo della sua età che sta 55 giorni là dentro, scrive seduto rattrappito sul letto, non si può muovere, non si può fare una doccia, non può avere cura di se stesso, alla fine di quella sofferenza porta un segno visibilissimo sul corpo, che l'autopsia invece non avrebbe sottolineato. Quindi questo fatto ha portato una serie di analisti - compresi i consulenti della commissione stragi - ad avanzare il forte dubbio che la prigione finale di Moro possa essere stata fino all'ultimo via Montalcini e che invece potesse essere un luogo diverso nel quale Moro scrive quella che a torto viene ritenuta l'ultima pagina del memoriale, cioè comunque un documento in cui Moro sembra quasi inserirsi in una trattativa per la sua liberazione. Devo aggiungere che tutte queste cose, comunque, le ho dette molto ampiamente, sia nel libro "Segreto di Stato", sia in una lunga intervista che postfaziona il recente libro della Di Giovacchino ("Il libro nero della prima Repubblica", ndr ). Si tratta quindi di una problematica che già è in piedi da anni e che sembrerebbe che oggi la famiglia Moro abbia fatta sua sollecitando alla Procura di Roma una riapertura dell'inchiesta». freccia rossa che punta in alto

(Il Nuovo) Moro, la vedova chiede nuove indagini.
La famiglia dello statista della Democrazia Cristiana ucciso dalla Brigate Rosse il 9 maggio 1978, chiede la riapertura delle indagini. L'avvocato Marazzita: "Sono emersi nuovi elementi".

ROMA - Non c'è pace per Aldo Moro. Forse all'orizzonte ci sono nuove indagini, la riesumazione del corpo, un nuovo processo. Ma stavolta a turbare la memoria e a chiedere verità sono Eleonora e Maria Fida Moro, moglie e figlia dello statista ucciso dalle Brigate rosse. Il loro avvocato di fiducia, Nino Marazzita, chiederà nei prossimi giorni, alla procura di Roma la riapertura dell'inchiesta. La decisione, "la richiesta di giustizia", a sorpresa, è stata annunciata ieri, ed ancora oggi nello studio del legale c'è si la calma di sempre che "telefoni infuocati". Ed è complicato capire, anche da qui, la scelta della famiglia. Dopo tanto tempo, 5 processi con relative sentenze definitive, commissioni parlamentari, una manciata di film scandalo, un bel gruppo di saggi e reportage dei 55 giorni del rapimento "che ha marchiato l'Italia con gli anni di piombo", come scritto da Indro Montanelli.
Maria Fida, da parte sua è comunque sempre stata chiara. Lo ripeterà "tranquillamente" nel suo libro di prossima pubblicazione "La nebulosa - il Bignami del Caso Moro". È convinzione dei familiari - si spiega - che bisogna approfondire alcuni punti mai realmente spiegati. E che partono da altrettanti assunti: il nucleo di terroristi che "gestì" Aldo Moro non è mai stato individuato nella sua completezza; chi ne faceva parte ed è stato arrestato non ha detto la verità; la dinamica dell'agguato a via Fani così come il ritrovamento nel pieno centro di Roma dentro un'auto. Il fratello del presidente Dc, Carlo Alberto Moro, nel suo libro scrive senza timore che "è difficile credere che i brigatisti abbiano attraversato una città, presidiata da migliaia di uomini delle forze dell'ordine, con un cadavere nel portabagagli". Altri elementi, saltati fuori spesso, sono quelli "contesto politico", che partono da una strana "minaccia" ricevuta da Moro durante una visita negli Stati Uniti e che possono giungere alla sua volontà nel firmare il patto per il "Compromesso storico", che avrebbe fatto entrare, in tempi di guerra fredda, il Partito comunista italiano nel governo. In mezzo, c'è la responsabilità delle indagini durante i giorni del rapimento di appartenenti grandi e piccoli, alla P2, con relativo contorno di servizi segreti deviati, e collusioni con diverse organizzazioni criminali, dalla mafia alla banda della Magliana. Il legale della Dc in tutti i processi Moro, Pino De Gori, smentisce che l'autopsia di Aldo Moro sia sparita "basta chiederne fotocopia alla cancelleria della Corte di Assise" e poi aggiunge: "Non riesco ad individuare niente di nuovo, che possa giustificare una riapertura delle indagini mirate sulla morte dello statista". "Dopo il dolore serve il riposo e non altro dolore". Caroline Kennedy, ormai unica erede diretta del compianto John Fitzgerald Kennedy, alcuni anni fa ha spiegato così il motivo per cui una delle famiglie più potenti d'America non ha mai fatto indagini dirette sugli omicidi che hanno "strappato agli Usa" suo padre e lo zio Robert. E se per Maria Fida Moro, l'azione anche polemica, è qualcosa di già percorso, per la vedova di Moro, Eleonora, "Doretta", è senza dubbio una "strada nuova". Per questo l'attenzione sul "dossier" che Marazzita presenterà alla Procura è ora dopo ora più forte. "Vi si adombra di un super servizio segreto definito Anello che ha forti responsabilità - si spiega - Ma anche del sospetto che Moro fu ucciso in altro luogo rispetto al garage di via Montalcini. Agli atti della commissione stragi, risultano poi due deposizioni della famiglia, in cui si racconta che in quei "giorni maledetti del '78" che le forze dell'ordine avevano individuato una probabile prigione di Moro vicino Palo Laziale; e stavano preparando un blitz per liberarlo. "Ma, per misteriose ragioni, tutto si era fermato". Enzo Fragalà, capogruppo di An in commissione Mitrokhin, condivide pienamente la richiesta di riaprire le indagini: "Chiederemo alla commissione di mettere a disposizione della famiglia, oltre alle risultanze dell'inchiesta parlamentare, i documenti relativi ai contatti fra la rete spionistica dell'Est e le Br, e il falso borsista Serghei Sokolov". Fragalà dice che tra i temi da affrontare c'é quello di Giorgio Conforto, agente "Dario" del Kgb, e padre di Giuliana Conforto, nella cui casa furono arrestati Valerio Morucci e Adriana Faranda. Ma quel che "deve far riflettere" sono invece due scritte, "solidarietà alle Br" e "abbasso Berlusconi" che sono state trovate questa mattina sui muri di un corridoio interno dello stabilimento Fiat Auto Lastrature di Rivalta (To). A scoprirle, all'arrivo in fabbrica, sono stati alcuni operai che hanno immediatamente segnalato l'episodio e sul posto sono intervenuti gli uomini della Digos per gli accertamenti del caso. Ferma condanna è stata espressa dalla Uilm "per gli ignobili atti e le idee dei violenti". freccia rossa che punta in alto

13 Novembre 2003 (Dagospia)

- Il 16 gennaio 1979, 10 mesi dopo il rapimento Moro e poco piu' di due mesi prima di essere ucciso (ucciso pochi giorni dopo il primo anniversario del rapimento, un caso?), Pecorelli scriveva su "OP" Tratto da I veleni di "OP" - Le "notizie riservate" di Mino Pecorelli, di Francesco Pecorelli e Roberto Sommella, Kaos Edizioni. [...] Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l'uccisione di Aldo Moro. Aldo Moro che pensava di essere liberato dalle Brigate Rosse, e che temeva di rimanere ferito in un conflitto a fuoco tra i "carabinieri" e i suoi carcerieri, come ha pubblicato Panorama in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti sequestrati nel covo del brigatista (?) Alunni, notizia che viceversa nel memoriale diffuso dal Ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all'operazione, del prete contattato dalle Brigate Rosse, della intempestiva lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli redazionali, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo di Steve R. Pieczenik, vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. Perché Cossiga era convinto, crediamo (?), che Moro sarebbe stato liberato, e forse la mattina che il presidente è stato ucciso era insieme ad altri notabili Dc a piazza del Gesù in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso. In macchina.A questo punto vogliamo fare anche noi un po' di fantapolitica. Le trattative con le Brigate Rosse ci sarebbero state. Come per i fedayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i "carabinieri" (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l'anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il Presidente della Democrazia Cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama "De" e il macellaio Maurizio. freccia rossa che punta in alto

Wladimiro Settimelli per l'Unità:

Dubbi, interrogativi e nuove domande, dopo l'annuncio dell'avvocato Nino Marazzita sulla richiesta di riapertura delle indagini per l'uccisione di Aldo Moro. Il legale della famiglia Moro, entro dieci giorni, presenterà una rilettura delle indagini alla Procura di Roma, per conto della signora Eleonora, moglie dello statista. La notizia ha destato scalpore anche se tutto, dalle indiscrezioni, appare stranamente nebuloso. Si è, per esempio, parlato di una eventuale riesumazione dei poveri resti dell'ex presidente Dc, ma a venticinque anni di distanza dalla strage di via Fani, è praticamente impossibile eseguire qualunque nuova perizia.Tra l'altro, le carte di quella eseguita dopo il recupero del corpo in via Caetani, non sono affatto sparite come era stato detto. E allora quali sono le novità sulla base delle quali i giudici dovrebbero accogliere le richieste della famiglia Moro? La commissione Mitrokhin ha sussurrato, per esempio, il giudice veneziano Mastelloni che della Mitrokin è consulente. E che cosa in particolare? La faccenda del borsista russo Sergei Sokolov che seguiva le lezioni di Moro all'Università e che, invece, sarebbe stato una spia del Kgb. Secondo alcuni, il falso borsista, forse, era collegato con altre spie italiane. La faccenda, a suo tempo, venne presa in esame e si risolse con un nulla di fatto. Si prestò, anzi, ad una serie di ridicole e assurde speculazioni che finirono per coinvolgere persone assolutamente innocenti. Insomma, era stata scelta una strada che non portava da nessuna parte. Comunque, sulla eventuale iniziativa della famiglia Moro e dell'avvocato Marazzita, abbiamo chiesto l'opinione dell'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro dell'interno durante il caso Moro. Ecco che cosa ci ha detto: «Esco dal mio riserbo sulla tragedia Moro, ricordando quanto l'Unità fece in quei giorni terribili, per battere insieme il terrorismo. Sono contrario ad ogni dietrologia e convintissimo che il lavoro dei giudici italiani, delle Commissioni parlamentari d'inchiesta, della polizia e dei carabinieri, fece chiarezza sul sequestro e l'uccisione di Moro. Escludo - ha detto ancora Cossiga - che le brigate rosse fossero eterodirette dalla Cia o dal Kgb. Conosco la faccenda del falso borsista Sokolov, scomparso dalla circolazione dopo via Fani. Voglio dire che, in quel periodo, Aldo Moro stava portando a termine un esperimento politico di grandissimo livello e di altissimo significato. Un esperimento che interessava sicuramente tutta l'Europa. Intorno a lui, all'Università, ci sarà stato non solo Sokolov, ma anche uomini della Cia e dei servizi segreti bulgari, spagnoli, francesi, inglesi, tedeschi dell'Est e dell'Ovest e quant'altro». «Se ben ricordo - ha aggiunto ancora Cossiga - un tentativo di« disinformazia» da parte del Kgb, ci fu e nei confronti di Enrico Berlinguer. Fecero sapere a tutti che le famiglia Berlinguer era ricchissima e proprietaria di vasti appezzamenti di terreni. Ma quelle terre non erano dei Berlinguer. Insomma, una operazione condotta con molta superficialità, proprio nel momento in cui molti, moltissimi, qui in Italia, erano pieni di speranza perché l'eurocomunismo stava andando in porto. Voglio molto bene ai Moro, comprendo tutto il loro dolore e capisco il dramma che si abbatté sulla loro famiglia e la inesausta volontà di sapere ogni dettaglio, ogni particolare e risolvere anche ogni più piccolo dubbio. Ma l'iniziativa di queste ore...Non saprei ...Non capisco bene...». Comunque, il momento della morte di Moro venne fissato dai periti tra le ore 9 e le ore 10 del 9 maggio 1978. Il presidente Dc venne massacrato da ben undici colpi di mitraglietta all'interno del bagagliaio della Renault rossa. Un colpo alla volta, affermarono i periti. Moro morì almeno una quindicina di minuti più tardi. La famiglia vorrebbe far rileggere le perizie e anche tutti gli orari e movimenti dei brigatisti in quella terribile mattina. Che la verità non sia mai stata raccontata, fino in fondo, dai terroristi delle Br, ormai tutti liberi e anche autori di celebrate autobiografie, dopo tanti, tantissimi anni, è ancora chiaro. Decideranno, una volta o l'altra, di parlare davvero e chiarire tutto, ma proprio tutto?... freccia rossa che punta in alto

15 Novembre 2003 (Libertà)
Moro, il mistero senza fine

- Preciso ed infervorato. Così Renzo Martinelli si presenta al cineforum dell'università Cattolica di Piacenza per commentare la sua ultima fatica, Piazza delle cinque lune, scritta con l'aiuto dell'ex senatore Sergio Flamigni e di Carlo Alfredo Moro, fratello dello statista della D.C. assassinato dalle Brigate Rosse venticinque anni fa. Non è un mistero che il suo film sia nato sotto una cattiva stella; Martinelli ha realizzato una pellicola improntata alla vivisezione del caso Aldo Moro nelle sue dinamiche e nei suoi meccanismi ad orologeria: non il racconto della "cattività", bensì uno sguardo a ritroso che, dall'alto, procede alla ricognizione dei complotti orditi all'interno del più intricato fatto di sangue della nostra storia. Eppure la sua opera è stata martoriata dalla critica e "scansata" dai canali massmediatici che tutto ingigantiscono, incensano o distruggono. Qualche notte l'avrà passata insonne, Martinelli, se è vero che per un certo periodo ha ricevuto volantini e telefonate dal tono intimidatorio. Ma ciò che più lo ha ferito è stata l'indifferenza dei mezzi di informazione ai quali aveva chiesto un po' di attenzione. «Quando chiamai Bruno Vespa per sollecitarlo a organizzare una serata a tema su Porta a Porta, la segretaria mi chiese: "Moro chi?"», confessa il cineasta. «E Vespa mi rispose che una cosa del genere non avrebbe fatto audience; Maurizio Costanzo si disse non interessato; Ferrara mi avrebbe accolto solo in un talk show in differita. Il problema è che questo Paese ha rimosso il proprio passato» conclude Martinelli. Peccato, perché secondo lo storico Fernand Braudel è proprio il passato la necessaria chiave di lettura del presente. Prosegue il regista: «Contattai Giampaolo Pansa dell'Espresso. Accettò di dare risalto al mio film a patto che convincessi la moglie di Moro a farsi intervistare da lui». Ma non ci fu nulla da fare: «Non insista. Innanzitutto, il mio telefono è sotto controllo. E comunque, questa è una questione di incolumità fisica!» fu la risposta. E anche dopo che lo storico brigatista Alberto Franceschini dette ragione alla realtà ricostruita da Martinelli, solo il "Corriere della sera" si interessò a Piazza delle cinque lune. Ci vorrebbero giorni interi per ricostruire l'"affaire" Moro e riesaminarne i tanti interrogativi insoluti. Ad incominciare dalla dinamica della strage di via Fani, dal luogo dell'uccisione del politico o dal ruolo di Tony Chicchiarelli, per proseguire con il falso comunicato stampa che indusse il brigatista Mario Moretti ad accelerare i tempi dell'assassinio. E, poi, "l'avvertimento" che quest'ultimo ricevette una volta in carcere, la mancata perquisizione del covo delle Br in via Gradoli a Roma, le morti di uomini come il giornalista Pecorelli, il colonnello dei servizi segreti Varisco e il generale Dalla Chiesa che, nell'ottobre '78, setacciò il nascondiglio brigatista di via Montenevoso, a Milano, trovando e fotocopiando 44 delle 440 pagine del "memoriale Moro" che ivi verranno ritrovate, casualmente, dodici anni dopo. Martinelli prosegue la sua lucida analisi soffermandosi sulla doppia chiave di lettura delle lettere che il leader democristiano scriveva nei giorni del sequestro. Frasi apparentemente fuori contesto, che svelavano importanti indizi della propria prigionia: un "livello manifesto" e un "livello latente" che non si riuscì o non si volle decodificare. Nel 1974 il segretario di Stato americano Kissinger lo minacciò: «O la smette, o la pagherà molto cara!». Nessuno colse, nella missiva indirizzata al collega Zaccagnini, il richiamo a quell'episodio che lo stesso Moro indicò, probabilmente, come la vera e propria genesi della sua condanna a morte. freccia rossa che punta in alto

Sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli (Valerio Riva per "Il Giornale")

[...] sarebbe ora piuttosto che si cominciasse a fare un po' di revisionismo anche su questo. Ho conosciuto Feltrinelli meglio di chiunque altro. Se qualcuno aveva interesse a eliminare Feltrinelli era il Pci. E come al solito, ci riuscì perfettamente. So di cosa parlo. Feltrinelli ha sempre odiato Togliatti: tant'è vero che quando entrò in clandestinità il nome che prese, e con il quale fu identificato da morto sotto il traliccio di Segrate, era quello di un garibaldino della guerra di Spagna suicidatosi dopo aver scoperto che Togliatti gli scopava la moglie mentre lui stava al fronte. E dopo Togliatti, odiava Longo, e dopo Longo Berlinguer. L'azione nella quale poi trovò la morte, era stata appunto pensata per far piombare Milano nel buio proprio la mattina in cui, sempre a Milano, si doveva aprire il congresso nazionale in cui il Pci avrebbe eletto segretario Enrico Berlinguer. Che congresso sarebbe stato a luci spente e senza elettricità? Con il black-out le cose forse avrebbero preso una piega diversa. Il Pci fu informato del piano? Ma certo (Giangiacomo viveva circondato di mosconi del partito). E il Pci prese le sue precauzioni. Neutralizzare Feltrinelli. Il piano di Giangiacomo prevedeva il minamento e il danneggiamento di otto grandi tralicci dell'energia elettrica tutt'attorno a Milano. L'esecuzione doveva essere compiuta da otto piccoli commandos, due o tre persone per volta. La risposta del Pci fu rapida e efficace. Sette furono "convinti", all'insaputa di Feltrinelli, a far sega o a posare cariche bagnate. Ma l'ottavo traliccio Feltrinelli se l'era riservato per sè. Più difficile "convincere" anche lui. Come rimediare? Mandandogli due "apprendisti" che fino a quel momento lui aveva visto sì o no un paio di volte. In pratica dei perfetti sconosciuti. O sicari? Eh, questo è il busillis. Furono loro a provocare la sciagura? O si limitarono a guardarlo dissanguarsi in mezzo a quel prato, di notte, senza intervenire? Per poi correre a informare il partito che il pericolo era, come si voleva, scongiurato? Io una mia idea ce l'ho. E la ricavo dal fatto che, dopo, quei due "apprendisti" furono straordinariamente protetti, tenuti lontani, in silenzio, fatti scomparire. Nessuna polizia, né magistrato, né servizio ha mai osato metterci le mani sopra. Chi avrebbe mai potuto arrivare a tanto? La risposta è ovvia. freccia rossa che punta in alto

18 Novembre 2003 (Corriere della sera)
Non solo Br, tutti i nemici del Gran Tessitore

Corrado Guerzoni, giornalista e dirigente della Rai, è stato uno dei collaboratori più stretti di Aldo Moro. Dal 9 di maggio del '78, quando il cadavere del leader democristiano fu restituito dalle Brigate Rosse, ha parlato pochissimo. Ma non ha cambiato idea. Continua a trovare «incredibile» che le Br abbiano fatto tutto da sole. Non crede nemmeno, però, che fossero eterodirette. «È come quando si getta un sasso in un lago. Il sasso va subito a fondo, in superficie si formano dei cerchi concentrici, ognuno dei quali ha una forma e una vita sue proprie. Il sasso è stato lanciato il 12 dicembre 1969, con la strage di Piazza Fontana. Il rapimento e l'assassinio di Moro sono stati l'ultimo dei cerchi concentrici che ha provocato. Il potere politico non è mai implicabile in prima persona, Moro lo hanno sequestrato le Br, ma in accordo, di fatto, con i nemici interni e internazionali della sua politica. Una specie di appalto: fate quello che dovete fare, ma il più possibile in fretta, quest'uomo deve morire». Di nuovo partito della trattativa contro partito della fermezza, 25 anni dopo? «No. La verità su Moro bisogna cercarla dietro lo schermo di questa contesa. Era stato detto: non lasceremo niente di intentato. Ma non si fece nulla di serio per arrivare alla prigione e al prigioniero. E non credo si sia trattato solo di incapacità». Al Corriere , Guerzoni rivela alcuni particolari inediti di quelle terribili settimane. Ma prende le mosse più di lontano. Anche per chiarire, sulla scorta dei suoi ricordi, chi fossero, a suo giudizio, i nemici di Moro. Henry Kissinger, per cominciare. Nel 1974, Moro, ministro degli Esteri, è negli Stati Uniti con il presidente della Repubblica, Giovanni Leone. «Moro cercava di spiegare la situazione italiana, Kissinger gli rispondeva duramente. A un certo punto, tagliò corto: "Se fossi cattolico, come lei, crederei anche nel dogma dell'Immacolata Concezione. Ma non sono cattolico, e non credo né a questo dogma né all'evoluzione democratica dei comunisti italiani". Il giorno dopo, a New York, Leone andò al porto, a cantare "O Sole mio", Moro andò in chiesa, a Saint Patrick, e si sentì male. Di ritorno a Roma, mi chiamò e mi disse: "Cominci a far circolare nei giornali la notizia che io intendo abbandonare la politica attiva". Non andò così, in estate divenne presidente del Consiglio». Ma il rapporto con Kissinger rimase teso. Luglio '76, vertice di Portorico. «Il cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il presidente francese Giscard d'Estaing, appoggiati ovviamente dagli americani, sostenevano che all'Italia, in piena crisi economica, non si dovesse dare neanche un soldo, se il Pci fosse entrato nell'area di governo, come stava avvenendo in quei giorni. La leggenda vuole che Moro non sia stato invitato alla cena conclusiva. È falso, fu lui a decidere di non andarci, ma certo così tolse dall'imbarazzo anche i suoi interlocutori, convinti che Moro fosse pregiudizialmente filocomunista». Ma anche una parte consistente della Dc guardava talvolta con ostilità, sempre con diffidenza la sua politica. Per non dire della destra. «Moro era convinto che la Dc avesse un solo, grande nemico: se stessa. No, non è mai stato un doroteo nel senso vero del termine. Già nel '59, quando diventa segretario, è piuttosto un politico convinto che senza portarsi appresso i dorotei il centrosinistra non si farà mai. Nel luglio del '60, nei giorni tesissimi che portarono alle dimissioni di Tambroni, Moro, per sicurezza, dormiva fuori casa. Non si fidava della polizia, si rivolse ai carabinieri, al generale Ferrara, che gli mandò un giovane militare. Si chiamava Oreste Leonardi, restò con lui per quasi 18 anni. Le Br lo uccisero, con altri quattro, in via Fani». Moro, insiste Guerzoni, per fare la sua politica, era convinto di non poter avere contro né la Chiesa né gli Stati Uniti. E di dovere rassicurare i conservatori, i moderati, e gli apparati. Pietro Nenni lo comprendeva bene. «Nel luglio del '64, quello del Piano Solo, fu il presidente della Repubblica Antonio Segni a dirgli: "Io non sono contrario al tuo tentativo di ricostituire il centrosinistra, ma ti avverto, il generale De Lorenzo mi segnala che la situazione è drammatica". Francesco Cossiga sostiene che Moro, come lui, era attentissimo alle informazioni dei servizi. Non è vero, posso testimoniare che non leggeva nemmeno i mattinali. Per sbloccare la situazione, assieme ad altri dirigenti della Dc incontrò, a casa di Morlino, De Lorenzo e il capo della polizia Angelo Vicari. Ascoltò, prese atto delle preoccupazioni, rassicurò. E riferì a Nenni, che capì alla perfezione, tanto è vero che parlò di tintinnar di sciabole e tornò al governo, come stavano esattamente le cose. Tornò a Palazzo Chigi. Nel '66 provarono ancora a disarcionarlo. Glielo disse Giuseppe Saragat, succeduto a Segni alla presidenza: "Il tuo partito ti sta mollando, i dorotei, soprattutto Flaminio Piccoli, sostengono che devi compiere un atto di generosità verso la Dc, e ritirarti". Credo di aver avuto un ruolo nel far fallire il progetto: feci informare Paese sera , che diede la notizia con grandissimo risalto. Così Moro guadagnò due anni. Fino al '68, quando si ritrovò non in minoranza, ma letteralmente solo. Ricordo bene quell'estate nel suo ufficio in via Savoia. Cercò Taviani, ma Taviani gli fece sapere che sarebbe andato per la sua strada. Cercò Cossiga, ma Cossiga gli rispose che sarebbe andato con Taviani: la pace la fecero solo vari anni più tardi, in un paesino sardo, Pattada. Moro piangeva. Una volta mi disse: "Ormai vedo solo schiene di persone che si allontanano, mai il volto di qualcuno che si avvicini"». Dieci anni dopo, però, Moro non è soltanto il presidente della Dc, ma anche il principale interprete, e il garante, della politica di unità nazionale. È a questo punto che le Br lo rapiscono. Cominciano le settimane più drammatiche della storia repubblicana. «Sembrava che si aspettasse l'ineluttabile. Nicola Rana ed io eravamo considerati gli ambasciatori del "partito della famiglia", pareva che il principale desiderio di Ugo Pecchioli fosse quello di vederci in galera. Ma, nell'inazione generale, nemmeno i nostri telefoni erano controllati. Un ricordo per tutti. Le Br avevano fatto sapere a Rana che la lettera di Moro per Cossiga, la prima, era dietro un juke box, in un bar di viale Trastevere. Lo accompagnai. Entrati nel bar, non sapevamo bene cosa fare. Premuroso, il barista ci porse una scopa: vi può servire, ci disse, per tirare fuori quello che dovete recuperare dietro il juke box». «Noi non chiedemmo alla Dc di aprire una trattativa con le Br. Chiedemmo un atteggiamento flessibile, aperto a verificare tutte le possibilità. Lo dissi a Benigno Zaccagnini, a piazza del Gesù, subito dopo il sequestro. Mi chiese di parlarne con Corrado Belci, che doveva buttar giù un primo comunicato. Stavo per farlo, quando mi chiamò Leopoldo Elia: "Nulla da fare, la linea sarà quella del massimo rigore, chi lo invoca più di tutti è Piccoli". Proprio quel Piccoli che Moro aveva definito "un misto di abnegazione e di opportunismo"... Fatto è che per seguire il caso, nella Dc, fu costituito un gruppo ad hoc . E per 54 dei 55 giorni gli organismi dirigenti non furono mai convocati».
Ma la mattina del 9 maggio la direzione democristiana si riunì. E Cossiga, in una recente intervista a Sette , ha detto che le Br, se avessero aspettato solo un altro po', avrebbero avuto partita vinta: Amintore Fanfani si sarebbe pubblicamente pronunciato per una soluzione umanitaria, e la maggioranza del partito, in Consiglio nazionale, lo avrebbe seguito. «Non è così. Fanfani si è comportato personalmente bene, in tutta la vicenda. Soprattutto con la famiglia, e in particolare con Eleonora Moro. C'ero, quando andò a trovarla subito dopo il ritrovamento del corpo del marito. La signora Moro voleva assolutamente vederlo intatto. Fu Fanfani, davanti a noi, a telefonare al Procuratore generale Pietro Pascalino, che pretendeva di procedere immediatamente all'autopsia, e ad ottenere di rinviarla del pochissimo tempo necessario a rendere possibile l'ultimo saluto della moglie. Ma qualche ora prima, in direzione, se avesse parlato, Fanfani avrebbe richiesto al partito solo una maggiore apertura, una maggiore flessibilità, proprio come avevamo detto noi, all'inizio della tragedia. Chiedere, ed ottenere, di più avrebbe significato rompere con i comunisti, far saltare il quadro politico, andare, in un frangente drammatico, ad elezioni anticipate. E questo era assolutamente impensabile». «La linea della fermezza era stata letteralmente imposta alla Dc dai comunisti. E che i comunisti sarebbero stati irremovibili fu Enrico Berlinguer in persona a dirlo alla signora Moro: noi non possiamo fare niente di diverso, da noi non si aspetti nulla. Andreotti prese atto della situazione, non era certo il realismo a fargli difetto, e si comportò di conseguenza. Qualche speranza la avevamo riposta nel Papa, che nella notte tra il 21 e il 22 aprile scrisse la sua lettera agli "uomini delle Brigate Rosse". Padre Carlo Cremona, nella sua biografia di Paolo VI, ricorda che il Papa fece recapitare lo scritto al cardinal Casaroli, che glielo restituì con qualche correzione. Sarebbe interessante sapere di quali correzioni si trattasse...». Forse, tra queste, c'era anche l'esortazione a liberare il prigioniero «senza condizioni»? Guerzoni non lo dice, ma racconta di una visita importante a casa Moro, poco prima della doppia cerimonia funebre. Quella di Stato, con Paolo VI, a San Giovanni, e quella, privatissima, di Torrita Tiberina. «Il cardinale Ugo Poletti, Vicario di Roma, che teneva i rapporti con la signora Moro, insisteva perché partecipasse al funerale a San Giovanni. Eleonora Moro si disse mortificata di dover rispondere di no al Papa, ma tenne duro: le ultime volontà del marito erano chiarissime, e poi era stato lo stesso Moro, dalla prigione brigatista, a lamentare che Paolo VI aveva fatto "pochino". E il cardinal Poletti allargò le braccia e le rispose: "Non è colpa del Papa, è stato il governo a imporglielo...». freccia rossa che punta in alto

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