Portare l'attacco al cuore dello Stato
Per comprendere meglio gli sviluppi della lotta armata dal 1976 in poi è doveroso, nonché giusto, fare un nuovo excursus sulla situazione politica italiana. È un fatto che nella seconda metà del '75, nonostante i vari - e talvolta gravi e clamorosi - avvenimenti accaduti, il partito armato passò in secondo piano nell'attenzione dell'opinione pubblica, anche perché sembrava in atto un'importante svolta nel sistema politico; la cosa assunse ancora maggior rilievo l'anno successivo, in coincidenza col voto amministrativo. La campagna elettorale per le elezioni del 15 Giugno del '76, nonostante non si dovesse votare per il rinnovo delle camere, era stata impostata dalla DC di Fanfani all'insegna del più deciso anticomunismo, quasi in un sussulto di orgoglio dopo la cocente sconfitta nel referendum per il divorzio; il risultato che invece uscì dalle urne finì col premiare le Sinistre in modo clamoroso, tant'è che il PCI balzò al 33.4% dei voti, divenendo primo partito a Milano. La diretta conseguenza di quello che in Via delle Botteghe oscure definirono "il Terremoto del 15 giugno" furono le dimissioni di Amintore Fanfani dalla segreteria del suo partito, ed al suo posto venne nominato Benigno Zaccagnini. Il neoeletto segretario affermò subito che con la sua linea programmatica prevedeva di creare le condizioni politiche per un confronto aperto con i comunisti, ovvero era sua intenzione dare il via a quella "terza fase" prevista ed indicata da Aldo Moro durante il Consiglio Nazionale della DC tenutosi nel Luglio dello stesso anno. Mi pare importante sottolineare come l'11 Settembre l'ambasciatore americano a Roma, John Volpe, condannò una eventuale apertura al PCI, ma il 23, la direzione della Democrazia Cristiana approvò la linea di Zaccagnini. In Novembre, il Segretario di stato americano Henry Kissinger auspicò pubblicamente la sostituzione dei vecchi notabili democristiani con elementi più giovani e più dinamici e una nuova coalizione di governo che sbarrasse la strada a qualsiasi forma di collaborazione con il Partito comunista. Il PCI da parte sua non era però intenzionato a forzare la mano, e nonostante la crisi della DC si fosse acuita dopo l'esplosione dello scandalo Lockheed, si preferì aspettare la maturazione spontanea degli avvenimenti. Le successive elezioni politiche del 1976 premiarono l'attesa di Berlinguer e soci in quanto i comunisti balzarono al 34.4% dei voti raggiungendo il tetto massimo di consenso mai toccato in un paese del blocco occidentale. Ciononostante i democristiani cantarono vittoria, il loro partito aveva infatti mantenuto i voti delle ultime politiche ed in più non c'era stato il tanto temuto "sorpasso" da parte del PCI. Il governo monocolore che si formò attorno ad Andreotti ("l'uomo per tutte le stagioni", come verrà più volte definito), sarà caratterizzato dalla «non sfiducia», dalla «astensione concordata» tra PCI e PSI nella fiducia al nuovo governo. La sconfitta più cocente però la subirono quelle migliaia di militanti della sinistra extraparlamentare, area che aveva fallito nell'intento di divenire parlamentarmente significativa e, magari, anche politicamente decisiva nell'ambito di un eventuale "governo delle sinistre". In tutta Italia la sinistra rivoluzionaria, che si era presentata alle elezioni, ottenne 550 mila voti: un vero disastro. Nonostante gli scandali e la corruzione la DC aveva tenuto benissimo, e questo, oltre a sancire di fatto la morte di Lotta Continua, fece guardare molti giovani verso Brigate Rosse quali ultimo barlume di speranza, ultimo baluardo fieramente e sostanzialmente rivoluzionario, ed i brigatisti diventarono «quelli che avevano fatto la scelta giusta», soprattutto adesso che il PCI, sostenendo indirettamente i democristiani, aveva finalmente mostrato le sue vere intenzioni "riformiste", ed i governi di solidarietà nazionale si profilavano ormai all'orizzonte. Comunque l'adesione dei giovani, in molti casi, fu alla scelta di lotta armata generalmente intesa e non necessariamente alle Br, delle quali spesso venivano criticati e l'analisi dei problemi e i metodi di lotta. In realtà, l'impegno profuso e le speranze riposte nelle elezioni del '76 confermano come il passaggio alla lotta armata abbia rappresentato per molti una extrema ratio rispetto alla prima scelta rappresentata invece dalla militanza in organizzazioni legali, anche se estremiste. Come ha sintetizzato perfettamente Adriano Sofri, uno dei principali sconfitti di quella tornata elettorale: «Nel momento in cui scatta la solidarietà nazionale gli strati giovanili che si riconoscevano in una linea di intransigenza rivoluzionaria si sentirono esclusi da ogni gioco e mutarono il giudizio sulle formazioni armate [...] diventò così automatica l'esaltazione dell'organizzazione clandestina ristretta [...] cominciarono a nascere le nuove organizzazioni clandestine». Come ho già anticipato, nonostante il mancato sorpasso, la situazione politica italiana, e soprattutto il progressivo avvicinamento tra i due maggiori partiti [DC e PCI], come risulta da innumerevoli conferme, era particolarmente mal vista dal Segretario di stato americano Kissinger. Egli, infatti, pensava che un eventuale ingresso dei comunisti al governo sarebbe stato un duro colpo per tutta l'alleanza atlantica, soprattutto il relazione alla posizione strategica della nostra penisola nel quadro del Mediterraneo; la crucialità del problema italiano all'interno dello scacchiere europeo implicava che lo si dovesse risolvere "a tutti i costi". In effetti la politica di avvicinamento tra DC e PCI veniva attuata da Moro e Berlinguer a dispetto di ciò che "consigliavano" rispettivamente da Mosca e Washington, ed in ciò si deve riconoscere ai due leader una discreta dose di coraggio. Che la situazione fosse giudicata "molto grave" lo si capì anche a fine Giugno del '76, quando si riunirono a Portorico i capi di stato delle 7 maggiori potenze industriali (il G7), ed in una fase dell'incontro il rappresentante italiano [ guarda caso Aldo Moro ] venne platealmente escluso; in quell'occasione Kissinger fu chiarissimo: se il PCI fosse andato al governo l'Italia non avrebbe più beneficiato di altri aiuti economici. Come ricorda Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Moro «in quell'occasione l'On. Moro fu lasciato solo, non fu nemmeno invitato a cena, si trovò in una situazione di assoluta disperazione e isolamento». I rapporti di Moro con gli americani - è bene ricordarlo - si erano andati logorando già dal 1973, quando lo statista democristiano, allora Ministro degli esteri, si rifiutò di concedere l'uso delle basi NATO in Italia agli aerei statunitensi per i rifornimenti, aerei che sarebbero dovuti intervenire a fianco degli israeliani nella guerra tra Israele e i Paesi arabi. Le cose non migliorarono neanche con l'elezione alla Casa bianca di Jimmy Carter [nel Novembre 1976] e la successiva nomina di Cyrus Vance a segretario di stato al posto di Kissinger e di Zbignew Brezezinski a consigliere nazionale per la sicurezza; i rapporti con l'alleato USA rimarranno sempre tesi e conflittuali nei confronti di Moro, mentre in modo differente erano trattati i "fidati" Cossiga e Andreotti, come chiarito perfettamente dallo stesso Moro nel suo memoriale scritto nella "prigione del popolo". L'assassinio di Coco Genova, 8 Giugno del '76 i terroristi attendono Francesco Coco all'imbocco della salita di S. Brigida, una stradina angusta della città antica che il procuratore tornando a casa deve percorrere a piedi. Sono tre, armati di pistole e di una mitraglietta Skorpion con silenziatore. Coco scese dall'auto alle 13.38, il brigadiere di pubblica sicurezza Giuseppe Saponara lo seguiva d'appresso, insieme si avviavano per la salita; i terroristi spararono da pochi passi, alle spalle, Coco e il brigadiere morirono all'istante. L'appuntato dei Carabinieri Antiaco De Iana era rimasto in macchina, al volante, ma prima che potesse fare un solo gesto due persone lo freddarono. Inizialmente l'attentato era stato programmato per il 5 del mese, data del primo anniversario della morte di Mara Cagol, ma l'operazione venne rimandata diverse volte, fino a quel tragico 8 giugno. «Il tribunale del popolo ha decisi di porre fine al suo bieco operato e lo ha condannato a morte. Ora questa sentenza è stata eseguita [...] e gli aguzzini del popolo possono stare sicuri che se il proletariato ha una pazienza infinita ha anche una memoria prodigiosa, e che alla fine niente resterà impunito. Magistratura, Polizia, Carabinieri, le carceri, costituiscono ormai un blocco unico, sono le articolazioni cardine dello stesso fronte militare che lo stato delle multinazionali schiera contro il proletariato. L'unica alternativa di potere è la lotta armata per il comunismo, occorre acuire la crisi di regime portando l'attacco al cuore dello stato, occorre rafforzare il potere proletario armato costruendo il partito combattente [...] in merito al processo di Torino ripetiamo che tutti i militanti detenuti della nostra organizzazione sono prigionieri politici: ad essi va riservato il trattamento dei prigionieri di guerra stabilito dalla convenzione di Ginevra. Il non rispetto di queste norme [...] verrà giudicato per quello che è: crimini di guerra». Così scrissero le Br rivendicando l'azione. Ci fu anche una seconda rivendicazione, all'interno di un'aula di tribunale: quella del primo processo alle Brigate Rosse apertosi davanti alla corte d'assise di Torino nel quale erano implicati Alberto Franceschini, Renato Curcio ed altri 9 del nucleo storico. Uno di Loro, Prospero Gallinari cominciò a leggere: «Ieri i nuclei armati delle Brigate Rosse hanno assassinato il boia Francesco Coco e i due mercenari che dovevano proteggerlo...». Il magistrato lo interruppe subito, i Carabinieri tolsero dalle mani di Gallinari il foglio del comunicato, ma esso arrivò ugualmente nelle mani dei giornalisti. Il foglio conteneva una minaccia: «Giustiziare Coco non è stata una rappresaglia esemplare, con questa azione si apre una nuova fase della guerra di classe, oggi insieme a Coco siete stati giudicati anche voi, egregia eccellenza». Il "Processo Guerriglia" A Torino stava succedendo, infatti, un'altra cosa non usuale, i brigatisti attuavano il c.d. "Processo guerriglia". Esso era una forma - forse la più efficace - di propaganda armata: i terroristi rifiutavano la giustizia borghese, dunque di difendersi, ricusando i difensori d'ufficio, dichiarandosi prigionieri politici e cercando di usare gli stessi processi per processare a loro volta lo stato e la società. Intanto i compagni del partito armato intervenivano con azioni militari che, data l'attenzione della stampa, trovavano un eco enorme. Roberto Ognibene spiegò: «Noi dobbiamo dimostrare che per quanto prigionieri, siamo in grado si paralizzare la giustizia e, con le azioni dei compagni fuori, che la rivoluzione continua». Moretti, ricordando il periodo, è invece più entusiasta: «Al processo di Torino i compagni mettono in atto il rifiuto del processo, è la rottura. E si modifica la procedura, il processo si celebra senza la presenza dell'imputato: salta il ruolo della mediazione della magistratura. Il conflitto è totale, ultimativo [...] bastava rivendicare le azioni in aula per cambiare diametralmente la nostra posizione, da accusati si diventa accusatori». Con l'attacco di Genova la strategia delle Br compì una svolta decisiva; a Genova per la prima volta uccisero con premeditazione. Siamo ad un momento cruciale: dopo la propaganda armata si avviò l'attacco al cuore dello stato alzando il livello dello scontro, accettando e includendo l'assassinio come strumento di lotta politica. Le azioni delle BR per impedire che si realizzi il processo di Torino furono molteplici. Il 28 aprile 1977 uccidono a Torino Fulvio Croce, presidente dell'Ordine degli avvocati piemontesi. L'omicidio ha l'effetto di impedire la riapertura del processo; il 3 maggio infatti, la prima udienza, dopo poco meno di un anno d'interruzione, è disertata da quasi tutti i giudici popolari. La mancata realizzazione del processo, scrive Sergio Zavoli, «è una vittoria delle BR, che puntano alla cosiddetta germanizzazione dello Stato di diritto. Se lo stato viene costretto a rinunciare alle regole costituzionali, teorizzano le BR, per ciò stesso ne esce accelerato il processo rivoluzionario». L'aspetto militare diventa quello predominante nelle BR. «Se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, - scrive Bocca - la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì». In realtà, "l'eruzione sociale" riprende solo alla fine del '76 e raggiunge l'apice con il movimento del '77, ma è comunque convinzione di molti studiosi che ci sia stato un rapporto organico tra ampi settori di quel movimento e le BR. Non concordano con questa ricostruzione quella di molti brigatisti, come Prospero Gallinari che ha affermato come «con i giovani del '77 erano più le divergenze che i punti di contatto»; solo dopo la fine di quell'esperienza molti sono entrati nelle fila della lotta armata. «Per me - afferma Moretti - ma non solo per me, quel movimento resterà un oggetto sconosciuto fino alla fine [...] con quel movimento abbiamo interagito pochissimo. Ci era vicino per la radicalità delle rivendicazioni, per l'estraneità ai meccanismi istituzionali, per la maturità delle pratiche, ma lontanissimo nel non sapersi dare e neppure volere una direzione, una meta». È interessante notare poi, in conclusione di questo capitolo, come ci sia un forte divario nel numero delle azioni armate tra prima e dopo il '77. Dal 1969 al 1977 le Br compiono, complessivamente, 211 attentanti che provocano la morte di 13 persone e il ferimento di 25; nei tre anni successivi ('78, '79, '80) gli attentati saranno 230, i morti 42, i feriti 43. Che ciò corrisponda solo all'attuazione di fasi diverse della strategia delle Br può essere una spiegazione, ma non è la sola. «La perdita di dimensione politica (dopo il '77) - scrive Nanni Balestrini - spinge a una pratica di autovalorizzazione immediata che porta alla scelta della lotta armata». Anche per i gruppi armati, dunque, il '77 sarà un anno di confine.