Dicembre 2003
7 Dicembre 2003 (Misteri d'Italia)
CASI MORO, SOFRI, TOBAGI: LA COMMISSIONE STRAGI È STATA INGANNATA?
Giovedì 11 dicembre prossimo, alle ore 11 presso la Sala Stampa di Montecitorio si svolgerà un interesante incontro dal titolo: DOPO 25 ANNI LA VERITA SULLE CARTE DI MORO E SUL CASO TOBAGI
- L'incontro con giornalisti e parlamentari avviene intorno alle rivelazioni contenute nel libro dell'ex capitano dei carabinieri Roberto Arlati e del giornalista Renzo Magosso, Le carte di Moro (Franco Angeli editore). Il libro alza il velo su un segreto tra i più inquietanti della recente storia italiana. Denuncia i nomi di chi ha preso (e mai restituito) le carte di Aldo Moro (trovate nel covo di via Monte Nevoso a Milano) con le rivelazioni più scottanti fatte dallo statista democristiano nei 55 giorni del suo tragico rapimento. Il libro spiega, nei particolari, come sono state sottratte le carte di Moro. In quali circostanze. Chi le selezionò. Chi le portò a Roma beffando i magistrati di Milano. I nomi dei responsabili sono in gran parte gli stessi che decisero (con una serie di imbrogli per depistare la magistratura) di non salvare il giornalista Walter Tobagi pur sapendo con largo anticipo che un gruppo terrorista improvvisato stava per ammazzarlo. A svelare come sono andate le cose è l'ex capitano dei carabinieri Roberto Arlati: cioè l'ufficiale che ha ideato, organizzato e portato a termine (malgrado ostilità all'interno dell'Arma) il blitz in via Monte Nevoso a Milano il 1° ottobre 1978. Lui ha trovato il memoriale scritto da Aldo Moro. Un suo sottufficiale ha rivelato in anticipo (e purtroppo invano) i nomi dei killer di Tobagi. Una delle figure che ricorre in questa intricata storia di imbrogli è lo scomparso col. Umberto Bonaventura, colui che - all'insaputa dei magistrati milanesi - gestì per 18 giorni il "pentito" Leonardo Marino, grande accusatore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Parteciperanno all'incontro del'11 dicembre: Giovanni Pellegrino, già presidente della Commissione Stragi (1994 - 2001); Valter Bielli, deputato DS; Alfredo Biondi, deputato Forza Italia; Marco Boato, deputato Verdi; Franco Corleone, già sottosegretario al ministero della Giustizia; Ugo Intini, deputato SDI; Giuliano Pisapia, deputato Rifondazione comunista.
11 Dicembre 2003
Tutta la conferenza stampa sul sito di RadioRadicale.
(TGcom) - Nuove verità sul memoriale di Moro.
La mattina del primo ottobre 1978, il memoriale di Aldo Moro in copia carbone viene portato via, senza essere stato neanche verbalizzato, dal capitano dei carabinieri Umberto Bonaventura. Sono le 11. Le carte tornano nell'appartamento di via Montenevoso alle sei e mezzo di sera, incomplete. Lo ha rivelato l'ex capitano dell'Arma Roberto Arlati. L'uomo che ha diretto il blitz nel covo delle br a Milano dove venne arrestato, tra gli altri, Lauro Azzolini, membro del comitato esecutivo delle Brigate Rosse. L'ex ufficiale dell'Arma smentisce quindi la versione che Bonaventura, oggi scomparso, fornì nel 2000 alla commissione Stragi, quando dichiarò che il memoriale gli venne consegnato in caserma. Non solo: in un libro scritto insieme al giornalista Renzo Magosso, racconta che il memoriale di Aldo Moro gli venne riportato in una versione incompleta. Un'altra rivelazione contenuta nel libro dal titolo 'Le carte di Moro, perché Tobagi' (Ed. Franco Angeli) riguarda l'omicidio del giornalista del 'Corriere della Sera', ucciso dai terroristi di Prima Linea il 20 maggio 1980: un'informativa avvertì che il giornalista era nel mirino dei terroristi. UN GRUPPO DI PARLAMENTARI CHIEDE LA RIAPERTURA DEL CASO Secondo la ricostruzione fornita da Arlati, un ufficiale dell'Arma, nome in codice Ciondolo, consegnò a Bonaventura un'informativa riguardante il rischio di un agguato terroristico contro Tobagi. "Quel rapporto -afferma Magosso, che ha raccolto le dichiarazioni dell'ex ufficiale dei CC- venne di fatto ignorata e neutralizzata". Un gruppo di parlamentari, tra i quali Giuliano Pisapia di Prc, Walter Bielli dei Ds, Marco Boato, del gruppo Misto, Ugo Intini, Presidente dei deputati dello Sdi, avrebbe intenzione di chiedere, sulla scia di queste ultime rivelazioni, la riapertura dell'inchiesta da parte della magistratura sul blitz di via Montenevoso e quindi sulla parte mancante del memoriale. Un altro capitolo del caso Moro sul quale vi sono ancora molte ombre. PELLEGRINO: SPARIZIONE CARTE SPIEGA ATTI GEN. DALLA CHIESA. "Il vero sospetto -secondo l'ex presidente della commissione Stragi, Giovanni Pellegrino- è che Bonaventura non fosse solo il referente di Dalla Chiesa, ma anche di altri ufficiali dell'Arma, come Massei. Non è infatti addebitabile a Dalla Chiesa l'iniziativa di neutralizzare un'informativa che avrebbe potuto salvare la vita a Tobagi". "La valutazione che faccio - aggiunge Pellegrino - è che la magistratura dovrebbe sentire subito Arlati e tutti gli altri carabinieri. La sensazione è che la metà del memoriale manca, ma neanche Dalla Chiesa, probabilmente, ha avuto la documentazione completa. Ecco spiegato perché il generale si chiede davanti alla commissione Moro chi le avesse recepite, facendo riferimento anche alle borse dello statista. E successivamente si reca nel carcere di Cuneo, dal maresciallo Incandela, per vedere se una parte del memoriale fosse realmente nascosto all'interno del penitenziario".
(Dagospia)
- Sono le sette di mattina del primo ottobre del 1978. In via Monte Nevoso 8, quartiere Lambrate di Milano, il capitano dell'antiterrorismo Roberto Arlati arresta Lauro Azzolini, che ha appena lasciato il covo delle Brigate rosse per dirigersi a Firenze. Quindici minuti dopo i carabinieri sfondano la porta dell'appartamento e trovano una donna pallida e spaventata. E' Nadia Mantovani, che, con un filo di voce, implora: "Non sparateci". Dietro di lei c'è un uomo in canottiera. E' Franco Bonisoli, membro del commando che il 16 marzo ha sequestrato Aldo Moro. Nel minuscolo appartamento sono sparsi ovunque fogli dattiloscritti. Arlati non crede ai suoi occhi: sullo scrittoio c'è un plico con la copertina azzurra. Si tratta del memoriale di Aldo Moro. Contiene le sue lettere - alcune mai spedite -, i suoi appunti, i resoconti degli interrogatori nella "prigione del popolo". Alle 11 di mattina arriva in via Monte Nevoso anche il capitano dei carabinieri Umberto Bonaventura, che successivamente diventerà colonnello del Sismi e raccoglierà le "confessioni" di Leonardo Marino, l'accusatore di Adriano Sofri. Immediatamente porta via il dossier Moro per fare delle fotocopie contro la volontà di Arlati che invece vuole prima protocollare e verbalizzare tutte le carte ritrovate. Bonaventura infila il dossier in una valigetta e se ne va: i documenti tornano indietro solo sette ore dopo, ma non sono completi. Una versione dei fatti che era già emersa nel 1990 - ma solo parzialmente - durante un'audizione alla commissione Stragi. Allora Bonaventura aveva ammesso, davanti allo sguardo stupito del senatore Pellegrino, che quel giorno il memoriale aveva compiuto un piccolo viaggio irregolare prima di finire sulla scrivania dei magistrati. Fino a oggi, il giallo delle carte, insieme alle altre dietrologie sul caso di Moro, apparteneva all'universo delle mille ipotesi mai comprovate dai fatti. Ora però un libro, destinato a riaprire polemiche e ferite, conferma il sospetto che il dossier (al centro di 4 inchieste giudiziarie, forse incautamente archiviate) sia stato esaminato altrove dal generale Dalla Chiesa e probabilmente censurato prima di finire sul tavolo del procuratore Pomarici. Nel libro "Le carte di Moro, perché Tobagi" (edizioni Franco Angeli) Renzo Magosso e l'ex capitano Arlati hanno ricostruito gli eventi di quella giornata. Grazie alle ammissioni dell'ex ufficiale dell'antiterrorismo, che successivamente si è congedato - oggi per vivere vende lavatrici -, viene confermata l'ipotesi della sottrazione del memoriale Moro. Le rivelazioni però non finiscono qui. La seconda parte del libro, che verrà presentato oggi a Montecitorio, è dedicata all'omicidio di Walter Tobagi. Secondo Magossi e Arlati, poteva essere impedito. Prima che il giornalista del Corriere della Sera venisse ucciso, il 29 maggio del 1980, un sottufficiale del capitano Arlati, nome in codice Ciondolo, riceve un'informazione da un suo confidente. Un gruppo di estremisti, la Brigata 28 marzo, vuole organizzare un attentato contro Walter Tobagi per entrare nelle Brigate rosse. Ciondolo riferisce al capitano Bonaventura, allora capo dell'Antiterrorismo a Milano, ma il suo rapporto rimane nel cassetto. Ciondolo viene trasferito e Tobagi assassinato. Un'accusa già emersa in passato grazie alla denuncia dei socialisti, che ora trova una nuova conferma nelle parole di Arlati e del suo sottufficiale contenute nel libro. Perciò oggi a Montecitorio un gruppo di deputati - fra cui Boato, Intini, Pisapia, Biondi e Bielli - presenteranno un'interpellanza parlamentare rivolta sia al presidente del Consiglio che ai ministri della Giustizia e della Difesa e probabilmente chiederanno la riapertura del fascicolo Moro e delitto Tobagi. Convinti che prima di voltare definitivamente la pagina degli anni di piombo, bisogna poterla leggere.
(L'Opinione)
- [...] "Il capitano Bonaventura è stato l'artefice della scoperta del covo di via Montenevoso - spiega Enzo Fragalà (deputato di An e membro della commissione parlamentare Mitrokhin) -. A mio modesto parere tutta la storia sulle carte segrete di Moro che sarebbero state usate dai Carabiniri per ricattare Giulio Andreotti è solo una enorme invenzione. Perché se un investigatore scopre un dossier interessante ha la sola esigenza di renderlo pubblico: sia per motivi di carriera che prestigio. E penso che qualsiasi agente di polizia giudiziaria se scoprisse, durante una perquisizione, una lettera segreta di Aldo Moro in cui si denuncia che dietro il suo sequestro c'era il Kgb od un personaggio della Dc legato allo spionaggio comunista, lo renderebbe pubblica. E questo sia per accrescere il proprio prestigio che, naturalmente, per un innato senso di rispetto della verità: in ogni uomo in divisa c'è questo sentimento. Poi va detto che le Br, quando sequestrarono Moro, avevano proclamato che avrebbero reso pubblico il processo a Moro. Invece - precisa Fragalà - hanno nascosto tutte le rivelazioni: questo la dice lunga su cosa fosse il processo del popolo. Ciò dimostra che avevano interesse ad interrogare Moro solo per rivelare i segreti di Moro al Kgb, e dopo aver appreso ogni cosa su Gladio e Nato avrebbero comunque ucciso Moro, perché era negli accordi tra brigatisti e servizi sovietici. Del resto - conclude Fragalà - anche Andreotti aveva detto che Moro era l'unico politico italiano a conoscenza di particolari segretissimi della Nato e delle difese italiane anti-comuniste: ne deriva che le Br non agivano per conto proprio ma su ordini del Kgb".
20 Dicembre 2003 (Corriere della Sera)
«Gli assassini di Biagi? Mummie fuori dal tempo»
«La pista dei collegamenti con Parigi è smentita anche dalle carte trovate nelle ultime operazioni»
- Formalmente è ancora indagato per l'omicidio di Marco Biagi, ma ormai le indagini sulle nuove Brigate rosse hanno preso un'altra strada. E così l'inchiesta sul conto di Paolo Persichetti - condannato a 22 anni e mezzo di carcere per l'omicidio del generale Licio Giorgieri ucciso a Roma nel 1987 dall'Unione dei comunisti combattenti nata da una costola delle Br, estradato nell'agosto 2002 dopo undici anni di latitanza vissuta in Francia per lo più alla luce del sole, ultimo brigatista della vecchia generazione ad entrare in galera - sembra un'appendice burocratica in attesa di archiviazione. A suo carico c'è la testimonianza di una donna che disse di aver notato una forte rassomiglianza tra il Persichetti visto in tv dopo l'arresto e un uomo appostato sotto casa di Biagi nei giorni precedenti il delitto; gli stessi in cui Persichetti faceva lezione ai suoi studenti dell'università Paris VIII. A Parigi, appunto. «L'inchiesta sulla morte di Biagi s'era concentrata su di me ancor prima del mio arresto, anche se sul registro degli indagati il mio nome è comparso solo nel giugno scorso - protesta Persichetti -, io sono qui per via di quell'omicidio». In effetti la sua estradizione era stata annunciata come l'inizio di un'ondata di rientri di cosiddetti «rifugiati» dalla Francia, ma dopo di lui nessun altro condannato per reati di terrorismo ha attraversato le Alpi in manette. «Gli stessi francesi sono rimasti stupiti dalla "regolarità" e trasparenza della mia vita parigina, e hanno fatto marcia indietro sugli altri fuoriusciti», dice l'ex brigatista detenuto nel carcere di Viterbo dopo i primi mesi trascorsi nel penitenziario superprotetto di Ascoli Piceno, lo stesso dov'è rinchiuso Totò Riina. Che effetto le fa essere indagato per l'omicidio Biagi insieme a Nadia Lioce e altri tre sospetti neobrigatisti accusati di quel delitto? «E' un fatto semplicemente assurdo, visto che sull'omicidio Biagi ho scritto delle considerazioni su un sito Internet firmandole col mio nome e cognome, e che il giorno dopo l'omicidio commentavo in una email: "Se sono gli stessi del '99 (omicidio D'Antona, ndr ), la labilità politica di questi nuovi soggetti si è ulteriormente aggravata". Il mio arresto è avvenuto in un clima torbido, m'è perfino arrivata una lettera anonima che mi invitava a pentirmi. Ma di che? Io vorrei solo essere considerato un detenuto che sconta la sua pena, senza quella aggiuntiva di un sospetto basato sul nulla». Eppure che le nuove Br abbiano contatti e forse complici tra gli ex terroristi rifugiati all'estero per gli investigatori non è un'ipotesi così assurda. «Il cosiddetto "santuario francese", a quello che ho letto, viene smentito dagli stessi documenti dei brigatisti: nel computer palmare della Lioce c'era l'indicazione di non arruolare i vecchi militanti, e in un documento trovato nelle perquisizioni è scritto che c'erano solo due militanti complessivi, cioè clandestini, Lioce e Galesi. Sono proprio gli elementi raccolti dagli investigatori a dire che non esistono altri latitanti nell'organizzazione». Chi sono allora, secondo lei, i nuovi brigatisti? «Premesso che finora solo un paio di arrestati hanno rivendicato la loro militanza brigatista o rivoluzionaria, le biografie degli arrestati, in particolare quelli toscani, danno l'impressione di personaggi già conosciuti nella seconda metà degli anni Ottanta tra quel che restava delle Br; gente che ha avuto contatti generici o superficiali che forse ha vissuto il mancato arruolamento dell'epoca come un fallimento esistenziale e oggi ricorre quell'identità che non ha potuto assumere negli anni Ottanta». E i romani, invece? Alcuni hanno la sua età o sono poco più giovani. «Io non ho conosciuto né incontrato nessuno degli arrestati, però ho frequentato gli stessi ambienti ed è normale che chi oggi vuole riprendere discorsi di lotta armata provenga dagli ambienti della sinistra antagonista. Ma è un'appartenenza sociologica, non politica, nel senso che non è affatto automatico che quegli ambienti producano discorsi di lotta armata. Anzi. Oggi la violenza politica non è considerata una "risorsa legittima" dalle grande maggioranza dei movimenti, ed è questa la grande differenza con gli anni Settanta. Mi stupisce, semmai, che in questa realtà si propugni un "continuismo" delle Br che risulta totalmente astratto e avulso da ogni contesto sociale e politico». In che senso? «Nel senso che chi ha ucciso D'Antona e tre anni dopo Biagi mi dà l'idea di una mummia che s'è improvvisamente svegliata dopo un sonno ultradecennale e pensa di essere all'indomani dell'omicidio Ruffilli, 1988. Siamo di fronte a un fenomeno di vero e proprio autismo: un ristrettissimo gruppo di persone che parlano solo tra loro. Anche l'idea di accompagnare gli omicidi a piccoli attentati firmati da altre sigle per dare l'idea di un'effervescenza insurrezionale è solo un trucco che peraltro risale agli anni Settanta, quando però quell'effervescenza c'era davvero». Ma anche il gruppo di cui lei ha fatto parte è nato quando ormai la lotta armata era stata sconfitta. «E' vero, ma è vero che quel gruppo tentò un discorso di rifondazione della lotta armata. In ogni caso, allora c'era ancora qualcuno in circolazione, mentre tra l'88 e l'89 non sono "caduti" solo i militanti, ma pure le basi, le armi, gli archivi. Se anche qualcuno sfuggì agli arresti, l'esperienza fu dichiarata chiusa da tutti i prigionieri tranne una quindicina che ancora oggi rivendicano le azioni». Questo può voler dire che se oggi non si trovano i covi e le armi chi è rimasto libero potrebbe proseguire l'attività? «Le Br sono state l'organizzazione extraparlamentare che ha avuto la vita più lunga, a sinistra solo il Pci è durato più delle Br, oltre vent'anni. E in vent'anni si sedimentano simboli e culture che possono resistere oltre il significato iniziale, e dunque ci potrà sempre essere un neo-brigatista, come ci sono i trotzkisti o i bordighisti. Anche perché questo Paese non ha mai voluto fare i conti con ciò che è accaduto in quel periodo. La rimozione non basta».
21 Dicembre 2003 (Ansa)
ROMA - Trovato il covo delle nuove Br da tempo cercato dalla polizia: armi ed esplosivo erano in una cantina di un palazzo al Prenestino, a Roma. Qui, in un locale in un palazzo in via Montecuccoli, Marco Mezzasalma ha trasportato il materiale da via Maia, l'appartamento utilizzato dal gruppo di presunti brigatisti arrestati a Roma dalla Digos nell'ottobre scorso e frequentato anche da Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce. Nel covo sono stati trovati alcuni volantini di rivendicazione originali degli attentati delle Brigate rosse. Uno di questi sarebbe proprio quello riferito all'omicidio del giuslavorista Marco Biagi. Trovato anche il borsone nero che si vede distintamente nel video relativo alla registrazione del 'trasloco' fatto dai presunti brigatisti dal covo romano di via Maia. Nello scantinato di via Montecuccoli sono stati trovati anche volantini dei Nuclei Proletari Rivoluzionari. Finora i documenti piu' rilevanti sono comunque i volantini di rivendicazione per l' omicidio Biagi. Intanto e' stata individuata - ma si e' resa irreperibile - la donna che ha firmato regolarmente il contratto di affitto del covo. La donna e' la stessa ripresa dalle telecamere del deposito dell'Easy Box, vicino al Verano, al momento del trasloco. Per precauzione i vigili del fuoco, nel corso della perquisizione, hanno evacuato il palazzo poiche' c'era il rischio di un'esplosione in quanto sono stati trovati 50 kg di esplosivo da cava. Nel covo sono state trovate anche divise di polizia e carabinieri, un fucile M12, floppy disk, cellulari e stampanti. I pm Ionta e Saviotti, titolari dell'inchiesta, hanno detto: 'Colpo decisivo alle Br. Tutto il materiale che avevano le Br e' saltato fuori. La scoperta del covo ha valenza anche psicologica per i militanti delle Br'. Gli agenti della Digos hanno portato via cento chili di esplosivo da cava, plastico e altre miscele. Subito dopo gli abitanti del palazzo sono stati fatti rientrare in casa. Dallo scantinato intanto sta spuntando di tutto: gli agenti hanno trovato anche i documenti di Nadia Desdemona Lioce e di Mario Galesi. Erano tra patenti, fotototessere, e modulistica per la produzione di documenti di identita'.Secondo gli inquirenti, infine, c'e' un collegamento tra il gruppo di brigatisti che ha ucciso Biagi con quello che ha assassinato D'Antona. La prova, secondo gli investigatori, e' il ritrovamento del volantino originale della rivendicazione dell'omicidio di Biagi nel covo di via Montecuccoli. Cosi' il questore di Roma: 'Si è aperta una seconda fase molto importante delle indagini sulle Brigate Rosse. I risultati sono ottimi e molte sono le conferme del lavoro fatto finora'.
(Rai News)
"E' un colpo decisivo. Tutto il materiale che avevano le Br è saltato fuori. La scoperta del covo ha una valenza anche psicologica per i militanti delle Brigate rosse". Le poche parole pronunciate a caldo, davanti al palazzo di via Raimondo Montecuccoli, nel quartiere romano del Prenestino, dai pm Franco Ionta e Pietro Saviotti, riassumono l'importanza dell'operazione condotta nel pomeriggio dalla Questura della capitale: la polizia ha individuato il nascondiglio utilizzato dal gruppo dei presunti nuovi brigatisti arrestati il 24 ottobre scorso con l'accusa di aver organizzato l'omicidio di Massimo D'Antona. "Speriamo che questo di via Montecuccoli sia l'ultimo covo e che non ce ne siano altri" hanno aggiunto i magistrati titolari dell'inchiesta, senza nascondere la soddisfazione. E lo stesso ministro dell'Interno, Giuseppe Pisanu, subito informato dai vertici della sicurezza, ha seguito costantemente gli sviluppi investigativi. Dentro c'era di tutto - Nello scantinato del palazzo, al numero 3 della traversa di via Prenestina, dove gli agenti sono entrati alle 17:30 sfondando la porta, c'era di tutto: cento chilogrammi di esplosivo, detonatori e congegni elettrici attivabili a distanza, riproduzioni perfette di mitra, videotape e computer, documenti vecchi e nuovi, in parte riconducibili agli arrestati romani nel blitz di ottobre, ma anche originali come quelli che rivendicano l'uccisione di Marco Biagi, materiale firmato Npr, divise e berretti di polizia e carabinieri, patenti, documenti di identita', floppy disk, cassette, telefoni cellulari e stampanti. Altre carte di identità con nomi sconosciuti agli investigatori sono state trovate nel covo e non è escluso che oltre ai nomi di fantasia ve ne possano essere alcuni realmente esistenti. In alcuni sacchi di juta c'erano documenti triturati e ridotti in coriandoli. Manca l'arma dei delitti e l'intestataria del covo - L'unica delusione è stato il mancato ritrovamento della pistola calibro 9 utilizzata per uccidere Massimo D'Antona e Marco Biagi. La donna che aveva preso in affitto lo scantinato intorno al 18 ottobre scorso (pochi giorni prima degli arresti), è una romana di 35 anni - Diana - senza precedenti penali. E' fuggita con tutta probabilità il 24 ottobre scorso quando scattò il blitz che portò agli arresti del gruppo. Gli agenti sono andati in via del Pigneto 28, dove risultava residente, grazie al numero di telefono fisso che aveva comunicato, ma hanno trovato la casa abbandonata da tempo. La donna è la stessa filmata dalle telecamere del deposito Easy Box, a San Lorenzo, quando Marco Mezzasalma, ritenuto il responsabile del settore logistico delle nuove Br, andò a prelevare con un furgone il materiale che vi aveva portato traslocando dal covo di via Maia, nella zona del Quadraro, frequentato anche da Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce. Nello scantinato di via Montecuccoli sono stati trovati ammassati scatoloni e borsoni contenenti i documenti dell'archivio delle Brigate Rosse, ma anche due bombe a mano di tipo ananas. Gli investigatori hanno impiegato ore per inventariare e portare via tutto. Tra il materiale è spuntato anche il borsone nero che si vede distintamente nel video al momento del trasloco dal covo di via Maia (da cui via Montecuccoli dista, senza traffico, mezz'ora di macchina). Il ritrovamento dell'enorme quantitativo di esplosivo ha spinto i vigili del fuoco a sgomberare - fino alle 22:30 - il palazzo di sei piani, dove c'è un hotel a due stelle e al piano terra una frutteria e una tabaccheria, e a transennare la via per tenere lontani i curiosi. La Digos di Roma è riuscita a rintracciare il covo delle Br setacciando fin da ottobre tutti gli annunci pubblicati dal bisettimanale Portaportese e mostrando - porta a porta - le foto dei presunti brigatisti arrestati in ottobre. Trovati collegamenti tra Br Roma e Bologna - Per gli inquirenti è molto importante il fatto che sia stato trovato un pacchetto di volantini dei Npr poiché questo conferma il legame esistente tra le Br e le altre sigle che hanno firmato altri attentati minori come quello di via Brunetti a Roma. A loro giudizio, il ritrovamento del volantino originale della rivendicazione dell'omicidio di Marco Biagi è la conferma del collegamento tra il gruppo di brigatisti romano e quello che ha agito a Bologna. Il particolare è ritenuto appunto decisivo poiché suffraga le ipotesi investigative sostenute anche nelle ordinanze di custodia cautelare emesse in ottobre."Si è aperta una seconda fase molto importante delle indagini sulle Brigate Rosse - ha detto il Questore di Roma Nicola Cavaliere, che ha seguito personalmente le operazioni -. I risultati sono ottimi e molte sono le conferme del lavoro fatto finora". Gli analisti si sono messi al lavoro già da questa sera stessa poiché le carte sono numerose. Domani a mezzogiorno ci sarà una conferenza stampa in Questura di Roma durante la quale verrà illustrata l'operazione e verranno fornite le foto dello scantinato e i dettagli sul materiale ritrovato.
(Corriere della Sera)
Ionta: «E' un colpo decisivo. Quei drappi rossi forse pronti per un sequestro» «C'era tutto il materiale logistico di cui potevano disporre. Sconfitta anche psicologica»
ROMA - «Quando sono entrato nella cantina, la mia attenzione è stata attirata da un particolare che mi ha colpito più di tanti altri: c'erano dei drappi rossi. Mi hanno ricordato le foto della prigionia di Aldo Moro e ho pensato che, forse, avrebbero potuto essere nuovamente utilizzati dopo aver sequestrato qualcuno». Il coordinatore del «pool» antiterrorismo della Procura, Franco Ionta, non è un magistrato facilmente impressionabile. Segue da anni le indagini più delicate sul fronte del terrorismo interno ed internazionale, ha fatto arrestare decine di brigatisti rossi e di integralisti islamici. Ha una lunga carriera con la «toga» sulle spalle, cominciata in Sardegna a caccia di rapitori. Eppure di fronte al «tesoro» investigativo rinvenuto nella cantina di via Montecuccoli riesce a meravigliarsi e, contemporaneamente, a dire senza mezzi termini: «Questo è un colpo decisivo per le Brigate rosse». Dottor Ionta, lei è solitamente molto cauto nei giudizi. Questa volta, però, si sbilancia. E' veramente una svolta nell'inchiesta sulle nuove Brigate rosse? «Sì, anche perché è saltato fuori tutto il materiale nelle mani dei terroristi, tutto il "logistico" di cui potevano disporre. C'è una quantità enorme di documenti da esaminare, documenti molto rilevanti e molto altro materiale che può fornire importanti spunti investigativi». Il ritrovamento può infliggere anche un duro colpo psicologico ai terroristi? «Ha certamente una notevole valenza psicologica. Anche perché abbiamo dimostrato di riuscire ad arrivare a un deposito senza alcun contributo esterno, solo con investigazioni d'altissima qualità. E da questo punto di vista, il lavoro svolto dai funzionari e dagli agenti della Digos è stato veramente eccezionale». Quanti sono i brigatisti che debbono ancora essere individuati? Si può parlare di una decina di elementi? «Difficile fare un calcolo preciso. Sicuramente all'appello mancano alcune persone. Ma intanto bisogna accertare chi abbia materialmente sparato a Massimo D'Antona e Marco Biagi. Così come è indispensabile stabilire chi ha dato supporto per la gestione dei covi di via Maia e di via Montecuccoli. Il lavoro è ancora lungo ma un fatto è certo: gli avvenimenti di queste ultime ore hanno dimostrato senza alcun dubbio che il cuore, il centro dell'attività delle Brigate Rosse era a Roma». Cento chili di esplosivo. A cosa potevano servire? «E' presto per dirlo. Ma ricordo almeno due attentati a Roma, uno nel '94 e l'altro più recente in via Brunetti, rivendicati con sigle di formazioni eversive che noi riteniamo siano state utilizzate dalle Brigate rosse». Per quale motivo i terroristi avrebbero «diversificato» le rivendicazioni? «C'è una spiegazione molto semplice: la sigla veniva scelta a seconda del "livello" dell'attentato». E le divise da carabiniere e da poliziotto, addirittura complete di berretto e «fratino»? «Potevano essere usate per tante operazioni. Per esempio, per entrare in un posto senza destare sospetti. Oppure, per bloccare una strada ed eseguire un "sopralluogo" in assoluta tranquillità».
(L'Eco di Bergamo)
Pellegrino: dietro il sequestro Moro né Cia né Kgb «Ma i servizi, sia a Est che a Ovest, si sono attivati perchè interessati alle dichiarazioni rese dallo statista alle Br»
- Mi aspettavo questa richiesta». Così Giovanni Pellegrino, autore del libro «Segreto di Stato» (Einaudi), commenta la notizia sulla decisione della vedova Moro di far riaprire le indagini sull'omicidio dello statista dc. Per l'ex presidente della commissione stragi ci sarebbe infatti ancora molto da chiarire. Quanto al ruolo dei servizi segreti - dice Pellegrino - «ritengo che sia da Ovest sia da Est si siano molto attivati non tanto sul sequestro quanto sugli "interrogatori" di Moro da parte delle Br». Le indagini su Moro deviate dal Kgb? «Io ho letto diversamente, per la verità, la dichiarazione di Marazzita. Cioè che ci fossero prove di coinvolgimento del Kgb e che i nostri servizi abbiano depistato impedendo che la pista venisse approfondita». Un'ipotesi credibile? «Su questo coinvolgimento del Kgb c'è un unico indizio, per lo meno a monte del sequestro. Uno studente russo che viveva a Roma seguiva le lezioni di Moro all'università, e aveva chiesto alla segreteria di Moro un permesso per assistere alla Camera, alla seduta del 18 marzo in cui avrebbe dovuto formarsi il governo di solidarietà nazionale. Il nome di questo studente figura nell'elenco degli informatori del Kgb, che è venuto fuori nelle carte Mitrokhin e che sembrerebbero attestare che questo giovanotto fosse già in quel momento una "longa manus" del servizio sovietico del quale poi successivamente entrò a fare parte. Questa è una segnalazione che venne anche durante la mia presidenza della commissione stragi, da parte dell'onorevole Tritto, che era uno dei collaboratori più stretti di Moro». Ma allora se erano cose già uscite, qual è la novità? «A mio avviso questo indizio è abbastanza esile. Io continuo a non credere che le Br abbiano agito, nel rapire Moro, né su mandato occidentale - la vecchia idea che dietro le Br ci potesse essere la Cia - né su mandato orientale, cioè per mandato del Kgb. Invece ritengo molto più probabile un'altra cosa» Quale? «Che durante il sequestro Moro, sia i servizi occidentali, sia i servizi orientali, si siano fortemente attivati, soprattutto dal momento in cui fu chiaro che Moro stava parlando nel "processo popolare" a cui era sottoposto e che quindi poteva stare rivelando segreti anche importanti per la sicurezza dello Stato italiano e per quella dell'Alleanza occidentale. Segreti che naturalmente i servizi orientali avevano interesse a conoscere, e i servizi occidentali avevano interesse a coprire e a neutralizzare. Ecco perché io ritengo - e l'ho anche scritto - che in realtà su questa sorta di "secondo ostaggio" che le Br avevano in mano oltre alla persona di Moro (vale a dire i risultati del suo "interrogatorio" da parte delle Br), ci sia stata una forte attivazione dei servizi dell'una e dell'altra parte. Tenendo anche presente che le carte Moro sono state recuperate soltanto parzialmente e in copia. E non si sa chi abbia acquisito gli originali nella forma integrale». Come interpreta questa richiesta della vedova? «Io me lo aspettavo da tempo per la verità. Perché da una serie di accertamenti fatti dalla commissione stragi si era evidenziato, per esempio, tutto un ruolo non ancora investigato sulla parte fiorentina della vicenda. Noi avevamo addirittura individuato in quale casa si riuniva il comitato esecutivo delle Brigate rosse. E avevamo il forte sospetto che a quel comitato esecutivo partecipassero le "altre intelligenze" di cui il presidente della Repubblica Scalfaro parlò nel ventesimo anniversario della morte di Moro. In più c'era una serie di dati che noi sottolineavamo, in particolare quelli che provenivano dall'autopsia di Moro, che rendevano abbastanza inverosimile che egli fosse stato 55 giorni chiuso nel bugigattolo che abbiamo visto nel film di Bellocchio». Per quale motivo? «Perché un uomo della sua età che sta 55 giorni là dentro, scrive seduto rattrappito sul letto, non si può muovere, non si può fare una doccia, non può avere cura di se stesso, alla fine di quella sofferenza porta un segno visibilissimo sul corpo, che l'autopsia invece non avrebbe sottolineato. Quindi questo fatto ha portato una serie di analisti - compresi i consulenti della commissione stragi - ad avanzare il forte dubbio che la prigione finale di Moro possa essere stata fino all'ultimo via Montalcini e che invece potesse essere un luogo diverso nel quale Moro scrive quella che a torto viene ritenuta l'ultima pagina del memoriale, cioè comunque un documento in cui Moro sembra quasi inserirsi in una trattativa per la sua liberazione. Devo aggiungere che tutte queste cose, comunque, le ho dette molto ampiamente, sia nel libro "Segreto di Stato", sia in una lunga intervista che postfaziona il recente libro della Di Giovacchino ("Il libro nero della prima Repubblica", ndr ). Si tratta quindi di una problematica che già è in piedi da anni e che sembrerebbe che oggi la famiglia Moro abbia fatta sua sollecitando alla Procura di Roma una riapertura dell'inchiesta».
(Il Nuovo) Moro, la vedova chiede nuove indagini.
La famiglia dello statista della Democrazia Cristiana ucciso dalla Brigate Rosse il 9 maggio 1978, chiede la riapertura delle indagini. L'avvocato Marazzita: "Sono emersi nuovi elementi".
ROMA - Non c'è pace per Aldo Moro. Forse all'orizzonte ci sono nuove indagini, la riesumazione del corpo, un nuovo processo. Ma stavolta a turbare la memoria e a chiedere verità sono Eleonora e Maria Fida Moro, moglie e figlia dello statista ucciso dalle Brigate rosse. Il loro avvocato di fiducia, Nino Marazzita, chiederà nei prossimi giorni, alla procura di Roma la riapertura dell'inchiesta. La decisione, "la richiesta di giustizia", a sorpresa, è stata annunciata ieri, ed ancora oggi nello studio del legale c'è si la calma di sempre che "telefoni infuocati". Ed è complicato capire, anche da qui, la scelta della famiglia. Dopo tanto tempo, 5 processi con relative sentenze definitive, commissioni parlamentari, una manciata di film scandalo, un bel gruppo di saggi e reportage dei 55 giorni del rapimento "che ha marchiato l'Italia con gli anni di piombo", come scritto da Indro Montanelli.
Maria Fida, da parte sua è comunque sempre stata chiara. Lo ripeterà "tranquillamente" nel suo libro di prossima pubblicazione "La nebulosa - il Bignami del Caso Moro". È convinzione dei familiari - si spiega - che bisogna approfondire alcuni punti mai realmente spiegati. E che partono da altrettanti assunti: il nucleo di terroristi che "gestì" Aldo Moro non è mai stato individuato nella sua completezza; chi ne faceva parte ed è stato arrestato non ha detto la verità; la dinamica dell'agguato a via Fani così come il ritrovamento nel pieno centro di Roma dentro un'auto. Il fratello del presidente Dc, Carlo Alberto Moro, nel suo libro scrive senza timore che "è difficile credere che i brigatisti abbiano attraversato una città, presidiata da migliaia di uomini delle forze dell'ordine, con un cadavere nel portabagagli". Altri elementi, saltati fuori spesso, sono quelli "contesto politico", che partono da una strana "minaccia" ricevuta da Moro durante una visita negli Stati Uniti e che possono giungere alla sua volontà nel firmare il patto per il "Compromesso storico", che avrebbe fatto entrare, in tempi di guerra fredda, il Partito comunista italiano nel governo. In mezzo, c'è la responsabilità delle indagini durante i giorni del rapimento di appartenenti grandi e piccoli, alla P2, con relativo contorno di servizi segreti deviati, e collusioni con diverse organizzazioni criminali, dalla mafia alla banda della Magliana. Il legale della Dc in tutti i processi Moro, Pino De Gori, smentisce che l'autopsia di Aldo Moro sia sparita "basta chiederne fotocopia alla cancelleria della Corte di Assise" e poi aggiunge: "Non riesco ad individuare niente di nuovo, che possa giustificare una riapertura delle indagini mirate sulla morte dello statista". "Dopo il dolore serve il riposo e non altro dolore". Caroline Kennedy, ormai unica erede diretta del compianto John Fitzgerald Kennedy, alcuni anni fa ha spiegato così il motivo per cui una delle famiglie più potenti d'America non ha mai fatto indagini dirette sugli omicidi che hanno "strappato agli Usa" suo padre e lo zio Robert. E se per Maria Fida Moro, l'azione anche polemica, è qualcosa di già percorso, per la vedova di Moro, Eleonora, "Doretta", è senza dubbio una "strada nuova". Per questo l'attenzione sul "dossier" che Marazzita presenterà alla Procura è ora dopo ora più forte. "Vi si adombra di un super servizio segreto definito Anello che ha forti responsabilità - si spiega - Ma anche del sospetto che Moro fu ucciso in altro luogo rispetto al garage di via Montalcini. Agli atti della commissione stragi, risultano poi due deposizioni della famiglia, in cui si racconta che in quei "giorni maledetti del '78" che le forze dell'ordine avevano individuato una probabile prigione di Moro vicino Palo Laziale; e stavano preparando un blitz per liberarlo. "Ma, per misteriose ragioni, tutto si era fermato". Enzo Fragalà, capogruppo di An in commissione Mitrokhin, condivide pienamente la richiesta di riaprire le indagini: "Chiederemo alla commissione di mettere a disposizione della famiglia, oltre alle risultanze dell'inchiesta parlamentare, i documenti relativi ai contatti fra la rete spionistica dell'Est e le Br, e il falso borsista Serghei Sokolov". Fragalà dice che tra i temi da affrontare c'é quello di Giorgio Conforto, agente "Dario" del Kgb, e padre di Giuliana Conforto, nella cui casa furono arrestati Valerio Morucci e Adriana Faranda. Ma quel che "deve far riflettere" sono invece due scritte, "solidarietà alle Br" e "abbasso Berlusconi" che sono state trovate questa mattina sui muri di un corridoio interno dello stabilimento Fiat Auto Lastrature di Rivalta (To). A scoprirle, all'arrivo in fabbrica, sono stati alcuni operai che hanno immediatamente segnalato l'episodio e sul posto sono intervenuti gli uomini della Digos per gli accertamenti del caso. Ferma condanna è stata espressa dalla Uilm "per gli ignobili atti e le idee dei violenti".
13 Novembre 2003 (Dagospia)
- Il 16 gennaio 1979, 10 mesi dopo il rapimento Moro e poco piu' di due mesi prima di essere ucciso (ucciso pochi giorni dopo il primo anniversario del rapimento, un caso?), Pecorelli scriveva su "OP" Tratto da I veleni di "OP" - Le "notizie riservate" di Mino Pecorelli, di Francesco Pecorelli e Roberto Sommella, Kaos Edizioni. [...] Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l'uccisione di Aldo Moro. Aldo Moro che pensava di essere liberato dalle Brigate Rosse, e che temeva di rimanere ferito in un conflitto a fuoco tra i "carabinieri" e i suoi carcerieri, come ha pubblicato Panorama in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti sequestrati nel covo del brigatista (?) Alunni, notizia che viceversa nel memoriale diffuso dal Ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all'operazione, del prete contattato dalle Brigate Rosse, della intempestiva lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli redazionali, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo di Steve R. Pieczenik, vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. Perché Cossiga era convinto, crediamo (?), che Moro sarebbe stato liberato, e forse la mattina che il presidente è stato ucciso era insieme ad altri notabili Dc a piazza del Gesù in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso. In macchina.A questo punto vogliamo fare anche noi un po' di fantapolitica. Le trattative con le Brigate Rosse ci sarebbero state. Come per i fedayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i "carabinieri" (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l'anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il Presidente della Democrazia Cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama "De" e il macellaio Maurizio.
Wladimiro Settimelli per l'Unità:
Dubbi, interrogativi e nuove domande, dopo l'annuncio dell'avvocato Nino Marazzita sulla richiesta di riapertura delle indagini per l'uccisione di Aldo Moro. Il legale della famiglia Moro, entro dieci giorni, presenterà una rilettura delle indagini alla Procura di Roma, per conto della signora Eleonora, moglie dello statista. La notizia ha destato scalpore anche se tutto, dalle indiscrezioni, appare stranamente nebuloso. Si è, per esempio, parlato di una eventuale riesumazione dei poveri resti dell'ex presidente Dc, ma a venticinque anni di distanza dalla strage di via Fani, è praticamente impossibile eseguire qualunque nuova perizia.Tra l'altro, le carte di quella eseguita dopo il recupero del corpo in via Caetani, non sono affatto sparite come era stato detto. E allora quali sono le novità sulla base delle quali i giudici dovrebbero accogliere le richieste della famiglia Moro? La commissione Mitrokhin ha sussurrato, per esempio, il giudice veneziano Mastelloni che della Mitrokin è consulente. E che cosa in particolare? La faccenda del borsista russo Sergei Sokolov che seguiva le lezioni di Moro all'Università e che, invece, sarebbe stato una spia del Kgb. Secondo alcuni, il falso borsista, forse, era collegato con altre spie italiane. La faccenda, a suo tempo, venne presa in esame e si risolse con un nulla di fatto. Si prestò, anzi, ad una serie di ridicole e assurde speculazioni che finirono per coinvolgere persone assolutamente innocenti. Insomma, era stata scelta una strada che non portava da nessuna parte. Comunque, sulla eventuale iniziativa della famiglia Moro e dell'avvocato Marazzita, abbiamo chiesto l'opinione dell'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro dell'interno durante il caso Moro. Ecco che cosa ci ha detto: «Esco dal mio riserbo sulla tragedia Moro, ricordando quanto l'Unità fece in quei giorni terribili, per battere insieme il terrorismo. Sono contrario ad ogni dietrologia e convintissimo che il lavoro dei giudici italiani, delle Commissioni parlamentari d'inchiesta, della polizia e dei carabinieri, fece chiarezza sul sequestro e l'uccisione di Moro. Escludo - ha detto ancora Cossiga - che le brigate rosse fossero eterodirette dalla Cia o dal Kgb. Conosco la faccenda del falso borsista Sokolov, scomparso dalla circolazione dopo via Fani. Voglio dire che, in quel periodo, Aldo Moro stava portando a termine un esperimento politico di grandissimo livello e di altissimo significato. Un esperimento che interessava sicuramente tutta l'Europa. Intorno a lui, all'Università, ci sarà stato non solo Sokolov, ma anche uomini della Cia e dei servizi segreti bulgari, spagnoli, francesi, inglesi, tedeschi dell'Est e dell'Ovest e quant'altro». «Se ben ricordo - ha aggiunto ancora Cossiga - un tentativo di« disinformazia» da parte del Kgb, ci fu e nei confronti di Enrico Berlinguer. Fecero sapere a tutti che le famiglia Berlinguer era ricchissima e proprietaria di vasti appezzamenti di terreni. Ma quelle terre non erano dei Berlinguer. Insomma, una operazione condotta con molta superficialità, proprio nel momento in cui molti, moltissimi, qui in Italia, erano pieni di speranza perché l'eurocomunismo stava andando in porto. Voglio molto bene ai Moro, comprendo tutto il loro dolore e capisco il dramma che si abbatté sulla loro famiglia e la inesausta volontà di sapere ogni dettaglio, ogni particolare e risolvere anche ogni più piccolo dubbio. Ma l'iniziativa di queste ore...Non saprei ...Non capisco bene...». Comunque, il momento della morte di Moro venne fissato dai periti tra le ore 9 e le ore 10 del 9 maggio 1978. Il presidente Dc venne massacrato da ben undici colpi di mitraglietta all'interno del bagagliaio della Renault rossa. Un colpo alla volta, affermarono i periti. Moro morì almeno una quindicina di minuti più tardi. La famiglia vorrebbe far rileggere le perizie e anche tutti gli orari e movimenti dei brigatisti in quella terribile mattina. Che la verità non sia mai stata raccontata, fino in fondo, dai terroristi delle Br, ormai tutti liberi e anche autori di celebrate autobiografie, dopo tanti, tantissimi anni, è ancora chiaro. Decideranno, una volta o l'altra, di parlare davvero e chiarire tutto, ma proprio tutto?...
15 Novembre 2003 (Libertà)
Moro, il mistero senza fine
- Preciso ed infervorato. Così Renzo Martinelli si presenta al cineforum dell'università Cattolica di Piacenza per commentare la sua ultima fatica, Piazza delle cinque lune, scritta con l'aiuto dell'ex senatore Sergio Flamigni e di Carlo Alfredo Moro, fratello dello statista della D.C. assassinato dalle Brigate Rosse venticinque anni fa. Non è un mistero che il suo film sia nato sotto una cattiva stella; Martinelli ha realizzato una pellicola improntata alla vivisezione del caso Aldo Moro nelle sue dinamiche e nei suoi meccanismi ad orologeria: non il racconto della "cattività", bensì uno sguardo a ritroso che, dall'alto, procede alla ricognizione dei complotti orditi all'interno del più intricato fatto di sangue della nostra storia. Eppure la sua opera è stata martoriata dalla critica e "scansata" dai canali massmediatici che tutto ingigantiscono, incensano o distruggono. Qualche notte l'avrà passata insonne, Martinelli, se è vero che per un certo periodo ha ricevuto volantini e telefonate dal tono intimidatorio. Ma ciò che più lo ha ferito è stata l'indifferenza dei mezzi di informazione ai quali aveva chiesto un po' di attenzione. «Quando chiamai Bruno Vespa per sollecitarlo a organizzare una serata a tema su Porta a Porta, la segretaria mi chiese: "Moro chi?"», confessa il cineasta. «E Vespa mi rispose che una cosa del genere non avrebbe fatto audience; Maurizio Costanzo si disse non interessato; Ferrara mi avrebbe accolto solo in un talk show in differita. Il problema è che questo Paese ha rimosso il proprio passato» conclude Martinelli. Peccato, perché secondo lo storico Fernand Braudel è proprio il passato la necessaria chiave di lettura del presente. Prosegue il regista: «Contattai Giampaolo Pansa dell'Espresso. Accettò di dare risalto al mio film a patto che convincessi la moglie di Moro a farsi intervistare da lui». Ma non ci fu nulla da fare: «Non insista. Innanzitutto, il mio telefono è sotto controllo. E comunque, questa è una questione di incolumità fisica!» fu la risposta. E anche dopo che lo storico brigatista Alberto Franceschini dette ragione alla realtà ricostruita da Martinelli, solo il "Corriere della sera" si interessò a Piazza delle cinque lune. Ci vorrebbero giorni interi per ricostruire l'"affaire" Moro e riesaminarne i tanti interrogativi insoluti. Ad incominciare dalla dinamica della strage di via Fani, dal luogo dell'uccisione del politico o dal ruolo di Tony Chicchiarelli, per proseguire con il falso comunicato stampa che indusse il brigatista Mario Moretti ad accelerare i tempi dell'assassinio. E, poi, "l'avvertimento" che quest'ultimo ricevette una volta in carcere, la mancata perquisizione del covo delle Br in via Gradoli a Roma, le morti di uomini come il giornalista Pecorelli, il colonnello dei servizi segreti Varisco e il generale Dalla Chiesa che, nell'ottobre '78, setacciò il nascondiglio brigatista di via Montenevoso, a Milano, trovando e fotocopiando 44 delle 440 pagine del "memoriale Moro" che ivi verranno ritrovate, casualmente, dodici anni dopo. Martinelli prosegue la sua lucida analisi soffermandosi sulla doppia chiave di lettura delle lettere che il leader democristiano scriveva nei giorni del sequestro. Frasi apparentemente fuori contesto, che svelavano importanti indizi della propria prigionia: un "livello manifesto" e un "livello latente" che non si riuscì o non si volle decodificare. Nel 1974 il segretario di Stato americano Kissinger lo minacciò: «O la smette, o la pagherà molto cara!». Nessuno colse, nella missiva indirizzata al collega Zaccagnini, il richiamo a quell'episodio che lo stesso Moro indicò, probabilmente, come la vera e propria genesi della sua condanna a morte.
Sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli (Valerio Riva per "Il Giornale")
[...] sarebbe ora piuttosto che si cominciasse a fare un po' di revisionismo anche su questo. Ho conosciuto Feltrinelli meglio di chiunque altro. Se qualcuno aveva interesse a eliminare Feltrinelli era il Pci. E come al solito, ci riuscì perfettamente. So di cosa parlo. Feltrinelli ha sempre odiato Togliatti: tant'è vero che quando entrò in clandestinità il nome che prese, e con il quale fu identificato da morto sotto il traliccio di Segrate, era quello di un garibaldino della guerra di Spagna suicidatosi dopo aver scoperto che Togliatti gli scopava la moglie mentre lui stava al fronte. E dopo Togliatti, odiava Longo, e dopo Longo Berlinguer. L'azione nella quale poi trovò la morte, era stata appunto pensata per far piombare Milano nel buio proprio la mattina in cui, sempre a Milano, si doveva aprire il congresso nazionale in cui il Pci avrebbe eletto segretario Enrico Berlinguer. Che congresso sarebbe stato a luci spente e senza elettricità? Con il black-out le cose forse avrebbero preso una piega diversa. Il Pci fu informato del piano? Ma certo (Giangiacomo viveva circondato di mosconi del partito). E il Pci prese le sue precauzioni. Neutralizzare Feltrinelli. Il piano di Giangiacomo prevedeva il minamento e il danneggiamento di otto grandi tralicci dell'energia elettrica tutt'attorno a Milano. L'esecuzione doveva essere compiuta da otto piccoli commandos, due o tre persone per volta. La risposta del Pci fu rapida e efficace. Sette furono "convinti", all'insaputa di Feltrinelli, a far sega o a posare cariche bagnate. Ma l'ottavo traliccio Feltrinelli se l'era riservato per sè. Più difficile "convincere" anche lui. Come rimediare? Mandandogli due "apprendisti" che fino a quel momento lui aveva visto sì o no un paio di volte. In pratica dei perfetti sconosciuti. O sicari? Eh, questo è il busillis. Furono loro a provocare la sciagura? O si limitarono a guardarlo dissanguarsi in mezzo a quel prato, di notte, senza intervenire? Per poi correre a informare il partito che il pericolo era, come si voleva, scongiurato? Io una mia idea ce l'ho. E la ricavo dal fatto che, dopo, quei due "apprendisti" furono straordinariamente protetti, tenuti lontani, in silenzio, fatti scomparire. Nessuna polizia, né magistrato, né servizio ha mai osato metterci le mani sopra. Chi avrebbe mai potuto arrivare a tanto? La risposta è ovvia.
18 Novembre 2003 (Corriere della sera)
Non solo Br, tutti i nemici del Gran Tessitore
Corrado Guerzoni, giornalista e dirigente della Rai, è stato uno dei collaboratori più stretti di Aldo Moro. Dal 9 di maggio del '78, quando il cadavere del leader democristiano fu restituito dalle Brigate Rosse, ha parlato pochissimo. Ma non ha cambiato idea. Continua a trovare «incredibile» che le Br abbiano fatto tutto da sole. Non crede nemmeno, però, che fossero eterodirette. «È come quando si getta un sasso in un lago. Il sasso va subito a fondo, in superficie si formano dei cerchi concentrici, ognuno dei quali ha una forma e una vita sue proprie. Il sasso è stato lanciato il 12 dicembre 1969, con la strage di Piazza Fontana. Il rapimento e l'assassinio di Moro sono stati l'ultimo dei cerchi concentrici che ha provocato. Il potere politico non è mai implicabile in prima persona, Moro lo hanno sequestrato le Br, ma in accordo, di fatto, con i nemici interni e internazionali della sua politica. Una specie di appalto: fate quello che dovete fare, ma il più possibile in fretta, quest'uomo deve morire». Di nuovo partito della trattativa contro partito della fermezza, 25 anni dopo? «No. La verità su Moro bisogna cercarla dietro lo schermo di questa contesa. Era stato detto: non lasceremo niente di intentato. Ma non si fece nulla di serio per arrivare alla prigione e al prigioniero. E non credo si sia trattato solo di incapacità». Al Corriere , Guerzoni rivela alcuni particolari inediti di quelle terribili settimane. Ma prende le mosse più di lontano. Anche per chiarire, sulla scorta dei suoi ricordi, chi fossero, a suo giudizio, i nemici di Moro. Henry Kissinger, per cominciare. Nel 1974, Moro, ministro degli Esteri, è negli Stati Uniti con il presidente della Repubblica, Giovanni Leone. «Moro cercava di spiegare la situazione italiana, Kissinger gli rispondeva duramente. A un certo punto, tagliò corto: "Se fossi cattolico, come lei, crederei anche nel dogma dell'Immacolata Concezione. Ma non sono cattolico, e non credo né a questo dogma né all'evoluzione democratica dei comunisti italiani". Il giorno dopo, a New York, Leone andò al porto, a cantare "O Sole mio", Moro andò in chiesa, a Saint Patrick, e si sentì male. Di ritorno a Roma, mi chiamò e mi disse: "Cominci a far circolare nei giornali la notizia che io intendo abbandonare la politica attiva". Non andò così, in estate divenne presidente del Consiglio». Ma il rapporto con Kissinger rimase teso. Luglio '76, vertice di Portorico. «Il cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il presidente francese Giscard d'Estaing, appoggiati ovviamente dagli americani, sostenevano che all'Italia, in piena crisi economica, non si dovesse dare neanche un soldo, se il Pci fosse entrato nell'area di governo, come stava avvenendo in quei giorni. La leggenda vuole che Moro non sia stato invitato alla cena conclusiva. È falso, fu lui a decidere di non andarci, ma certo così tolse dall'imbarazzo anche i suoi interlocutori, convinti che Moro fosse pregiudizialmente filocomunista». Ma anche una parte consistente della Dc guardava talvolta con ostilità, sempre con diffidenza la sua politica. Per non dire della destra. «Moro era convinto che la Dc avesse un solo, grande nemico: se stessa. No, non è mai stato un doroteo nel senso vero del termine. Già nel '59, quando diventa segretario, è piuttosto un politico convinto che senza portarsi appresso i dorotei il centrosinistra non si farà mai. Nel luglio del '60, nei giorni tesissimi che portarono alle dimissioni di Tambroni, Moro, per sicurezza, dormiva fuori casa. Non si fidava della polizia, si rivolse ai carabinieri, al generale Ferrara, che gli mandò un giovane militare. Si chiamava Oreste Leonardi, restò con lui per quasi 18 anni. Le Br lo uccisero, con altri quattro, in via Fani». Moro, insiste Guerzoni, per fare la sua politica, era convinto di non poter avere contro né la Chiesa né gli Stati Uniti. E di dovere rassicurare i conservatori, i moderati, e gli apparati. Pietro Nenni lo comprendeva bene. «Nel luglio del '64, quello del Piano Solo, fu il presidente della Repubblica Antonio Segni a dirgli: "Io non sono contrario al tuo tentativo di ricostituire il centrosinistra, ma ti avverto, il generale De Lorenzo mi segnala che la situazione è drammatica". Francesco Cossiga sostiene che Moro, come lui, era attentissimo alle informazioni dei servizi. Non è vero, posso testimoniare che non leggeva nemmeno i mattinali. Per sbloccare la situazione, assieme ad altri dirigenti della Dc incontrò, a casa di Morlino, De Lorenzo e il capo della polizia Angelo Vicari. Ascoltò, prese atto delle preoccupazioni, rassicurò. E riferì a Nenni, che capì alla perfezione, tanto è vero che parlò di tintinnar di sciabole e tornò al governo, come stavano esattamente le cose. Tornò a Palazzo Chigi. Nel '66 provarono ancora a disarcionarlo. Glielo disse Giuseppe Saragat, succeduto a Segni alla presidenza: "Il tuo partito ti sta mollando, i dorotei, soprattutto Flaminio Piccoli, sostengono che devi compiere un atto di generosità verso la Dc, e ritirarti". Credo di aver avuto un ruolo nel far fallire il progetto: feci informare Paese sera , che diede la notizia con grandissimo risalto. Così Moro guadagnò due anni. Fino al '68, quando si ritrovò non in minoranza, ma letteralmente solo. Ricordo bene quell'estate nel suo ufficio in via Savoia. Cercò Taviani, ma Taviani gli fece sapere che sarebbe andato per la sua strada. Cercò Cossiga, ma Cossiga gli rispose che sarebbe andato con Taviani: la pace la fecero solo vari anni più tardi, in un paesino sardo, Pattada. Moro piangeva. Una volta mi disse: "Ormai vedo solo schiene di persone che si allontanano, mai il volto di qualcuno che si avvicini"». Dieci anni dopo, però, Moro non è soltanto il presidente della Dc, ma anche il principale interprete, e il garante, della politica di unità nazionale. È a questo punto che le Br lo rapiscono. Cominciano le settimane più drammatiche della storia repubblicana. «Sembrava che si aspettasse l'ineluttabile. Nicola Rana ed io eravamo considerati gli ambasciatori del "partito della famiglia", pareva che il principale desiderio di Ugo Pecchioli fosse quello di vederci in galera. Ma, nell'inazione generale, nemmeno i nostri telefoni erano controllati. Un ricordo per tutti. Le Br avevano fatto sapere a Rana che la lettera di Moro per Cossiga, la prima, era dietro un juke box, in un bar di viale Trastevere. Lo accompagnai. Entrati nel bar, non sapevamo bene cosa fare. Premuroso, il barista ci porse una scopa: vi può servire, ci disse, per tirare fuori quello che dovete recuperare dietro il juke box». «Noi non chiedemmo alla Dc di aprire una trattativa con le Br. Chiedemmo un atteggiamento flessibile, aperto a verificare tutte le possibilità. Lo dissi a Benigno Zaccagnini, a piazza del Gesù, subito dopo il sequestro. Mi chiese di parlarne con Corrado Belci, che doveva buttar giù un primo comunicato. Stavo per farlo, quando mi chiamò Leopoldo Elia: "Nulla da fare, la linea sarà quella del massimo rigore, chi lo invoca più di tutti è Piccoli". Proprio quel Piccoli che Moro aveva definito "un misto di abnegazione e di opportunismo"... Fatto è che per seguire il caso, nella Dc, fu costituito un gruppo ad hoc . E per 54 dei 55 giorni gli organismi dirigenti non furono mai convocati».
Ma la mattina del 9 maggio la direzione democristiana si riunì. E Cossiga, in una recente intervista a Sette , ha detto che le Br, se avessero aspettato solo un altro po', avrebbero avuto partita vinta: Amintore Fanfani si sarebbe pubblicamente pronunciato per una soluzione umanitaria, e la maggioranza del partito, in Consiglio nazionale, lo avrebbe seguito. «Non è così. Fanfani si è comportato personalmente bene, in tutta la vicenda. Soprattutto con la famiglia, e in particolare con Eleonora Moro. C'ero, quando andò a trovarla subito dopo il ritrovamento del corpo del marito. La signora Moro voleva assolutamente vederlo intatto. Fu Fanfani, davanti a noi, a telefonare al Procuratore generale Pietro Pascalino, che pretendeva di procedere immediatamente all'autopsia, e ad ottenere di rinviarla del pochissimo tempo necessario a rendere possibile l'ultimo saluto della moglie. Ma qualche ora prima, in direzione, se avesse parlato, Fanfani avrebbe richiesto al partito solo una maggiore apertura, una maggiore flessibilità, proprio come avevamo detto noi, all'inizio della tragedia. Chiedere, ed ottenere, di più avrebbe significato rompere con i comunisti, far saltare il quadro politico, andare, in un frangente drammatico, ad elezioni anticipate. E questo era assolutamente impensabile». «La linea della fermezza era stata letteralmente imposta alla Dc dai comunisti. E che i comunisti sarebbero stati irremovibili fu Enrico Berlinguer in persona a dirlo alla signora Moro: noi non possiamo fare niente di diverso, da noi non si aspetti nulla. Andreotti prese atto della situazione, non era certo il realismo a fargli difetto, e si comportò di conseguenza. Qualche speranza la avevamo riposta nel Papa, che nella notte tra il 21 e il 22 aprile scrisse la sua lettera agli "uomini delle Brigate Rosse". Padre Carlo Cremona, nella sua biografia di Paolo VI, ricorda che il Papa fece recapitare lo scritto al cardinal Casaroli, che glielo restituì con qualche correzione. Sarebbe interessante sapere di quali correzioni si trattasse...». Forse, tra queste, c'era anche l'esortazione a liberare il prigioniero «senza condizioni»? Guerzoni non lo dice, ma racconta di una visita importante a casa Moro, poco prima della doppia cerimonia funebre. Quella di Stato, con Paolo VI, a San Giovanni, e quella, privatissima, di Torrita Tiberina. «Il cardinale Ugo Poletti, Vicario di Roma, che teneva i rapporti con la signora Moro, insisteva perché partecipasse al funerale a San Giovanni. Eleonora Moro si disse mortificata di dover rispondere di no al Papa, ma tenne duro: le ultime volontà del marito erano chiarissime, e poi era stato lo stesso Moro, dalla prigione brigatista, a lamentare che Paolo VI aveva fatto "pochino". E il cardinal Poletti allargò le braccia e le rispose: "Non è colpa del Papa, è stato il governo a imporglielo...».