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Roberto bartali.it

Gennaio 2004

5 Gennaio 2004 (Corriere della Sera) Il giudice Sossi e il sequestro

- Giovanni Minoli ricostruisce, trent'anni dopo, il sequestro delle Brigate Rosse, la vicenda di Mario Sossi, ora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione a Roma. La storia siamo noi Raidue, ore 22.40.

7 Gennaio 2004 - (La Repubblica) Sequestro Sossi, l'ultimo mistero

- Sossi e il suo carceriere faccia a faccia trent' anni esatti dopo il sequestro che nell' aprile 1974 aprì la fase più dura del terrorismo con la stella a cinque punte e dimostrò la portata della sfida delle Br nei cosidetti "anni di piombo". Trent' anni dopo, quando le Br esistono ancora, dopo essere state sconfitte alla fine di quella fase storica, assistere a un incontro "impossibile" fino a poco tempo fa, sarà sicuramente un' emozione forte e non solo un tuffo all' indietro nella preistoria terroristica, oggi che il terrorismo ha una portata così devastante e globale. Franceschini Alberto oggi, cinquantaquattrenne, un uomo completamente libero, impegnato nel "sociale" come si dice, scontate le pene, recuperata la fedina penale, avrebbe già potuto incontrare il suo ostaggio di trent' anni fa Sossi Mario, magistrato di Cassazione. Dopo un' intervista di sei anni fa a "Repubblica" lui, il capo Br, un ex comunista di Reggio Emilia, si era dimostrato disponibile, ricordando quegli anni, a "fronteggiare" Sossi. Era stato il magistrato, allora sostituto procuratore generale a Genova, a dire no all´incontro che il nostro giornale voleva organizzare con Franceschini e con un altro personaggio genovese, che aveva avuto in quel sequestro un ruolo chiave, ministro dell´Interno dell´epoca, Paolo Emilio Taviani, responsabile di quella prima linea della fermezza che aveva impedito lo scambio di Sossi con i prigionieri politici della banda XXII Ottobre, anch´essi genovesi. "No, con Franceschini non mi voglio incontrare" - ci aveva risposto Sossi, ricordando le cause civili da lui intentate alla colonna terroristica per ottenere un risarcimento danni. E le sue parole per Franceschini, per il capo della colonna Curcio, fondatore storico delle Br e per gli altri carcerieri, erano state dure come se il tempo, gli avvenimenti non fossero neppure trascorsi nella misura dei lustri, come se non ci fosse stata una abissale distanza tra quei brigatisti della prima ora e il seguito sanguinoso del terrorismo con la stella a cinque punte. Quello che proprio a Genova aveva incominciato a uccidere, giustiziando il procuratore generale Francesco Coco, "colpevole" con Taviani di dire no al famoso scambio di prigionieri. Quando Coco fu ucciso con la sua scorta in salita Santa Brigida, l' 8 giugno del 1976, ore 13,30, Franceschini era già stato catturato dai carabinieri. La sua carriera clandestina era finita: lo aspettavano quasi venti anni di carcere. In questa storia, che oggi vive nella trasmissione " Partita a tre", di Gianni Minoli, su Rai 2, alle 22,30, un intenso Amarcord, Genova c' entra molto, non solo perché fu lo scenario del sequestro e perché i protagonisti erano in parte attori genovesi, il magistrato Sossi, vittima, il Pg Coco e il ministro Taviani. Genova fu il laboratorio di un' impresa di terrorismo con la quale la famosa "geometrica potenza" delle Br incominciò a dispiegarsi. Con quell' attacco al cuore dello Stato incominciò per la città un decennio che avrebbe messo a dura prova le sue forze e che estrasse dalle sue pieghe un' energia, oggi probabilmente scomparsa. Alludiamo a una tenuta istituzionale e democratica nella quale i geni politici genovesi, tra grandi fabbriche e porto, spesso la nicchia segreta e protettiva di quel mistero chiamato Br, un Pci granitico, ma con un inquietante album di famiglia, le tradizioni partigiane di Taviani, la spina dorsale cattolica e industriale, erano vivaci e reattivi. Avrebbero sopportato omicidi, esecuzioni, gambizzazioni fino al supremo sacrificio dell' operaio Italsider Guido Rossa, quei geni politici e avrebbero creato gli anticorpi che poi, in via Fracchia, produssero l´atto iniziale della sconfitta delle Br "storiche". Cosa potranno dirsi trent´anni dopo, Sossi e Franceschini? A noi di Repubblica il capo fondatore delle Br raccontò la storia "interna" di quella clamorosa operazione così abilmente descritta nel libro di Pier Vittorio Buffa e Franco Giustolisi, "Mara, Renato e io", vero best seller dell´epopea brigatista. "Allora colpire Sossi voleva dire colpire un giudice della controrivoluzione, del progetto delle Destre di arrivare al golpe bianco - spiegò Franceschini. _ Prendevi lui e mettevi in crisi la magistratura, la polizia, il governo, i partiti." " Mi sentivo un po' un Robin Hood - ha raccontato l' ex carceriere, rievocando la sua giovane età di allora, 26 anni nei giorni del sequestro, i meticolosi preparativi, un anno a Genova a fare pedinamenti, ispezioni, ricostruzioni, lui e la sua donna di allora, la "mitica" Mara Cagol, poi uccisa dai carabinieri in un tragico conflitto a fuoco alla cascina Spiotta. A Franceschini brillavano pure gli occhi ricordando il suo amore per la compagna e quei mesi genovesi "giorni e giorni a consultare insieme la raccolta dei giornali genovesi, "Il Secolo XIX" e "Il Lavoro", per ricostruire i processi dei quali il "dottor Manette", così veniva soprannominato Sossi, era stato protagonista". Chissà come rievocheranno insieme, davanti a Minoli, Sossi e Franceschini, gli agitati momenti del sequestro, quando per errore i brigatisti si spararono addosso tra di loro, con il giudice chiuso in un sacco. "Avremmo dovuto uccidere l' ostaggio e scappare" - aveva confessato Franceschini, ricostruendo quella sequenza drammatica. Come si parleranno i due? Con rispetto, con punte di ironia, di polemica? Sossi non ha sicuramente perdonato. Franceschini ha misurato per intero le conseguenze di quelle imprese "alla Robin Hood", poi diventate l' introduzione a crimini terribili. Il terzo protagonista di quei giorni difficili, il ministro Taviani è scomparso da oltre due anni. La sua testimonianza, soprattutto sulle circostanze del rilascio di Sossi, sarebbe stata utile. Nessuno ha mai ben spiegato come Sossi fu liberato, imbarcato su quel treno a Milano con il Ministero dell´Interno informato prima. Nessuno ha mai spiegato bene il ruolo di uno dei carcerieri non in confidenza con gli altri, che lo stesso Franceschini ha denunciato, confessando il sospetto postumo che poi anche quella impresa fosse stata in qualche modo etero diretta dai servizi segreti, da forze esterne al nucleo delle Br. Genova ha dimenticato tutto. La pagina che rileggeremo questa sera sembrerà un pezzo di storia anche se l' ombra delle Br è tornata in qualche modo ad aleggiare su un Paese così diverso da quell' Italia anni Settanta. Non per fortuna su una Genova che è ancora più distante dalla città che si fermò una sera di primavera, davanti allo choc del sequestro Sossi. freccia rossa che punta in alto

10 GENNAIO 2004 (Romaone) - INTERVISTA A VALERIO MORUCCI

"Quando i principi iniziano a camminare sulle gambe dell'ideologia allora conducono alla violenza cieca. Se si usa l'ideologia per realizzare il proprio ideale ed essere felici, in qualche modo si finisce inevitabilmente per far del male agli altri". Valerio Morucci vuole parlare ai giovani di oggi, proprio a quelli che si dice siano orfani delle ideologie, quelli che sanno del '68, delle Br e di Moro solo dai libri, dai film o dalle canzoni. E ha deciso di scrivere, di cuocere i suoi ricordi nel brodo della letteratura. Una sfida accettata non senza iniziali remore da parte dell'ex brigatista poi dissociato, membro della colonna romana che sequestrò lo statista pugliese a via Fani e "postino" delle Brigate rosse durante i 55 giorni di prigionia del presidente Dc.
Morucci alla fine ha deciso di rievocare su carta le emozioni e le situazioni di quegli anni, "ma ho accettato soltanto perché l'editore non mi ha chiesto 'sudore, sangue e polvere da sparo' - spiega - Mi ha chiesto una rielaborazione che arrivasse fino ad oggi. E soprattutto perché ho ottenuto di inserire nel libro i miei racconti. Volevo utilizzare il medium della letteratura, non volevo fare una semplice analisi o memoria autobiografica di quel periodo". Il risultato di quest'ambizione è "La peggio gioventù" (Rizzoli, pp. 356, euro 17.00), una lettura coinvolgente e coinvolta della storia del brigatismo rosso "anche se io parto addirittura dallo sbarco americano in Italia e dalle ragioni culturali che hanno portato all'esplosione del '68", dice Morucci. Una sorta di autobiografia alquanto carica di pathos, in cui si intrecciano momenti di vita quotidiana e tentativi di dar conto delle proprie responsabilità personali ("perché non voglio si pensi che secondo me i singoli possono far scudo alle proprie colpe con le ragioni della Storia"). Ma che contiene anche giudizi pesanti su brigatisti come Mario Moretti o Alberto Franceschini, sulla politica e sui partiti alle prese con il sequestro Moro, nonché sugli stessi vertici delle Brigate rosse, le cui decisioni Morucci finì per avversare in modo netto.
Morucci non era un "organico", non faceva parte del panorama culturale da cui provenivano i brigatisti tipo Moretti. Era molto meno stalinista, era uomo da "Potere operaio". "E sono entrato nelle Br solo perché erano falliti tutti gli altri tentativi", dice alla presentazione del libro nello storico liceo romano "Giulio Cesare". Non a caso divenne poi una sorta di apostata, dichiarandosi insieme ad Adriana Faranda contrario all'omicidio di Moro, contrario alla svolta decisa nel "processo" brigatista alla Dc che fu in qualche modo l'inizio della fine per il terrorismo rosso di quell'epoca. Arrestato nel 1979, Morucci ebbe diverse condanne all'ergastolo, ridotte a trent'anni in appello e poi a ventidue e mezzo per l'applicazione della legge sulla dissociazione. Ottenne quindi la semilibertà e la libertà condizionale, finendo di scontare la sua pena nel 1994.
All'ex brigatista interessa mettere in evidenza le contraddizioni del terrorismo di sinistra: "La scelta di uccidere Moro era ineluttabile per le Br. Io mi scagliai contro, ci furono liti furiose al nostro interno, soprattutto a partire dalla visibilità che Moretti decise di dare alla lettera privata di Moro a Cossiga. Ma quello era lo sbocco cui l'ideologia brigatista portava. E poi, parliamoci chiaro, allora la violenza per una parte politica era il vero motore della Storia. E in fondo è così, anche oggi è così. Quindi era un dato ineluttabile nel nostro panorama di riferimento". Secondo l'ex brigatista "la violenza era negli slogan e nelle parole già del '68. Ma da violenza esibita e gridata diventò violenza agita nel momento in cui morì Giangiacomo Feltrinelli. Ho provato a dirlo nel mio libro: per me quello è un punto di svolta". Qui arriva uno dei primi nodi che Morucci vuole sciogliere: "Il problema sta nel passaggio dalla 'violenza epica' delle parole che esprimono un ideale alla violenza pratica che contraddice quello stesso ideale. Tutto l'epos in noi si perdeva quando si trattava di prendere le armi e sparare a qualcuno".
Il "postino" non si nasconde dietro a un dito: "Il '68 è stato un movimento di massa nato in modo spontaneo. E' come una pentola che è esplosa senza nessun 'regista', senza nessun impulso individuale o di gruppi circoscritti. Il problema è che, fatto tutto quel casino, bisognava decidere come proseguire, cosa cercare, cosa volere. Era una spinta sociale senza configurazione politica. A quel punto il movimento ha iniziato a utilizzare quegli stessi strumenti culturali e politici propri del mondo che esso stesso attaccava, sconfessava e contestava". Morucci lo definisce "il mondo dei blocchi, lo scenario della contrapposizione tra filo-occidentali e filo-sovietici. Uno scenario guidato da una politica che come oggi - sottolinea l'ex br - è tutt'altro rispetto all'etica. Allora imperavano i partiti 'del sacrificio': quelli che avevano portato l'Italia fuori dalla guerra e avevano impostato sul sacrificio la ricostruzione e la rinascita. Quelli che sull'altare della repubblica volevano sacrificare anche Moro. Questo era il retaggio del '68, il blocco contro cui i giovani insorsero, uno scenario che permeava tutto di sé, basti pensare al processo Pasolini o alle critiche di Andreotti ai film del neorealismo. I giovani volevano spazio e identità in un contesto che non dava loro nulla, che non li riconosceva nemmeno. Solo ora i giovani sono soggetti. Anzi, adesso sono addirittura mercato". Questo scenario è il "padre" del '68 e delle Brigate rosse per Morucci. Lui nega che esistano matrici oscure o "grandi vecchi" dietro la lotta armata. Chiacchierando con RomaOne.it nega che Moretti potesse essere un infiltrato o che fosse addirittura al libro paga della Cia. Dissente da Franceschini, che invece spesso avalla tesi dietrologiche, e rifiuta l'idea di una colonna romana delle Br eteroguidata, pilotata dall'esterno e dunque strumentalizzata da misteriose forze italiane o internazionali. "Tutto nasce dalla scelta di una generazione, solo ed esclusivamente di quella generazione di ragazzi. Sicuramente c'erano le infiltrazioni - spiega - Ma servivano per sgominarci, non per guidarci. 'Frate Mitra', ad esempio, avrebbe potuto fare carriera in seno alle Br, ma a un tratto è servito a far arrestare Curcio e Franceschini. Era difficile infiltrare e pilotare un'organizzazione come la nostra. Eravamo pochi e politicamente ben consapevoli". Sarà, ma intanto restano ombre: perché proprio Moretti non è mai finito in una retata? E perché l'obiettivo massimo dei terroristi è stato Moro e non per esempio Andreotti?
Per Morucci quella era la peggio gioventù. Gioventù che secondo Antonello Venditti - ex alunno del "Giulio Cesare", presente accanto al "postino" di fronte agli studenti dello storico liceo romano - "non era invero peggio o meglio delle altre. E il libro di Valerio non vuole stabilire cosa è bene e cosa è male. Quella era una generazione cui anche io appartengo, che ha fatto scelte ed errori. Una generazione che comunque ha vissuto". Il libro però è fondamentalmente una condanna delle Br che, secondo Morucci, "opposero a quella politica tutt'altro che etica un'altra maledetta idea politica altrettanto cieca e non-etica. Le nostre condizioni durante il sequestro Moro erano irricevibili. Lo capì e lo disse anche Papa Montini. Non potevamo pensare che lo Stato accettasse di darcela vinta. Era demenziale. Che dovevano fare? Dire: 'Bene, noi andiamo tutti a casa, avete vinto'? Io e Adriana sperammo fino all'ultimo che qualcuno ci desse una mano e aprisse uno spiraglio per la liberazione di Moro, sperammo nel Psi: non a caso incontrammo più volte Lanfranco Pace, malgrado il divieto esplicito di Moretti e dell'organizzazione. La più grande vittoria - sentenzia l'ex terrorista - le Br l'avevano ottenuta già a via Fani. Lo Stato a quel punto era già disgregato". E' chiaro che da vivo Moro poteva essere molto più utile ai brigatisti: il carico di cose che sapeva ed a quel punto era capace di dire, sarebbe stato in grado di mandare gambe all'aria la Dc e tutto il sistema politico. "Uccidendolo, invece, abbiamo dato al sistema il pretesto per compattarsi - riflette Morucci - e per sopravvivere qualche anno in più. Tutto crollò comunque come un castello di carte negli anni '80-'90, ma intanto, allora, concedemmo al potere politico di sopravvivere a se stesso, di ritardare il proprio declino irreversibile". Ciononostante il brigatista dissociato racconta che "Cossiga si è sdoganato recentemente dalle omertà di parrocchia ammettendo due cose: che non eravamo semplici criminali come si sosteneva allora, ma dei veri rivoluzionari; e soprattutto che era stata approntata una clinica per il Moro eventualmente liberato, un luogo in cui sarebbe potuto guarire dal suo stress. Insomma, si capisce che Moro era politicamente bruciato in ogni caso. La Dc avrebbe fatto in modo di neutralizzarne la pericolosa figura politica". Nel passaggio dal '68 alla lotta armata dei '70 c'è un corto circuito. E Venditti prova a individuarlo nel rapporto e nel coinvolgimento della classe operaia. Morucci se la prende invece con l'ideologia in sé e tornando all'attualità spiega: "Oggi non ci sono più le condizioni per una terrorismo come quello lì. Le nuove Br sono solo un prolungamento delle vecchie. Sono fatte da terroristi che c'erano già allora, anche se erano collaterali. Adesso però il movimentismo può sfociare in una contrapposizione che sia meno ideologica e meno politica. Quindi più concreta ed etica. Questo è un fatto positivo. E nel quale io ripongo tanta speranza". freccia rossa che punta in alto

14 Gennaio 2004
(Repubblica.it) - Terrorismo, catturati i brigatisti Rita Algranati e Maurizio Falessi

- Sono stati arrestati, all'aeroporto del Cairo, Rita Algranati e Maurizio Falessi, brigatisti latitanti da anni. I due, che non erano armati e avevano ducumenti falsi e del denaro, sono attualmente negli uffici della questura di Roma. Da quanto si è appreso, i due vivevano in nord Africa. Algranati, condannata all'ergastolo per il delitto Moro, era considerata la "primula rossa" delle Brigate rosse. Non si sa ancora se la cattura dei due sia collegata alla scoperta del gruppo che assassinò D'Antona e Biagi e del covo di via Montecuccoli a Roma. Rita Algranati, secondo una recente denuncia dell'associazione vittime del terrorismo, viveva in Angola. E' la ex moglie di Alessandro Casimirri, anche lui condannato per il sequestro Moro, che vive da molti anni in Nicaragua. In una recente intervista al più diffuso quotidiano di Managua ha detto di "sapere molte cose sugli anni del terrorismo". Al momento della cattura Rita Algranati non ha tentato di nascondere la propria identità, ammettendo di essere la persona cercata dalla Polizia italiana. La Algranati non si è dichiarata prigioniera politica. La conferma dell'identità della brigatista e dell'altro latitante Maurizio Falessi è poi giunta dalle impronte digitali e dai riscontri fotografici. Maurizio Falessi, considerato uno dei militanti delle Ucc e accusato di associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, cominciò nel Cococen (Comitato comunista Centocelle), una struttura da cui nacque il Movimento Politico Resistenza Offensiva (Mpro) considerato "struttura di lancio verso le Br". Nel Cococen furono attivi anche Antonio Savasta, Germano Maccari e Bruno Seghetti. Dal ministro dell' Interno, Giuseppe Pisanu sono arrivati i complimenti al capo della polizia, Gianni De Gennaro ed al direttore del Sisde, Mario Mori, per la cattura dei brigatisti latitanti Rita Algranati e Maurizio Falessi. freccia rossa che punta in alto

(Corriere.it)
Arrestati due brigatisti all'aeroporto del Cairo

- Lei, Rita Algranati, era stata condannata all'ergastolo per il delitto Moro. Falessi è un ex militante delle Ucc. - I brigatisti Rita Algranati e Maurizio Falessi sono stati catturati all'aeroporto del Cairo dalla polizia di Roma. I due sono in Questura negli uffici della digos romana. L'operazione è stata condotta dagli investigatori romani con la collaborazione dei servizi di sicurezza italiana e della polizia egiziana. La coppia - che viveva stabilmente in Nord Africa - non era armata al momento della cattura. Avevano tutti e due documenti falsi e sembra non si siano dichiarati prigionieri politici. Sono stati localizzati con pedinamenti e intercettazioni. Rita Algranati, condannata per il sequestro Moro e latitante dal '78, è la moglie di Alessio Casimirri, uno dei latitanti storici dell' eversione, rifugiato in Nicaragua, ritenuto uno dei sequestratori dello statista democristiano. Maurizio Falessi, considerato uno dei militanti delle Ucc e accusato di associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, cominciò nel Cococen (Comitato comunista Centocelle), una struttura da cui nacque il Movimento Politico Resistenza Offensiva (Mpro) considerato «struttura di lancio verso le Br». Nel Cococen furono attivi anche Antonio Savasta, Germano Maccari e Bruno Seghetti. Dal ministro dell'Interno, Giuseppe Pisanu, complimenti al capo della polizia, Gianni De Gennaro ed al direttore del Sisde, Mario Mori. Pisanu, dopo aver informato il capo dello Stato ed il presidente del Consiglio dell'arresto dei due brigatisti, si è personalmente rallegrato con il capo della Polizia e con il direttore del Sisde «per la magistrale operazione che ha consentito la cattura dei terroristi». Il ministro Pisanu ha sottolineato come sia stato «possibile raggiungere questo ulteriore successo investigativo grazie alla intensificazione, da lui stesso promossa, della collaborazione tra servizi di informazione e forze dell' ordine, oltre che al miglioramento del sistema delle relazioni internazionali». freccia rossa che punta in alto

15 Gennaio 2004: (Corriere della Sera) - «Uno dei soliti sospetti».

Per se stesso usa questa definizione. Per l'atto finale della storia di suo fratello Maurizio, che adesso sta inondando i telegiornali della sera, sceglie parole di rabbia che gli incrinano la voce chioccia: «La verità è semplice. È stato venduto ai servizi segreti dal presidente Bouteflicka, che così ha deciso di cancellare la storia del suo Paese e sputare su un milione e mezzo di morti». «Venduti», lo dice spesso. Silvano Falessi, 37 anni compiuti da qualche giorno, è fratello del terrorista arrestato all'aeroporto del Cairo insieme alla sua compagna Rita Algranati. Lui, un conto di undici anni e due mesi in sospeso con la giustizia italiana. Lei, un ergastolo per una serie di omicidi «politici» e il sospetto di aver partecipato al sequestro Moro. In comune, la militanza nei gruppi eversivi e una vita ormai tranquilla ad Algeri. «Sento vaneggiare di successo investigativo... tutte cretinate. È stato un mercimonio. Il governo algerino sapeva da tempo chi erano mio fratello e la sua compagna, sapeva dove stavano» prosegue Falessi. E ancora: «Anni fa "Il Giornale" aveva scritto in un articolo dove stavano. Altro che rifugio segreto. Ma non erano mai stati catturati, perché avevano sempre trovato governanti coerenti». Alla domanda se avesse mai incontrato suo fratello in latitanza, risponde con una risata amara: «Veda un po' lei. È tutto documentato, perché io viaggio sempre con i miei documenti personali. Con il mio centro sociale ho partecipato più volte a manifestazioni in Algeria. Nel 2001 sono stato al Festival mondiale della gioventù, l'ambasciatore italiano di allora ha in tasca il mio biglietto da visita». Anche quello di Silvano Falessi non è un nome sconosciuto all'Antiterrorismo. Tre perquisizioni in tre anni, tutte collegate al delitto D'Antona. L'ultima, il giorno degli arresti dei presunti assassini del giuslavorista ucciso il 20 maggio 1999. Gli investigatori avevano il sospetto che facesse parte del «cerchio intermedio», ovvero dei fiancheggiatori delle Brigate rosse. A parole, lui risolve la questione in scioltezza: «Non hanno mai trovato nulla. Potrei anche dire che sono oggetto di una persecuzione e, se sono qui a parlare con lei, è una persecuzione ingiusta, anche se mi rendo conto che gli speculatori di professione in questa circostanza leggeranno un "anello di congiunzione" tra vecchie e nuove Br...».
Il centro sociale di Falessi si chiama Cip, centro di iniziativa popolare del quartiere Alessandrino. Ed è molto, ma molto discusso negli ambienti del movimento antagonista. Proprio per via dei servizi segreti. Pochi giorni prima del corteo no global all'Eur (scontri con la polizia che hanno portato agli arresti di tre giorni fa), Indymedia, una delle voci del movimento, «scomunicò» Europposizione. Un cartello di centri sociali ai margini della galassia no global che raccoglie anarchici e marxisti. Recentemente è stato tirato in ballo - senza troppa convinzione - da qualche rapporto investigativo sui pacchi bomba. Il motivo della «scomunica»? La presenza al suo interno del Cip di Roma, accusato senza mezzi termini di essere una «dependance» dei servizi segreti. Vecchia storia, legata allo scandalo dei fondi neri del Sisde. Il Cip venne fondato agli inizi degli anni Novanta da Alberto Luzzi, 36 anni, figlio della «zarina» Matilde Martucci, all'epoca segretaria del direttore del Sisde Riccardo Malpica. Il mestiere di Luzzi, secondo la relazione del 1995 del comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza era abbastanza chiaro: dipendente del Sisde. Uno «spione», insomma. E il Cip finì in mezzo a quella bufera, anche perché molti dei suoi frequentatori lavoravano nelle due agenzie di viaggio aperte con i soldi del Sisde da due suoi funzionari. Una «macchia» che gli è rimasta addosso, anche a distanza di dieci anni. Falessi non ha nessun problema a dire di aver lavorato in una di quelle agenzie («Facevo il fattorino») ed è abituato a convivere con i sospetti degli altri: «Se l'equazione che se ne è tratta in questi anni è semplice, ovvero che anch'io sono uno spione, almeno oggi è stata risolta: l'arresto di mio fratello dimostra che io certamente non potevo collaborare con quelle "guardie schifose"». Per lui è una magra consolazione, dice: «Mi viene da piangere. Mio fratello e la mia famiglia, siamo persone per bene. E lui è stato tradito dai suoi amici algerini e comprato dagli "sbirri" italiani. Altro che brillante operazione...».

Gli omicidi e la fuga per amore Morucci: era solo una dei tanti
- "Un ritratto di Rita Algranati? No, meglio lasciarla senza volto, a rappresentare il prototipo del militante brigatista degli anni Settanta, uno dei tanti", dice Valerio Morucci, che con l'ex-terrorista ha condiviso l'esperienza delle Br a Roma tra il '77 e il '79, un quarto di secolo fa. Compreso il sequestro di Aldo Moro, in via Mario Fani, la mattina del 16 marzo 1978. "Posso farne adesso il nome perché è già condannata all'ergastolo - rivelò lo stesso Morucci in un'intervista del '93 -; Rita Algranati era stata inserita all'ultimo momento per segnalare, dall'imbocco di via Fani, l'arrivo dell'auto di Moro. Rimase distante e si allontanò per i fatti suoi. Durante i 55 giorni del sequestro non ha avuto alcun ruolo". Tornò ad essere un "senza volto", allora come oggi, anche se un viso e una storia Rita Algranati ce l'ha, oggi come allora. Ha compiuto 46 anni l'altro ieri, il giorno in cui l'hanno arrestata dopo 27 di latitanza, più di metà della vita. Ventisette anni in cui è fuggita dal triennio di piombo più duro della parabola del terrorismo italiano, quando si sparava in strada quasi ogni giorno. Rita divenne "Marzia" e con quel nome di battaglia partecipò (a parte il sequestro Moro) ad agguati che gli sono valsi condanne a svariati ergastoli: dall'assassinio del giudice Palma a quello del consigliere provinciale democristiano Italo Schettini, dall'assalto alla sede della Dc romana che costò la vita a due poliziotti all'omicidio del tenente colonnello Antonio Varisco. Nessun ruolo di spicco nelle Br sbarcate a Roma per portare l'attacco al "cuore dello Stato", ma "una militante con le decisioni e le debolezze dei ventenni", ricorda un altro capo br dell'epoca. Alla lotta armata era arrivata attraverso il compagno che poi divenne suo marito, Alessio Casimirri, pure lui nel commando di via Fani. "Erano molto innamorati - dice ancora l'ex-brigatista - e forse quando se ne andarono dall'organizzazione lo fecero proprio per non separarsi". Era l'inizio dell'80, e il vertice brigatista aveva deciso che Casimirri doveva trasferirsi a Napoli, per guidare la colonna campana; lei invece sarebbe rimasta a Roma; da clandestini quali erano, significava interrompere i rapporti. In un incontro con i compagni della direzione la coppia fece sapere che voleva uscire dal gruppo: "Non ci sono più prospettive - dissero più o meno -, la strategia messa in campo non offre possibilità di successo, e quindi ce ne andiamo". Motivi politici, dunque, almeno ufficialmente, nonostante l'impressione dei compagni su retroscena sentimentali che in ogni caso non cambiavano la decisione e la realtà. La coppia spiegò anche che aveva trovato una via di fuga verso il Nicaragua, dove la rivoluzione sandinista aveva trionfato da pochi mesi. Marzia tornò così ad essere Rita. Non più una militante br ma una ragazza di 22 anni alla macchia, magari costretta a cambiare ancora identità ma non più in nome della lotta armata. Col passare del tempo, nel Paese centro-americano il legame tra Algranati e Casimirri si spezzò e la vita della donna s'è incrociata con quella di un altro fuggiasco della tentata rivoluzione italiana, Maurizio Falessi, classe 1954, passato dalle pistole alla fuga ma senza transitare nelle Br. Dopo la militanza in Potere operaio, nei bellicosi anni Settanta Falessi frequentò il Comitato comunista di Centocelle. Quando si sciolse alcuni entrarono nelle Br mentre lui aderì alle Unità comuniste combattenti, responsabili di assalti e ferimenti vari, nonché del sequestro di un commerciante di carni preso in ostaggio per la distribuzione gratuita di bistecche al popolo; l'impresa fallì perché il macellaio, abbandonato in un palazzo disabitato, riuscì a liberarsi e se ne andò con le proprie gambe dalla improvvisata prigione. Per i cento inquisiti per le attività delle Ucc c'era pure Falessi, condannato a undici anni di galera che ha cominciato a scontare appena l'altro giorno. La sua fuga infatti risale al 1979, e negli ultimi anni s'è intrecciata con quella di Rita Algranati fino all'Algeria e all'arresto. Storie diverse e uguali a un tempo, che nulla hanno a che vedere - per ammissione degli stessi investigatori, e fino a prova contraria - col nuovo brigatismo. O forse sì, ma in un altro senso, come pensa Morucci: "Se quelle vicende fossero state chiuse non solo per una via giudiziaria, che in questo caso arriva a conclusione dopo 25 anni, ma anche con una riflessione collettiva e una soluzione politica, le nuove Br non avrebbero avuto nulla a cui attaccarsi, e oggi avremmo qualche morto in meno".

TERRORISMO: DOVE SONO I BR DEL CASO MORO
Dopo l'arresto di Rita Algranati, il suo ex marito Alessio Casimirri, che si è risposato in Nicaragua, resta l' unico del commando di via Fani che non sia mai stato catturato. Ecco la situazione dei terroristi protagonisti del caso Moro: MAI ARRESTATI IN ITALIA. RITA ALGRANATI, ex moglie di Casimirri, finora era stata latitante all' estero e viveva in Algeria. ALVARO LOIACONO ha scontato nove anni in Svizzera, paese di cui ha ottenuto la cittadinanza e che non ha mai concesso l' estradizione, prima di ottenere la libertà. Arrestato di nuovo in Corsica, a giugno 2001, dalla polizia francese, Loiacono è stato poi rimesso in libertà dopo che la Francia ha negato all' Italia l'estradizione. I QUATTRO DI VIA MONTALCINI: GERMANO MACCARI, il "quarto uomo", è morto il 26 agosto 2001 nel carcere di Rebibbia, dove era entrato a novembre del 2000, dopo che la Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a 23 anni. MARIO MORETTI, mente dell' operazione e, sembra, killer di Moro, condannato a sei ergastoli, è in regime di lavoro esterno nel carcere di Opera (Milano). Ha lavorato a Lombardia Informatica. ANNA LAURA BRAGHETTI, ha ottenuto la libertà condizionale e lavora all'Arci di Roma. PROSPERO GALLINARI è fuori dal carcere a causa delle sue condizioni di salute (ha tre by-pass). Vive a Reggio Emilia. GLI ALTRI MEMBRI DEL COMMANDO: BRUNO SEGHETTI, condannato all' ergastolo, aveva avuto la semilibertà, che gli è stata però revocata nell' ottobre del 2001, ed è quindi tornato nel carcere di Rebibbia. FRANCO BONISOLI è stato il primo, tra i br legati al caso Moro, ad ottenere il permesso di lavorare fuori dal carcere. Ora è libero e dirige una società di consulenza nel settore ecologico. Pochi giorni fa ha rivolto un appello alle nuove leve dell' eversione, invitandoli a lasciare il terrorismo e a dedicarsi al volontariato. BARBARA BALZERANI è in regime di lavoro all' esterno dal carcere di Rebibbia, dove sconta una condanna all' ergastolo, e lavora in una cooperativa che si occupa di informatica. RAFFAELE FIORE, all' ergastolo al carcere di Opera, è ammesso anche lui al lavoro esterno e lavora a progetti di reinserimento socio-lavorativo. VALERIO MORUCCI è in libertà, fa il consulente informatico e scrive libri e racconti. ROCCO MICALETTO di giorno lavora al servizio librario di una comunità genovese e la sera rientra nel carcere di Marassi. GLI ALTRI. ADRIANA FARANDA, che non ha fatto parte del commando di via Fani, ma ha svolto, nei 55 giorni del sequestro, un ruolo di supporto logistico, è in libertà e fa la fotografa. RAIMONDO ETRO, l'armiere che sembra essere stato escluso all' ultimo momento dall' agguato di via Fani e ha una condanna a 20 anni e mezzo, è agli arresti domiciliari. LAURO AZZOLINI, che non ha partecipato direttamente al sequestro Moro, ma faceva parte della direzione strategica che si riuniva per gestire il rapimento, è libero e si occupa della raccolta differenziata di materiale informatico.

TERRORISMO: MORO; CASIMIRRI, L' UNICO ANCORA LATITANTE VIVE ORA IN NICARAGUA
- Dopo l' arresto della ex moglie, Rita Algranati, Alessio Casimirri, 50 anni, è l'unico componente del commando Br che rapì Moro in via Fani che non è mai stato arrestato ed è sempre rimasto latitante e vive in Nicaragua. La Algranati, che in via Fani svolse solo un ruolo di vedetta sarebbe stata segnalata tempo fa in Algeria da un rapporto dell' Ucigos. Per la partecipazione al rapimento Moro e ad altri attentati terroristici, Casimirri è stato condannato a sei ergastoli nel processo Moro-ter. Figlio di un funzionario della sala stampa della Città del Vaticano, prima di entrare in latitanza, Casimirri ha militato in Potere Operaio e poi nel servizio d' ordine del gruppo di "Autonomia operaia" di via dei Volsci. Con la Algranati gestiva un' armeria vicino piazza San Giovanni di Dio, a cui sembrò alludere Patrizio Peci quando accennò alla prima prigione di Moro. Con il nome di battaglia di 'Camillo', Casimirri ha poi svolto un ruolo importante nella colonna romana delle Brigate rosse. Alessio Casimirri vive attualmente in Nicaragua, dove si è rifugiato nel 1983, dopo un periodo trascorso in Libia e a Cuba. Diplomato dell' Isef ed esperto sommozzatore, si è dedicato per alcuni anni alla pesca e alle ricerche subacquee (sembra abbia fatto anche l'istruttore degli incursori dell' esercito sandinista) e ha poi aperto il ristorante italiano "Magica Roma" nel centro di Managua. Nel 1988, Casimirri ha ottenuto la cittadinanza nicaraguense grazie all' aiuto di personalità sandiniste e al matrimonio con una ragazza del luogo, Raquel Garcia, contratto nel 1986 sotto il falso nome di Guido Di Giambattista e senza aver divorziato dalla Algranati. La cittadinanza gli è poi stata revocata nel 1993, perché ottenuta con una frode. Per questo motivo, "Camillo" è dovuto tornare alla latitanza per un certo periodo. Nel 1993 si è parlato di Casimirri come del confidente che aveva reso possibile l' arresto di Germano Maccari. La Digos e la famiglia del latitante hanno smentito però la cosa ed il fratello Tommaso ha raccontato che i servizi segreti italiani avevano contatto Alessio ed avevano cercato di convincerlo, anche con minacce e ricatti, a collaborare. Il governo italiano ha sollecitato ripetutamente, ma senza successo, l'estradizione di Casimirri.
All' inizio del 1998, combinando l'attività di ristoratore e quella di sub, "Camillo", che dalla moglie nicaraguense ha avuto due figli, apre un altro ristorante, la 'Cueva del Buzo' (La tana del sub), sulla costa, in cui serve il pesce che cattura nelle acque del Pacifico e che, pare, cucini benissimo. Sempre nel '98 il suo nome torna sui giornali italiani quando Raimondo Etro racconta che Casimirri gli avrebbe riferito che ad uccidere il commissario Calabresi sarebbe stato Valerio Morucci. La procura milanese vuole interrogarlo ma il Nicaragua respinge le richieste di rogatoria. Poi "L' Unita"' scrive che, secondo una ipotesi del giudice Antonio Marini, Casimirri, prima del sequestro Moro, fu "agganciato" dall' allora capitano Francesco Delfino e "passato" al Sismi del quale sarebbe da allora in poi stato utilizzato. freccia rossa che punta in alto

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