Febbraio 2004
2 febbraio 2004 (ANSA)- MARIA FIDA MORO: MARAZZITA ANDRÀ AVANTI CON MIA DELEGA - ATTO DOVUTO VERSO LA VERITÀ
Maria Fida Moro, al contrario del resto della sua famiglia, insiste perché le indagini sulla vicenda dell'omicidio del presidente della Dc vengano riaperte con l'inchiesta che sta svolgendo ormai da diverso tempo l'avv. Nino Marazzita. La riconferma dell'iniziativa, che dovrebbe concretizzarsi a breve con la presentazione ufficiale di una documentazione per riaprire l'inchiesta, viene dopo la lettera che compare sull'ultimo numero dell' "Espresso" a firma della signora Eleonora e dei figli Anna Maria, Maria Agnese e Giovanni. Prendendo spunto da un breve articolo intitolato "L'ombra di Mitrokhin" la famiglia Moro, tranne Maria Fida, afferma che l'avv. Marazzita ha rilasciato "con estrema leggerezza dichiarazioni alla stampa che ci coinvolgono. Desideriamo al proposito precisare di non avere nulla a che fare con le sue iniziative, di non avergli conferito alcun mandato in merito e di non avere la minima intenzione di farlo". Maria Fida Moro conferma l'iniziativa definendola un "atto dovuto verso la verità e verso la memoria di mio padre".
Nino Marazzita, interpellato, ricorda di aver lavorato da molto tempo su input di Eleonora e Maria Fida Moro. "Ho ricevuto l'incarico di raccogliere il materiale utile a promuovere la richiesta di riapertura con le relative deleghe. Ho sperato che queste indagini potessero riaprirsi in armonia con la signora Eleonora e con il resto dell'intera famiglia. Io ho semplicemente fatto alcune
precisazioni che sono di molto al di sotto di quello che si potrebbe dire. Non vi è stata nessuna avventatezza ma solo una piccola precisazione". Maria Fida Moro ha quindi confermato la sua delega per la riapertura delle indagini per l'omicidio Moro. Nino Marazzita si è lamentato perché "tutti parlano di questa vicenda un po' troppo. Io mi sono impegnato ad agire con massima discrezione su una indagine così delicata e rilevante. Io andrò avanti nella mia raccolta di documentazione".
3 Febbraio 2004 - Parla l'ex Br da tempo latitante in Centroamerica
Casimirri dal Nicaragua rompe il silenzio: «Non c'entro col caso Moro, stavo facendo lezione»
- L'ex brigatista Alessio Casimirri ha rotto in Nicaragua il silenzio in cui si era rifugiato da tempo ed ha negato di essere stato implicato nel sequestro di Aldo Moro nel marzo 1978. In una intervista al quotidiano "El nuevo diario" di Managua, Casimirri, 53 anni, ha detto di aver fatto parte delle Brigate Rosse perché «come cittadino avevo una ideologia», assicurando però di «non essere mai stato» implicato nell'operazione contro il leader democristiano. Casimirri, condannato in contumacia a sei ergastoli, ha ripetuto che il giorno del sequestro di Moro in via Fani, stava «dando lezioni di educazione fisica in una scuola». «Come tutti gli altri - ha aggiunto - ho appreso del sequestro e degli sviluppi di esso dai mezzi di comunicazione». Ma per la magistratura italiana "Camillo", come era conosciuto dai suoi compagni, era presente in via Fani e fu uno degli uomini che impugnò una pistola al momento del sequestro. Casimirri ha definito «pagliacciate» i processi realizzati in Italia contro di lui che, ha assicurato, si sono basati su accuse rivoltegli da ex compagni pentiti.
3 febbraio 2004 (ANSA)- D'ALEMA IN COMMISSIONE MITROKHIN
MITROKHIN: D'ALEMA, SCONCERTATO, MEGLIO INDAGARE SU PREZZI TUTTO GIÀ CHIARITO DA PARLAMENTO CON RELAZIONE COPACO
Al termine dell' audizione davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulla vicenda Mitrokhin, nel corso della quale l'ex presidente del Consiglio Massimo D'Alema si è rifatto alla "verità da tutti accettata in Parlamento" della relazione del Copaco sulla vicenda, il leader diessino si è detto "sconcertato". "Tutto è stato chiarito all' unanimità dal Parlamento, grazie alla relazione del presidente del Copaco, Franco Frattini, che fu approvata da tutti. Non c'è nulla da chiarire.
Si è cercato più volte di mettere in difficoltà con domande del tipo: 'Ma lei esclude...', 'ma lei può veramente dire che...', eccetera. Non capisco questo modo di agire. C'è da chiedersi se sia giusto impiegare tanto tempo dei parlamentari e le risorse dei cittadini per questo, oppure se non sarebbe meglio indagare, ad esempio, sull' aumento dei prezzi". MITROKHIN: D'ALEMA, PARLAMENTO HA GIÀ INDAGATO E CHIARITO È DIFFICILE AGITARE IL NULLA COME UNA CLAVA - "C'è stata già un'inchiesta del Parlamento, da parte del comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, che ha approvato all'unanimità una relazione preparata dal presidente Franco Frattini sulla vicenda. In quel documento c'è tutto quello che si può dire su questa vicenda, tutto quello che il governo ha fatto. Certamente il Parlamento è libero di approfondire, ma non riesco ad immaginare cosa ulteriormente si può acquisire in più rispetto a quello che si sa". Massimo D'Alema, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Mitrokhin, rinvia più volte al documento del Copaco approvato da tutti i rappresentanti dell'organismo parlamentare. "Se c'è qualcosa da chiarire io sono pronto", dice sottoponendosi al fuoco di fila delle domande dei commissari. Ma aggiunge subito: "Se vogliamo parlare della storia del Pci ci sono altre sedi. Una indagine di questo tipo deve essere condotta con un senso di rispetto verso le persone e le forze politiche per non ingenerare il sospetto che si vogliano mettere in giro 'dei fantasmi' o alimentare sospetti o nutrire la polemica politica quotidianà. Immediato l'intervento di Paolo Guzzanti che ha difeso la logica, anche politica, della commissione. "Nessuno ha mai usato la clava e se la vedessi alzare sarei il primo a farla depositare". Sarcastica la replica di D'Alema: "è difficile agitare il nulla come una clava". D'Alema ha ricostruito i vari passaggi della vicenda di cui venne informato, nel settembre del '99, dal vice presidente del Consiglio con delega ai servizi Sergio Mattarella. "Stava per uscire un libro in Gran Bretagna e pochi giorni dopo si ebbe la pubblicazione e la procura di Roma aprì un'indagine. Noi - ha spiegato l'ex presidente del Consiglio - decidemmo di non opporre il segreto di stato e di attivare le procedure per chiedere al servizio inglese se potevamo o meno, vista la riserva di segretezza assoluta che c'era sul materiale, consegnare il tutto alla magistratura, considerato che erano possibili eventuali azioni di controspionaggio. Alla fine decidemmo di inviare il tutto alla Commissione stragi perché esaminasse se vi erano nomi che avevano un qualche rilievo politico (sugli altri avrebbe dovuto naturalmente indagare la magistratura). La riservatezza fu totale e - ha detto sorridendo - tutto alla fine uscì sui giornali per intero. Secondo i servizi segreti - ha sottolineato più volte D'Alema - non vi erano elementi che potessero riguardare la sicurezza dello Stato, l'unica ragione per cui io potevo chiedere di poter visionare quel dossier. Mi sembra una condotta assolutamente chiara, lineare, chiara in sé". Il presidente dei Ds, nella sua audizione, ha sottolineato come il suo governo "si è trovato ad agire all'interno di una situazione determinata, con dei ben precisi vincoli che nascevano dalla 'riserva di segretezza assolutà che ci era stata posta dai servizi inglesi". D'Alema, che ha detto di non aver mai letto per intero il dossier Impedian e di aver appreso molti elementi della vicenda leggendo la relazione del Copaco sulla questione, ha sottolineato che da tutti è stata tenuta una condotta "appropriata e coerente così come detto dalla relazione Frattini. Tutti hanno avuto, anche in precedenza, una condotta sicuramente adeguata. Io mi sono trovato in una situazione diversa e ho cercato di fare quello che era ragionevole fare", ha detto alludendo all'esplodere del caso sui giornali. Elogi di D'Alema anche per i generali Battelli e Siracusa, già responsabili del Sismi. "Sono stati dei salvatori dello Stato. Sono degli ufficiali di grande valore, che godono la stima anche degli altri servizi, e non è una cosa facile, posso escludere nella maniera più assoluta che potessero negoziare favori con questo o quel politico". Più volte il presidente dei Ds ha ricordato che all'epoca vi erano ben altre priorità su cui era concentrata la sua attenzione e che d'altra parte i servizi segreti italiani hanno attribuito a questo materiale "uno scarso valore. Non aveva interesse per la sicurezza del paese se non per le ricerche giornalistiche che riguardavano il passato". Un momento di nervosismo in aula (dominata da una sorta di ironico fair play con molti 'prego', 'mi scusi', 'le pare', ecc.), si è avuto quando è stato ricordato a D'Alema che agli atti vi è una lettera che fa riferimento alla bozza del libro sul dossier Mitrokhin, pubblicato in Inghilterra dal professor Andrew, nella quale si chiedeva agli italiani di visionare la prima stesura e di apporre eventuali correzioni o revisioni. E dato che la bozza del libro non è allegata alla documentazione è stato chiesto a D'Alema se, prima del settembre '99, aveva saputo qualcosa di questa vicenda. "Se ho detto che ho saputo tutto nel settembre del '99 significa che sono stato informato in quella data", ha ribadito con voce piccata l'ex premier, sollevando le proteste di alcuni commissari. Veloce scambio di battute e D'Alema ha replicato: "Se mi si rifà una domanda io ripropongo la stessa risposta oppure state dicendo che ho detto il falso?". Rapido intervento di Paolo Guzzanti che ha chiarito così la questione. "La lettera dei servizi inglesi è del 29 aprile '98, prima quindi che entrasse in carica il governo presieduto da D'Alema. Non vi fu infatti - ha ribadito - nessun 'passaggio delle consegne' su questa vicenda tra i due presidenti del Consiglio e - ha aggiunto - sono ben lieto che ciò non sia avvenuto perchè sennò staremmo qui a parlarne per una settimana". MITROKHIN: D'ALEMA A FRAGAL, LA PERDONO - "Va beh! La perdono". È stato un duello costellato di gentilezze e battute quello fra Enzo Fragalà, capogruppo di An, e Massimo D'Alema, ascoltato oggi dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Mitrokhin. L'esponente di An ha "punzecchiato" D'Alema citando verbali, interviste, dichiarazioni, libri. Ad ogni contestazione D'Alema ha risposto con il suo tono ma punteggiando sempre le sue risposte con un "prego" a cui Fragalà rispondeva con un 'grazie". A volte le parti si sono invertite e nel momento di più grosso scontro fra i due, scontro sempre rimasto nell'ambito del 'savoir faire' parlamentare, a D'Alema è scappato un "va beh! La perdono". MORO: D'ALEMA, HAVEL RITENEVA SUO DOSSIER DI SCARSO INTERESSE LO HA DETTO DAVANTI ALLA COMMISSIONE MITROKIN - L'11 marzo del '99 l'allora presidente della Slovacchia Vaclav Havel confermò a Massimo D'Alema di aver consegnato nel settembre del 1990, durante il suo viaggio in Italia, un carteggio che doveva riguardare i servizi segreti dell'est e il terrorismo. Un cosidetto "dossier' di cui molto si è parlato nell'ambito della vicenda dell'omicidio di Aldo Moro perchè quelle carte, secondo alcune fonti, conterrebbero dei riferimenti o elementi riguardanti l'interessamento dell'est alle Br e all'omicidio Moro. D'Alema ha detto che Havel attribuiva a quelle carte "scarse interesse", giudizio che nasceva dal fatto che l'allora presidente slovacco non ricordava il contenuto di quel carteggio né a chi lo avesse direttamente consegnato. Incalzato, per chiarire se quella di Havel era una dichiarazione esplicita o se D'Alema avesse desunto questo giudizio da una più ampia conversazione, il presidente dei Ds ha detto che Havel non ricordava di cosa si trattasse e che questo lo portava a pensare che potesse essersi trattato di cose di scarsa importanza. D'Alema ha da principio contestato che questa domanda rientrasse tra i "compiti della commissione", ma poi ha confermato il succo del discorso fattogli da Havel. MITROKHIN: FRAGALÀ, I GRAVI ERRORI DI D'ALEMA - "Nelle sue due ore di mezzo di frasi mistificatorie e stizzite di fronte alla commissione Mitrokhin l'onorevole D'Alema è incorso in gravi errori". Lo afferma in una nota Enzo Fragalà, capogruppo di An nella commissione di inchiesta. "D'Alema -spiega- ha escluso che alcun membro del suo governo sapesse alcunché del dossier Mitrokhin. Peccato che il ministro degli Esteri era Lamberto Dini, già presidente del Consiglio durante la prima fase dell'invio delle schede dai Servizi inglesi al Sismi. E che, come confermato dallo stesso Dini in audizione, l'allora numero uno del nostro Servizio segreto militare, Sergio Siracusa, gli aveva mostrato le sette schede relative al Partito Comunista Italiano e all'onorevole Cossutta". Inoltre, aggiunge Fragalà, l'ex premier "si è trincerato tutto il tempo dietro alla relazione che nel 2000 il Copaco scrisse al termine di una inchiesta sulla gestione del dossier da parte del Sismi. Peccato che il Copaco sia stato del tutto fuorviato e preso in giro da Battelli e Siracusa, con false dichiarazioni ampiamente smentite dai lavori della Commissione. Faremo avere a D'Alema la lettera di scuse che Siracusa inviò alla Commissione per aver mentito".
4 Febbraio 2004 (Dagospia) - MORO PER SEMPRE -
UNA LETTERA A DAGOSPIA DI MARIA FIDA: «MI RIESCE UN PO' DIFFICILE RICONOSCERMI IN QUESTA VERSIONE DI FAMIGLIA NON INTERESSATA
AD UNA RICHIESTA DI RIAPERTURA DELLE INDAGINI SUL CASO MORO...» MARIA FIDA MORO SCRIVE A DAGOSPIA
«Dopo mesi di tira e molla, dopo vari sì, ni e no la mia famiglia (anche se mi riesce un po' difficile riconoscermi in questa versione di famiglia, perché non corrisponde più molto a quella che era e che ricordo con nostalgia) ha optato per un no definitivo. Non è interessata ad una richiesta di riapertura delle indagini sul caso Moro. Invece io sì, sono molto interessata a che questo avvenga.
Inoltre non mi sembra giusto vanificare le indagini e le ricerche di Ferdinando Imposimato e di Nino Marazzita (li cito in ordine alfabetico) che hanno speso tempo e si sono prodigati con pazienza e perseveranza alla ricerca di un'ulteriore porzione di verità.
Ritengo - e lo dico con forza - che questa richiesta di riapertura delle indagini sia un atto dovuto e sottolineo dovuto nei confronti della verità astratta e soprattutto nei riguardi della memoria di mio padre Aldo Moro. Mi spiace solo, pur nel rispetto della libertà altrui, che questo tendere alla verità non sia condiviso da altri che pure portano lo stesso cognome. Considero questa richiesta un gesto di affetto verso un uomo buono, giusto, innocente, mite ed amico (per dirla con Paolo VI) tradito ed abbandonato da tanti, da troppi che, senza vergogna, gli hanno voltato le spalle. La sua morte solitaria penderà ancora a lungo su questo paese facile all'oblio. Ho dichiarato più volte di essere disposta a perdonare, ma mai a dimenticare. Perché dimenticare vuol dire negare l'affetto, metterlo da parte. Accada quel che accada io non voglio essere annoverata tra coloro che hanno distolto lo sguardo. È ben presente in me la lunghissima agonia dei 55 giorni e non sarò io a fare finta di niente mentre si apre uno spiraglio - fosse anche minuscolo - verso una luce chiarificatrice. Anche se non si dovesse approdare a niente - e non sarà così - varrebbe comunque la pena di tentare, perché «ogni sincero tentare» (diceva non so quale Papa) è «sacro». La mia firma su questa richiesta sarà come un piccolo fiore di carta donato a mio padre e solo a lui. Un minuscolo niente testimone d'amore».
9 Febbraio 2004
Marazzita e Imposimato: «Stiamo lavorando ad una ricostruzione del Caso Moro completamente diversa...ancora non possiamo dire niente ma siamo vicini»
(Giornale di Brescia) Guzzanti: «Le BR erano il braccio armato del Kgb e dei servizi segreti cecoslovacchi»
IL SEQUESTRO MORO E GLI 007 DELL'EST COMUNISTA
In pochi giorni sono passati da Brescia, Agnese Moro, figlia dello statista democristiano assassinato dalle Brigate Rosse e il sen. Paolo Guzzanti, presidente della commissione Mitrokhin che indaga sul dossier delle spie italiane al soldo dell'Urss. Non si sono incontrati, li abbiamo messi di fronte, idealmente, l'una all'altro, comparando le riflessioni e le conoscenze sull'affaire Moro, con un'intervista finale al parlamentare. Senatore Guzzanti, Agnese Moro ci ha dichiarato di non credere, per un 'analisi logica, all'assalto sanguinario del 16 marzo 1978, in via Fani in cui vennero assassinati 5 agenti della scorta e Moro, illeso, venne portato via. Le Brigate Rosse non sarebbero state in grado di colpire in modo così professionale. «C'era uno del commando, che non parlava né francese, né inglese né spagnolo. Forse parlava una lingua slava. Del resto ci sono persone mai identificate, quel giorno. Sono note le coperture del Kgb nei confronti dei brigatisti arrestati recentemente in Algeria e anche nei confronti di Casimirri, ora ristoratore in Nicaragua, il quale partecipò, quella mattina, al sequestro di Aldo Moro». Come si comportò il Pci, allora, senatore Guzzanti? «Giorgio Amendola, dirigente del Pci, sapeva che le Brigate Rosse erano dirette dai servizi segreti della Cecoslovacchia e andò, ingenuamente, a protestare all'ambasciata di quel Paese. La vedova di Enrico Berlinguer, a sua volta, ha ammesso che suo marito sfuggì ad un attentato a Sofia, durante una visita ufficiale. Berlinguer seppe che il famoso zampino sovietico nel sequestro Moro altro non corrispondeva se non al fatto che le BR erano il braccio armato dei servizi cecoslovacchi e del Kgb, per controllare e provocare il Partito comunista italiano. Anche D'Alema, sentito alcuni giorni fa alla commissione Mitrokhin ha riconosciuto che Cacciapuoti, dirigente della Commissione centrale di Controllo del Pci, fu inviato da Berlinguer in Cecoslavacchia per chiedere la chiusura delle attività dei servizi cecoslovacchi e sovietici attraverso le Brigate Rosse». Senatore Guzzanti, si parlò della pista Cia, durante il sequestro Moro... «Fu una delle più superbe operazioni di disinformazione. I documenti del collega Molinari della Stampa, poi, dimostrano che la Cia, (presidenza Carter) ai tempi del sequestro Moro era a favore del compromesso storico, e tramite l'operazione denominata Spora, il Kgb costruì l'allusione prima e quindi infiltrò l'idea che Moro fosse stato sequestrato per un contrasto con Kissinger. Sono le menzogne mostruose del Kgb, della menzogna eretta a sistema, della criminalità organizzata del sistema sovietico. Non dimentichiamo che il direttorio del Kgb, che si occupava in Italia di mafia, era la stessa organizzazione della mafia russa». Senatore Guzzanti, cosa ci può dire del comunista Conforto, trovato nelle schede delle spie Mitrokhin? «Conforto appare chiaramente in una scheda Mitrokhin e fu un comunista seguace dell'ala dura di Pietro Secchia. Sua figlia Giuliana ospitò nella sua casa, i brigatisti Morucci e Faranda, al tempo del sequestro Moro. Nella stessa casa fu trovato il mitra Skorpion con cui fu assassinato Aldo Moro. Conforto, il padre, barattò la libertà della figlia consegnando Morucci e la Faranda alla polizia italiana. Mi piacerebbe sapere cosa sarebbe successo in Italia se il mitra con cui fu assassinato Aldo Moro fosse stato travato nella casa di un agente della Cia...»
23 febbraio 2004 (L'Espresso) - LA STRAGE DI VIA FRACCHIA
Brigate Rosse di sangue
Dopo 24 anni, ecco le immagini di una delle operazioni più tragiche della lotta al terrorismo. L'assalto al covo di via Fracchia e l'uccisione di quattro BR - di Antonio Carlucci
Ogni anno, a Natale, non si è mai scordato di mandare un biglietto di auguri al comando dei carabinieri di Genova. Giobatta Clavarino era un dirigente dell'Ansaldo ed era nella lista dei dirigenti di fabbrica che le Brigate rosse, colonna genovese, avevano deciso di eliminare. Anzi, era al primo posto di una lista di morte nel periodo più tragico vissuto dalla città. Tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Ottanta, nella stagione del terrorismo rosso che vede i brigatisti scatenarsi nella corsa all'omicidio, nel delirio assassino contro uomini normali e indifesi a cui di volta in volta attribuiscono il ruolo del rappresentante dì un potere che vogliono abbattere. A Genova, uccidono un sindacalista comunista, Guido Rossa, cervello lucido che ha capito quanto il virus brigatista avrebbe potuto danneggiare gli operai e ha pubblicamente testimoniato contro un propagandista del verbo bierre. 0 tre carabinieri di una pattuglia stradale, fucilati mentre prendono un caffè. Indicandoli poi in un volantino di rivendicazione come gli "obiettivi della campagna di annientamento delle forze della repressione". E nel resto d'Italia sparano alle spalle di un mite professore di diritto come Vittorio Bachelet solo perché occupa il posto di vice presidente del Consiglio superiore della magistratura o di Girolamo Minervini, magistrato e funzionario dello Stato responsabile del settore carceri.
Il dirigente Ansaldo Giobatta Clavarino è rimasto un obiettivo sulla carta solo perché una notte di marzo del 1980, quella tra il 27 e il 28, quattro brigatisti vengono uccisi nell'appartamento genovese dove vivono e che hanno trasformato nella più importante base a Genova. La mattina seguente, al massimo nel giro di tre giorni, era prevista ('azione contro il dirigente dell'Ansaldo di cui i terroristi conoscevano perfettamente abitudini e orari.
È una notte di puro terrore quella del 28 marzo per tutti coloro che abitano al numero 12 di via Fracchia e nelle immediate vicinanze. E lo si vede dalle foto d'archivio che "L'espresso" pubblica in queste pagine. Scattate poche ore dopo la tragedia, finite in coda al rapporto dei carabinieri sull'accaduto, e venute alla luce solo oggi. I documenti ingialliti dell'epoca fermano l'ora dello scontro armato alle 4,30, anche se ancora oggi qualcuno pensa che i fatti siano da anticipare di un paio di ore, anche se cambia poco la sostanza della vicenda. A quell'ora, recita la prosa burocratica dei carabinieri, tre uomini e una donna sono già morti, crivellati dai proiettili di mitra e di fucile a pompa di sette carabinieri, l'avanguardia dell'intero reparto antiterrorismo che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha costruito a Genova. E un sottufficiale dell'Arma è su una ambulanza gravemente ferito da una pallottola calibro nove che gli ha centrato l'occhio. Tutto si svolge sulla linea di tiro tracciata dal lungo corridoio di un appartamento al primo piano di via Fracchia, le cui finestre si affacciano su un giardino in mezzo alle case dell'Oregina, il popolare quartiere che da Genova si allunga verso Sampierdarena. Qualla casa è esattamente a un paio di centinaia di metri dal luogo dove solo un anno prima è stato ucciso Rossa.
In via Fracchia i carabinieri di Dalla Chiesa arrivano partendo dal racconto di un uomo che ha poco più di 30 anni. Si chiama Patrizio Peci, è un brigatista, appartiene alla colonna torinese, quella che sogna di vedere sventolare la bandiera rossa con la stella a cinque punte sugli stabilimenti del 1980, il 27 per l'esattezza, viene individuato e arrestato. Su Peci fioriranno ipotesi di tutti i tipi, alimentate da tre diversi carburanti: l'ignoranza sul fenomeno terroristico, il tentativo di placare la sete di conoscenza individuando dietro ogni episodio un grande architetto-burattinaio, il controproducente alone di mistero che gli investigatori mettono su qualsiasi aspetto del loro lavoro, anche il più banale. Dunque, su Peci si adombra il dubbio che sia stato già arrestato mesi prima e che sia stato reinfilato nelle Bierre per distruggerle dall'interno, portando con sé anche una vera e propria licenza di uccidere, visto il numero di delitti commessi in prima persona. Qualcuno sussurra anche che Peci sia in realtà un carabiniere che ha accettato la rischiosa missione di trasformarsi in terrorista.
Al brigatista che è al vertice della colonna torinese accade invece qualcosa di più banale. Una volta in manette capisce che il suo sogno-incubo è finito. E, per interesse o per un ritorno intellettuale alla realtà non importa, decide di raccontare se stesso e i suoi compagni di avventura. È la prima volta che un pezzo grosso del terrorismo brigatista passa dall'altra parte della barricata. Tra l'altro racconta che qualche mese prima è andato a Genova per una riunione con i capi della colonna di quella città. Ricorda una via stretta, un appartamento su un giardino, di cui è titolare una donna che non vive la clandestinità, sconosciuta agli investigatori. Descrive i luoghi e la ragazza. Si sforza di ricordare il nome e ci riesce: Fracchia. Michele Riccio è a quel tempo un capitano dei carabinieri che molti anni più tardi smarrirà le regole di vita del servitore dello Stato: a furia di inseguire prima brigatisti, poi mafiosi, quindi trafficanti di droga, finirà per scambiare il giorno con la notte, la legalità con l'illegalità, impigliandosi in una storia (ancora da chiarire in tribunale) che vede il suo reparto giocare allegramente con informatori e partite di stupefacenti. E romperà uno dopo l'altro i rapporti con gli altri uomini del nucleo storico di Dalla Chiesa, presentandoli come fossero quelli che gli hanno stroncato la carriera. Uomo d'azione, ben visto dal generale Dalla Chiesa che lo arruola nella sua struttura, Riccio è il capo cacciatore dei brigatisti genovesi e risponde di ogni sua azione all'allora colonnello Nicolò Bozzo e al generale in persona. Prende le parole di Peci e comincia a filare la lana. Passa via Fracchia al setaccio. Poi va al catasto a vedere le case che corrispondono alla descrizione di Peci. Quindi, si mette sulle tracce di una donna che vive sola.
II sentiero giusto lo imbocca rivolgendosi al prete della parrocchia dell'Oregina: che lo introduce ad alcune anziane signore. Ce ne è una che parla a Riccio di una brava ragazza che vive sola in un appartamento al primo piano di via Fracchia. Tante cose vanno al posto giusto, ma la strada, a gomito che finisce in una curva stretta, è assai diversa da come l'ha descritta Peci. Siamo agli albori delle tecniche di investigazione antiterrorismo, non ci sono visori notturni, microspie da infilare nell'appartamento sospetto. E poi preme su tutto la paura di Dalla Chiesa che si sappia che Peci sta vuotando il sacco con il risultato che le Bierre potrebbero mollare tutte le basi considerate ancora sicure.
Viene dato l'ordine di intervenire l'ultima settimana di marzo. Disposizione che riguarda anche il Piemonte, la Lombardia e il Veneto. Riccio prepara l'operazione notturna. Circonda la casa, si avvicina al portone del numero 12. Ancora oggi non si sa se i carabinieri avessero le chiavi del portone e se invece sia reale la storia che il capitano suona il citofono della signora conosciuta in parrocchia e alla quale ha detto che forse un giorno l'avrebbe disturbata di notte perché cercava droga. Entrano in sette, tre davanti, Riccio in mezzo, tre dietro a coprire. Recitano i rapporti poi consegnati alla magistratura: Riccio che bussa ordinando di aprire, le serrature che si chiudono, il maresciallo Rinaldo Benà che a spallate sfonda la porta, le grida nel buio, il primo sparo poi l'inferno di raffiche. Quando le armi tacciono ci sono cinque corpi in terra. Fuori dall'appartamento, il sottufficiale dei carabinieri. Dentro, in fila nel corridoio della morte, tutti a faccia in giù in una pozza di sangue: Lorenzo Betassa, l'unico vestito in jeans e maglietta rossa, senza calze, una sola scarpa calzata, della colonna torinese e in trasferta; Riccardo Dura in mutande e maglietta, il capo dei terroristi genovesi, uno al quale dopo la morte molti compagni attribuiscono storie di ferocia sadica per trattenere i dubbiosi e marchiare per sempre gli ultimi arruolati con un delitto; Piero Panciarelli, anche lui arrivato fresco da Torino, uno che fino a qualche mese prima era un illustre sconosciuto se non avesse perso i suoi documenti originali in azione; Anna Maria Ludmann, la ragazza insospettabile, è l'ultima delle vittime di via Fracchia, di traverso nel corridoio, una bomba a mano tra la testa e un braccio.
Nelle stanze c'è la fotografia dell'organizzazione brigatista. Montagne di schede personali, possibili obiettivi, molti generici, alcuni drammaticamente veri per gli appunti sulle abitudini di vita che portano a inchieste sul campo come quella sul dirigente Ansaldo; armi, tante, pistole e mitra; parrucche. E documenti firmati Brigate rosse, volantini e risoluzione strategiche che raccontano i passi di una rivoluzione immaginata a tavolino e portata avanti uccidendo dei poveracci che l'irrealtà del vivere brigatista ha trasformato in rappresentanti della controrivoluzione.
Quello che accade la notte del 28 marzo a Genova segna per tanti aspetti una svolta nella lotta al terrorismo brigatista. Pur non essendo ancora di pubblico dominio la scelta di una capo come Peci di collaborare, si capisce che lo Stato ha trovato una strada, riesce a individuare uomini e basi delle Brigate rosse e a intervenire. E che guardando dentro ai piccoli comportamenti e alla storia personale di ciascun componente della formazione terroristica è possibile afferrare il loro modo di pensare e agire. Scrive il 29 marzo 1980
sul "Corriere della Sera" Walter Tobagi, uno dei cronisti del terrorismo che più si è sforzato di ragionare e che solo pochi mesi dopo paga con la vita, ucciso dagli emuli milanesi delle Bierre, la banda 28 Marzo di Marco Barbone: "E così il mito dell'imprendibile colonna genovese, il nucleo di acciaio delle Brigate rosse ha subito un colpo durissimo. E l'ha subito in quella strada di Oregina dove un commando aveva teso l'agguato a Guido Rossa, il sindacalista dell'Italsider che osò denunciare Francesco Berardi, postino in fabbrica delle Bierre. Non tutto si può ridurre a simbologia, ma non si può nemmeno sfuggire alle coincidenze, ancora una volta impressionanti".
Sono passati quasi 24 anni, un quarto di secolo, da quel giorno. Nella vita italiana ci sono ancora le Brigate rosse, nulla in confronto a quegli anni, ma sempre una metastasi che si riproduce e ancora capace di uccidere innocenti simboli: il poliziotto ferroviario Emanuele Petri solo perché si è imbattuto per caso in due terroristi su un treno o il professor Marco Biagi, scelto come bersaglio solo perché studioso appassionato del mondo del lavoro e deciso riformatore delle relazioni di fabbrica e di ufficio.
Ventiquattro anni dalla notte terribile di via Fracchia. Con la versione ufficiale dei carabinieri divenuta storia e i dubbi che possono sempre essere avanzati rimasti ancora tali. Come ha fatto, poco meno di due anni fa, proprio Patrizio Peci, tornato a vita normale, una moglie, due figli grandi, un piccolo ristorante. A Giuseppe D'Avanzo di "Repubblica" che gli chiedeva se i quattro bierre furono uccisi a sangue freddo nel sonno e se ne avesse mai parlato con Dalla Chiesa, l'ex brigatista ricorda così il giorno dopo via Fracchia - "Ne parlai sì. lo conoscevo i quattro di via Fracchia, erano miei amici. Il generale giurò che i miei compagni avevano sparato subito per uccidere. "I carabinieri non potevano fare altro", disse. Io sapevo che cosa succede in quei momenti, come può lavorarti la paura. Tu hai paura e anche l'altro ha paura. C'è un solo modo per affrontarla. Sparare e sparare. È quello che deve essere accaduto. Difficile dire come siano andate veramente le cose. Io so soltanto che Dalla Chiesa non aveva nessun interesse a forzare la mano. Non era quella la strada per piegare le Brigate rosse. Il generale sapeva che gli arresti, e non i morti, provocavano nell'organizzazione lo sbandamento psicologico che l'avrebbe portata alla fine".
24 febbraio 2004 (Repubblica.it) - Ferrari, l'ultimo degli irriducibili, 30 anni in cella senza permessi
Condannato per il sequestro Sossi, non per fatti di sangue
ROMA - Trent'anni di carcere senza un permesso, una visita di un parente o un amico, un giorno di semilibertà, senza nemmeno un avvocato. Da 10 mila 950 giorni Paolo Maurizio Ferrari è sepolto vivo dietro le sbarre di un carcere: pochi si ricordano del primo brigatista arrestato il 27 maggio del 1974 dalla polizia del governo di Mariano Rumor, talmente pochi che di quell'irriducibile è difficile pure sapere in quale carcere è rinchiuso.
Ferrari era uno dei fondatori delle Brigate Rosse, del gruppo dei Curcio, dei Franceschini, di Mara Cagol. Il brigatismo degli albori che sequestrava i "capetti" delle fabbriche e che compì come azione più clamorosa il sequestro del giudice Sossi. Un brigatismo che, quando Ferrari varcò il portone di un carcere, ancora non aveva ucciso nessuno. Ed infatti all'ex operaio modenese non vengono imputati fatti di sangue ma la partecipazione al sequestro Sossi.
Quando è entrato in carcere l'Italia era un'altra; c'era l'austerità, il referendum sul divorzio, le bombe sui treni. La Democrazia Cristiana governava incontrastata e il Pci aveva da poco eletto Enrico Berlinguer alla segreteria mentre Craxi era ancora un oscuro funzionario del Psi. Un'Italia che Ferrari aveva scelto di combattere armi in pugno e che, da quando lesse il famoso proclama dalle sbarre dei detenuti al processo di Torino, non conosce più. L'Italia di oggi non l'ha mai vista e nessuno gliel'ha neppure raccontata, dato che in questi 30 anni da "sepolto vivo" non ha ricevuto neanche una visita di parenti e amici che non ha.
Quest'anno scade la sua pena e Ferrari potrebbe tornare in libertà. Forse, ma ancora è certo. Nel suo caso l'unica certezza è quella della pena: è stato il primo brigatista ad entrare in carcere e l'ultimo che ne uscirà senza avere mai passato anche un solo giorno fuori, pur non avendo commesso alcun reato di sangue.
Il primo ad essere arrestato quando le Br erano ancora alle origini e forse l'unico detenuto in Italia che abbia scontato 30 anni di carcere senza esserne mai uscito neppure una volta, né beneficiando del lavoro esterno, né in semilibertà. Mai, così almeno risulta al presidente dell'associazione "A Buon Diritto" Luigi Manconi, che nel '99 presentò un'interrogazione al ministro Diliberto per un presunto pestaggio nel carcere di Novara del brigatista modenese. Da allora sulla sorte di Ferrari è calato il silenzio.
Oggi ha 58 anni, ha passato l'infanzia in comunità senza aver conosciuto i genitori. Operaio a Torino nel '69, poi fondatore e membro del nucleo storico delle Br, da allora Ferrari è rimasto un "irriducibile" ignorato dal mondo e prigioniero anche della propria ostinata coerenza di "rivoluzionario" che lo ha spinto a non "scendere a patti con lo Stato" e a rifiutare perfino l'avvocato d'ufficio.
Senza famiglia e dimenticato dietro le sbarre da tutti, per lui quest'anno potrebbero finalmente spalancarsi le porte del carcere. Ma quale? Dopo aver peregrinato da un supercarcere all'altro fra rivolte e proteste carcerarie, non si sa con certezza se sia ancora a Novara o in qualche altro penitenziario. E a sentire Alberto Franceschini, sulla libertà del suo vecchio compagno non è neppure detta l'ultima parola: "Proprio perché non ha un avvocato non ha mai fatto domanda per il cumulo della pena e quindi non ha diritto a sconti, affidamenti o altri benefici di legge. Potrebbe sommare 80 anni di carcere senza che nessuno intervenga. Quindi non è detto che esca".
Franceschini azzarda anche l'ipotesi che a questo punto sia lo stesso Ferrari a non voler più uscire dal carcere, lasciando quello che ormai è il suo mondo per un altro in cui non troverebbe più niente e nessuno di quelli che ha lasciato: "Sono purtroppo convinto che non voglia uscire. Dopo 30 anni di carcere l'ideologia diventa un alibi e intorno al suo ruolo politico di rivoluzionario irriducibile Ferrari ha costruito le sue abitudini. Anche il carcere diventa un'abitudine. Temo che si sentirebbe spaesato, non sarebbe più nulla. Per questo dico che potrebbe essere il primo a voler restare in carcere".
All'appello di Franceschini ha risposto Katia Zanotti, parlamentare bolognese dei Ds impegnata sul fronte dei diritti dei detenuti, che ha annunciato un'interrogazione per saperne di più: "Il caso di Ferrari non lo conoscevo e, come faccio per tanti altri detenuti, andrò a trovarlo in carcere per sentire da lui cosa l'aspetta e cosa pensa".
24 febbraio 2004
(ANSA) MORO: COSSIGA, CONFORTO DENUNCIO' MORUCCI E FARANDA SPIA DEL KGB CONTATTÒ MASONE ALLORA CAPO SQUADRA MOBILE
- Fu Giorgio Conforto, uno dei principali agenti del Kgb operativi in Italia, a denunciare Valerio Morucci e Adriana Faranda, che avevano abbandonato le Br e a farli arrestare. È Francesco Cossiga che "lascia capire" questa importante rivelazione durante la sua audizione davanti alla commissione Mitrokhin, Conforto fu per molti anni un agente operativo del Kgb. Cossiga svela: "una volta saputo che Morucci e Faranda erano in casa della figlia, Conforto contattò Masone e attraverso Masone li fece arrestare. Adriana Faranda oggi è divenuta una mia cara amica e insieme andremo in una trasmissione a spiegare quegli anni tremendi".
(L'Opinione) MITROKHIN: COSSIGA - Cossiga: "Botteghe Oscure era finanziata dal Kgb" di Aldo Torchiaro
Il Partito Comunista Italiano è stato finanziato, per esplicita ammissione dei suoi stessi amministratori, da fondi provenienti dall'Unione Sovietica. Quello che la Commissione Mitrokhin deve adesso stabilire con precisione è la complicità esistente tra il Kgb e lo stesso Pci: come i soldi che provenivano da Mosca influenzavano le scelte strategiche del primo partito della sinistra italiana, quali connessioni esistessero tra le due strutture e perché questa pagina di storia fatichi così tanto a chiarirsi. L'occasione del chiarimento la si avrà oggi stesso, quando il Presidente emerito Francesco Cossiga, ispiratore della commissione medesima, parlerà in audizione nella Mitrokhin.
Difficile avere un'idea di quanto potrebbe emergere, essendo Cossiga una inesauribile fonte di notizie ed un impressionante conservatore di memorie. Il presidente tirerà in ballo probabilmente la vicenda della misteriosa offerta di fondi avanzata nel 1991 al Pds, della quale potrebbe essere chiamato a rispondere direttamente Massimo D'Alema. Di cosa si tratta? Tutto nasce quando il 28 novembre 1991 il Cossiga allora presidente della Repubblica scrisse al presidente del Consiglio Andreotti una missiva riservata a proposito di una informativa dell'ambasciata italiana a Mosca.
Cosa conteneva quell'informativa? Una verità imbarazzante: i servizi segreti sovietici avevano saputo che dopo il fallito tentativo di colpo di stato di Gorbaciov, lo stesso Kgb che aveva finanziato quel golpe aveva anche organizzato il riciclaggio di un'impressionante somma di denaro. I fondi segreti del Kgb dovevano essere "lavati" attraverso il finanziamento delle attività di alcuni partiti nell'orbita comunista in Europa, e allo scopo venne contattato il Pds. Benché lo strappo della Bolognina fosse stato abbondantemente consumato già da due anni, il riferimento italiano del Kgb risultava dunque la medesima, inossidabile istituzione di sempre. Botteghe Oscure.
I soldi vennero offerti, su questo vi è l'ammissione di D'Alema registrata formalmente nell'aula della commissione Mitrokhin. Ma vennero, a onor del vero, rifiutati. D'Alema nel 1991 declinò l'offerta inviando a Mosca un suo uomo di fiducia per ringraziare, con garbo, e chiudere lì il caso. Interrogato sul perché non decise mai di farne parola, D'Alema si giustificò dicendo che in assenza di reato, non vi erano gli estremi per ricorrere alla magistratura. Rimane il dato politico di come il Kgb abbia pensato, per la sua "proposta indecente", di dover avvantaggiare nel 1991 una forza della sinistra italiana come il Pds, mentre non si conoscono le possibili analogie che il caso potrebbe potenzialmente riservare: in altri paesi europei si sono avanzate proposte dello stesso tipo ad altri partiti, e se sì in quali paesi?
In Italia solo il Pds è stato oggetto del corteggiamento del Kgb, o anche altre forze politiche, più marcatamente marxiste e filosovietiche, hanno ricevuto simili profferte? Curiosità giornalistiche ancora non soddisfatte. Neanche il carteggio segreto tra Cossiga ed Andreotti esplora queste possibilità. Vi si trova però traccia di come il 21 gennaio 1991 il Sismi segnalò "l'ingresso in Italia di un membro della direzione del partito comunista cecoslovacco" insieme a "due agenti del disciolto servizio segreto Stb che avevano operato in Italia sotto copertura diplomatica". L'ipotesi del Sismi è che i due agenti segreti avevano dato vita alla cosiddetta "rete Orfei", quella che teneva insieme esponenti politici, giornalisti e presidenti di centri studi in contatto con le istituzioni dell'ex Pci.
Su questo punto Cossiga, che è tornato in questi giorni più attivo che mai, lancia il suo affondo ai Ds: "Considero estremamente grave, ed incomprensibile, che nel nostro paese si possano essere svolte attività come quella confessata, senza che se ne sia parlato alle autorità. Non deve essere preso per normale che, a conoscenza di tali fatti, l'onorevole D'Alema abbia deciso di risolvere poi la questione in forma privata, mandando un emissario a Mosca, senza darne alcuna notizia alle autorità italiane". L'appuntamento è per oggi, quando Cossiga, c'è da scommetterci, si scatenerà davanti alla commissione Mitrokhin.
(ANSA) MITROKHIN: RINVIATA AL 5 DI APRILE L'AUDIZIONE DI PRODI
Per i concomitanti impegni legati alla carica di presidente della Commissione Europea l'audizione di Romano Prodi davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla vicenda Mitrokhin è stata rinviata al 5 di aprile. La precedente data era il 10 di marzo. Ad annunciarlo è stato il presidente della commissione di inchiesta, il sen. Paolo Guzzanti (Fi) aprendo l'audizione dell'ex presidente della repubblica Francesco Cossiga.
(ANSA) MITROKHIN: COSSIGA, KGB INFILTRÒ SUE SPIE NEL PCI PECCHIOLI CHIEDEVA AIUTO A ME
Il Kgb infiltrò suoi uomini nel Pci, nel Psi e nei principali sindacati italiani. Alcune volte lo stesso Pci, e in particolare Ugo Pecchioli, allora ministro dell'Interno ombra del partito, si rivolge a Francesco Cossiga, al tempo presidente della Repubblica, per "avere informazioni" sugli infiltrati sovietici. È lo stesso Cossiga a raccontare, davanti alla commissione Mitrokhin, questo "spaccato riservato" della storia recente della nostra repubblica.
"Qualche volta è venuto da me Pecchioli per chiedermi un aiuto - ha raccontato l'ex Capo dello Stato - Io gli dissi che non potevo infiltrare uomini degli Affari Riservati o del Sid nel Pci perché se si fosse scoperto avremo fatto una brutta figura sia io che lui. Mi riservai di segnalargli una necessità: quella di stare molto attenti alle ditte di pulizie che intervenivano dopo le riunioni della direzione o di altri organi competenti. Gli segnalai anche una ditta privata che effettivamente 'ripuli" da cimici i locali del Pci a Botteghe Oscure".
Cossiga ha detto che nel dossier Mitrokhin c'è un po' di tutto ma che gli inglesi lo ritengono il "più alto contributo" dato da un defezionista sovietico alla conoscenza della rete occidentale del Kgb. Tuttavia l'ex capo dello Stato ha sottolineato che nel dossier Mitrokhin ci sono anche nomi di ubriaconi, curiosi, millantatori, chiacchieroni, sbruffoni e anche molti "informatori inconsapevoli" come ad esempio Josef Strauss, il leader della Cdu bavarese noto per le sue posizioni di destra che amava le donne e l'opera lirica e veniva accompagnato a Lipsia da agenti della Ddr che gli carpivano regolarmente notizie. Cossiga ha anche raccontato che quando era presidente della Repubblica chiamò Pecchioli per invitarlo ad una maggiore cautela nell'uso delle linee riservate che qualche esponente del Pci faceva con l'ambasciata sovietica a Roma. "Io gli dissi di invitare qualche suo collega ad una maggior cautela perché qualcun altro, leggendo o avendo riferimenti su quello che veniva detto in quelle conversazioni poteva avere un atteggiamento ben diverso dal mio, direi malevolo". Cossiga ha anche ricordato che i soldi che il Pci riceveva dall' Urss venivano cambiati dagli stessi cambiavalute utilizzati dalla Santa Sede.
(ANSA) MITROKHIN: COSSIGA, COSSUTTA VOLEVA CHE GUIDASSI COMMISSIONE
Storicizzare i fatti: Francesco Cossiga, davanti alla commissione Mitrokhin rivendica questo approccio con il nostro recente passato e con i problemi legati alla rete sovietica in Italia. L'ex presidente della Repubblica, all'inizio della sua audizione davanti alla commissione stragi torna su un elemento già noto ma che Cossiga vuole sottolineare proprio per rimarcare l'esigenza di contestualizzare fatti, avvenimenti ed anche l'agire degli uomini. Quando si cominciò a parlare di una commissione di inchiesta sul dossier a patrocinare la sua candidatura alla guida dell'organismo bicamerale d'inchiesta furono Armando Cossutta e Oliviero Diliberto. Secondo loro infatti era opportuno fare chiarezza sulla vicenda ed io, secondo il loro giudizio, ero la persona più adatta, più idonea, in quanto come avevo dimostrato quando ero stato ascoltato dalla commissione stragi, avevo la capacità di storicizzare i fatti. Ma Cossiga ricorda anche che "dall'interno della coalizione venne posto il veto, fatto proprio da D'Alema, alla mia nomina. E così, fortunatamente per me, non se ne fece nulla". Cossiga ha ricordato anche di avere inviato una lettera aperta all'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema, una lettera rifiutata dal Corriere della Sera perché giudicata troppo lunga. "Allora io chiamai l'amministratore della Rcs e mi comprai mezza pagina. L'ho pagata 42 milioni, con regolare fattura che mi è arrivata a casa. Volevo dire liberamente quello che dovevo dire su certe cose a D'Alema e a tanti altri".
(ANSA) MITROKHIN:COSSIGA,SEPPI DI DOSSIER LEGGENDO GIORNALE INGLESE
"Seppi del dossier Mitrokhin leggendo il supplemento culturale di un giornale britannico. Poi ho appreso che sarebbe stato pubblicato un libro". Francesco Cossiga, durante la sua audizione alla commissione Mitrokhin, chiarisce di non avere grandi retroscena da raccontare sulla vicenda dell'archivista del Kgb.
"Sono un dilettante dei servizi, ma un professionista di poker", aggiunge ridendo. Ma nessun dubbio sulla schiettezza e importanza di quelle carte: "Mitrokhin non era nessuno, non sapeva bene neanche quello che scriveva, che copiava. Lui si rivolse per primo agli Stati Uniti e credo che il rappresentante della Cia a Mosca che bocciò quelle carte oggi non se la passi proprio bene. Ma la Gran Bretagna lo considera un grande contributo. Attraverso Mitrokhin fu scoperta la principale spia sovietica che ha agito per molti anni in Inghilterra. Nulla da scandalizzarsi se si storicizza - sottolinea Cossiga - anche i finanziamenti sovietici al PCI, attraverso il Kgb, li conoscevamo "in ogni dettaglio". Nota anche la Gladio rossa, "ampiamente tollerata" perché sapevamo bene che, pur addestrata da uomini del Kgb, serviva a "filtrare dirigenti comunisti in caso di colpo di stato". "Quando cadde il muro di Berlino - dice tra l'altro il Presidente emerito della Repubblica - era dell'idea che bisogna fare 'pari e pattà. Presentai anche una proposta di legge perché l'Italia si adeguasse alla normativa di altri paesi e cioè il governo a decidere se si deve perseguire una spia oppure la si può scambiare con altre spie. Fu Violante a bloccare la mia proposta e non seppi spiegargli la ragione quando da me venne a chieder lumi l'allora ambasciatore sovietico Adamishin".