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Roberto bartali.it

Marzo 2004

5 Marzo 2003 (Corriere della Sera): A Parigi torna il parallelo tra Brigate rosse e Resistenza -

C'è voluto lo storico Marc Lazar, ieri su Le Monde , per ricordare che «l'Italia degli anni Settanta è rimasta una democrazia, senza dubbio incompleta e imperfetta, ma che non è caduta nella trappola fatale tesa da quelli che volevano distruggerla». Il tono di appelli e petizioni a favore di Cesare Battisti, lanciati nelle ultime settimane da scrittori e intellettuali sulla stampa francese, è sembrato invece abbracciare una delle tesi fondamentali dei brigatisti: la lotta armata come prosecuzione della Resistenza. In questa visione romantica, i rifugiati in Francia - come Battisti - sono spesso diventati «vittime» degli anni di piombo, proprio come gli antifascisti riparati a Parigi lo furono di Mussolini. Su Libération del 13 febbraio, pochi giorni dopo l'arresto, lo scrittore Jean-Bernard Pouy scrive che «le azioni cieche della giustizia berlusconiana ricordano gli anni in cui la camicia nera era il massimo della moda transalpina. Ma non si tratta più d'olio di ricino e di esilio nelle Eolie, ora in ballo c'è l'ergastolo di Battisti». Didier Daeninckx, scrittore nella «Série Noire» di Gallimard, sul quotidiano comunista l' Humanité vede un legame tra «Victor Hugo, Cesare Battisti e Benito Mussolini». Il primo, in esilio dopo la Comune di Parigi del 1871, disse: «Tornerò quando sarà ritornata la libertà». Daeninckx prosegue con l'accostamento: «Per condannare Battisti, i giudici hanno usato un Codice penale che ancora oggi porta il nome di Rocco, nel 1930 ministro della Giustizia di Mussolini. L'erede di Rocco si chiama Castelli». Sullo stesso giornale, si legge che Battisti sarebbe stato condannato nel 1987 da un inesistente «tribunale militare speciale, riservato ai militanti dell'estrema sinistra». Anche il celebre Daniel Pennac ha evocato nella sua «lettera a Cesare Battisti», pubblicata su Le Monde , la Comune di Parigi e la rapida amnistia (dopo solo nove anni) dei condannati. Oggi invece, prosegue Pennac, «chi ci governa crea le condizioni di disperazione che hanno gettato nella lotta armata l'adolescente che lei era, Battisti, negli anni Settanta». Alcuni protagonisti italiani di quegli anni - da Oreste Scalzone a Erri De Luca - hanno scritto ai giornali francesi in difesa di Cesare Battisti e di tutti i rifugiati. Influenzando troppo - secondo il Figaro - il dibattito nella sinistra francese. Il segretario del partito socialista François Hollande ha persino visitato Battisti in carcere. «Battisti sarebbe dunque un combattente della libertà - ha commentato il quotidiano filogovernativo in prima pagina -, consegnato agli sgherri di un dittatore». Tra le poche voci dissonanti sulla stampa non di destra, il direttore dell' Express , Denis Jeambar. «Qualsiasi cosa si possa pensare di Chirac, denunciare come ha fatto Philippe Sollers "lo spirito di vendetta di un capo di Stato imbroglione" contro un "rivoluzionario" spacciato come vittima, fa venire la nausea». freccia rossa che punta in alto

5 Marzo 2003 (Corriere della Sera): A Parigi torna il parallelo tra Brigate rosse e Resistenza -

(ANSA) - È uscito stamani per l' ultima volta dal carcere di Marassi l' ex brigatista rosso Rocco Micaletto, che ha beneficiato della liberazione condizionale prevista per i detenuti che si ravvedano. L' ordinanza, depositata ieri dal presidente del tribunale di sorveglianza Lino Monteverede, come ha anticipato stamani il Secolo XIX, è divenuta oggi esecutiva. Micaletto, condannato a tre ergastoli ed ex componente della direzione strategica delle Br, godeva già da alcuni anni della semilibertà. Usciva al mattino per lavorare nella cooperativa sociale Villa Perla service e per prestare opera di volontariato nella comunità di San Benedetto al porto di don Andrea Gallo e rientrava alla sera. Da oggi non dovrà più tornare dietro le sbarre. Riservato e schivo, Micaletto ha affidato al suo avvocato, Fabio Taddei, il compito di esprimere la sua soddisfazione. "Non solo per la positiva soluzione del suo caso - sottolinea il legale - ma anche perché è stato attuato il principio costituzionale sul carattere rieducativo della pena". Rocco Micaletto sarà in libertà vigilata per i prossimi cinque anni e sarà sottoposto ad una serie di prescrizioni che saranno successivamente fissate dal tribunale. L'ex brigatista, che ora ha 58 anni, ha una compagna e probabilmente andrà a vivere da lei. Micaletto, arrestato nel 1980 a Torino dai carabinieri del generale Dalla Chiesa, ha scontato 24 anni di carcere. La legge prevede che la libertà condizionale possa essere concessa dolo dopo che si siano scontati almeno 26 anni. Grazie alla sua condotta irreprensibile in carcere, però, l' ex terrorista ha beneficiato di uno sconto di circa duemila giorni di pena. "È come se avesse scontato 29 anni - spiega l' avv. Taddei - e pertanto ha potuto ottenere subito la libertà condizionale". "È molto contento del lavoro svolto in carcere - prosegue il legale - ed il tribunale ha riconosciuto che Micaletto è radicalmente cambiato". Rocco Micaletto già questa mattina si è presentato negli uffici del tribunale di sorveglianza per svolgere gli adempimenti burocratici e per conoscere le prescrizioni decise dai giudici per la libertà vigilata.
"Sono molto soddisfatto di questa decisione - ha detto Micaletto al suo difensore, avv. Fabio Taddei - non solo per me, ma per le motivazioni dell' ordinanza, che potranno valere anche nei confronti di altri detenuti. Sono stati infatti applicati principi costituzionali in cui credo, primo fra tutti il carattere rieducativo della pena".
Nell' ordinanza infatti è stato evidenziato che "nell'istituto della liberazione condizionale, per la sua ormai realizzata costituzionalizzazione, la logica rieducativa prevale sulla logica punitiva" Micaletto, che per il suo carattere riservato preferisce raccontare le sue emozioni tramite il difensore, desidera ora reinserirsi completamente e a tutti gli effetti nella società, cosa che ha già iniziato a fare dal 1998, quando ottenne il regime di semilibertà. In questi anni intanto, in regime di semilibertà, si è dedicato al volontariato presso la Comunità di San Benedetto di Don Andrea Gallo, e lavora presso la Cooperativa Villa Perla Service, all' interno della quale "ha operato e continua ad operare - è scritto nell' ordinanza - con serietà e professionalità, dimostrando correttezza e disponibilità sia con i colleghi e con gli ospiti dell' istituto". freccia rossa che punta in alto

TERRORISMO: MICALETTO, DAL SEQUESTRO MORO ALLA LIBERTÀ ERA NELLA DIREZIONE STRATEGICA CHE REALIZZÒ IL RAPIMENTO

Era nella direzione strategica delle Br che nel '78 progettò e realizzò il sequestro Moro. Venne catturato a Torino all'inizio del 1980, ma la sua latitanza iniziò molto prima, nel '74, quando la magistratura spiccò contro di lui il primo mandato di cattura, che riguardava il sequestro del giudice genovese Mario Sossi. Oggi Rocco Micaletto, a 58 anni torna in libertà, dopo 24 anni di carcere.
Nato a Taviano, nel leccese, nel '46, Micaletto si trasferì, ancora ragazzo, a Torino, dove lavorò alla 'Fiat-Rivaltà. Fu lì che divenne rappresentante sindacale della Cisl, dalla quale fu però espulso nel '73 "per incapacità e mancanza di serietà verso l'organizzazione e i suoi aderenti". Gli investigatori iniziarono a sospettare sin dall'inizio degli anni '70 che Micaletto appartenesse alle "Brigate Rosse". Un sospetto divenuto realtà nel '74 quando venne colpito da diversi mandati di cattura e iniziò la sua latitanza. Micaletto divenne uno dei capi della colonna genovese delle br ed entrò poi a far parte della direzione strategica, che decretò il rapimento e la morte dello statista Aldo Moro. Assieme a lui, Mario Moretti, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli. Micaletto, negli anni, è stato condannato con sentenze definitive per numerosi omicidi (tra i quali, quelli del sindacalista Guido Rossa, dei carabinieri Vittorio Battaglini e Mario Tosa e dell'appuntato Antonino Casu), varie rapine e sequestri di persona, come quelli del dirigente dell'Ansaldo Vincenzo Casabona e dell'industriale Piero Costa. Il 24 gennaio del 1983, è stato condannato dalla Corte di Assise di Roma (con una sentenza confermata in appello e in cassazione) per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. È stato poi coinvolto anche nell' inchiesta Moro-Quater, che si è conclusa per lui con sentenza di proscioglimento a conclusione dell'istruttoria formale. freccia rossa che punta in alto

16 Marzo 2004
Dagospia.com - "LO STATO HA CONCORSO ALL'ASSASSINIO DI ALDO MORO". MARIA FIDA MORO VA ALL'ATTACCO, CON UN LIBRO E UNA DENUNCIA - IN ESCLUSIVA, LE PAGINE CONTRO IL COMITATO DI CRISI" (FONTE MITROKHIN). -

Maria Fida Moro va all'attacco. Nei primi giorni di maggio scivolerà nelle librerie "La nebulosa Moro", edito da Selene di Milano, un volume che raccoglie 36 pezzi di altrettanti giornalisti (da Andrea Purgatori a Flavia Amabile), che hanno ricevuto il compito da Maria Fida di ricostruire a mo' di bignami il caso Moro. Il volume sarà presentato la mattina di domenica 9 maggio nella sala dell'Archivio di Stato all'Eur. La figlia dello statista assassinato dalle Brigate Rosse pensava di fare cosa buona e giusta donando le royalty della vendita del volume alla causa del Telefono Azzurro. Che, sorpresa, ha rifiutato: Telefono Azzurro non vuole avere nulla a che fare con la più sanguinosa tragedia dello Stato italiano della seconda metà del Novecento. La prova provata che la morte di Moro sia ancora un macigno in caduta libera arriva dalla seconda mossa di Maria Fida. Oggi ha firmato infatti la richiesta di riaprire il processo Moro. Domani il suo avvocato di fiducia, Nino Marazzita presenterà a piazzale Clodio l'istanza di riapertura delle indagini sulla strage di via Fani. Dagospia è riuscito ad ottenere in esclusiva uno stralcio importantissimo dell'istanza, che prende di mira il famigerato "Comitato di Crisi" (è in fondo all'articolo). Ma è tutta l'istanza di Marazzita-Moro che gronda di rivelazioni e fatti sconcertanti. Anche perché gran parte del materiale proviene dalle carte secretate della Commissione Mitrokhin. Una "bomba" da cui si evince che il sequestro e l'uccisione di Moro erano state ampiamente previste e annunciate.
I rappresentanti delle Istituzioni erano a conoscenza di ciò che stava per accadere. "E non aver fatto di tutto per interrompere un evento funesto - osserva Marazzita - contribuisce a produrlo, per un principio generale del Codice Penale. "Sostanzialmente, conclude l'avvocato, le responsabilità politiche coincidono con le responsabilità penali". Dunque, "lo Stato ha concorso all'omicidio Moro".
Il capitolo dell'istanza che mettiamo in rete ha come bersaglio il Comitato di Crisi. Una commissione affollata di piduisti, spie Cia e Kgb e agenti dei Servizi segreti che avrebbe dovuto lavorare come supporto per le forze dell'ordine, suggerire strategie su come salvare Moro, ma che finisce - secondo Marazzita e Maria Fida - per "costringere" le BR ad uccidere Moro. Quindi l'istanza chiede al Procuratore della Repubblica di incriminare quei componenti del Comitato che hanno contribuito alla determinazione dei brigatisti di uccidere lo statista.

All'Illustrissimo Signor Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Istanza di riapertura delle indagini sulla strage di via Fani, sul sequestro e sull'omicidio di Aldo Moro ex art. 414 c.p.p.
Premessa
Il comitato di crisi del Ministero dell'Interno.
Sarà utile per capire in quale scenario storico si inserì la vicenda Moro compiere l'analisi del comitato di crisi istituito presso il Ministero dell'Interno dal Ministro Francesco Cossiga e capire quale sua stato il ruolo dei servizi segreti italiani di quel tempo, infiltrati dalla Loggia massonica Propaganda 2 di Licio Gelli. Occorre ricordare che Gelli aveva manifestato più volte l'interesse a neutralizzare il progetto politico di Moro che andava sotto il nome di "compromesso storico". Esso consisteva nel dialogo tra cattolici e comunisti. I capi dei servizi segreti svolsero un ruolo centrale nel "comitato di crisi". è bene capire quale sia stata la composizione di quell'organismo e in particolare se oltre ai servizi italiani affiliati alla P2 e nemici di Moro, fossero presenti agenti dei servizi segreti dell'Est e dell'Occidente. Il comitato ebbe un ruolo centrale nel caso Moro, decidendo tutte le iniziative politiche e militari assunte nei 55 giorni di prigionia. Ma non era solo nel comitato di crisi che i seguaci di Gelli svolsero un ruolo rilevante. Nella cerchia di coloro che, ai vertici delle istituzioni, diressero, coordinarono, indirizzarono e seguirono le indagini sul sequestro Moro, ben 57 persone erano iscritte alla loggia massonica P2. Il "comitato di crisi" ebbe tra i suoi componenti Giulio Grassini, capo del Sisde, (tessera numero 1620), Giuseppe Santovito, capo del Sismi, (tessera numero 1630) Walter Pelosi, capo del Cesis, il generale Raffaele Giudice, Comandante generale della Guardia di Finanza ( tessera 535 ), il generale Donato Lo Prete ( tessera n 1600), l'ammiraglio Giuseppe Torrisi , capo di Stato Maggiore della Marina ( tessera 631 Roma ), il colonnello Giuseppe Siracusano ( tessera n 1607), il prefetto Mario Semprini ( tessera 1637), il professor Franco Ferracuti, (tessera n 2137) agente della CIA e consulente personale del senatore Francesco Cossiga, il colonnello Pietro Musumeci dell'arma dei Carabinieri, vice capo del Sismi e piduista, ed il dr Stefano Silvestri, dello IAI, Istituto Affari Internazionali. Non affiliato alla loggia segreta era il Prefetto Gaetano Napolitano, capo del Cesis, l'organo di coordinamento tra servizi segreti. Il Prefetto Napolitano, con atto di grande coraggio, decise di dimettersi per non essere coinvolto in loschi intrighi sulla pelle di Aldo Moro. E fu sostituito da Walter Pelosi ( tessera 754 Roma ). Il professor Ferracuti docente di criminologia all'Università di Roma, ed esponente della CIA, fu colui che avallò l'idea completamente falsa che Moro fosse un uomo fuori di sé, non più responsabile delle cose che scriveva dalla prigionia. Aldo Moro reagì alla manovra che era il preludio della sua liquidazione da parte del potere. Ed in una lettera del 7 aprile 1978 scrisse "sono intatto ed in perfetta lucidità". E aggiunse "è vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito alcuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro ed ai miei argomenti neppure si risponde". (p2 e 12 documento XXIII sulla documentazione rinvenuta il 9 ottobre 1990 in via Monte Nevoso a Milano)
Ferracuti fu l'autore del piano Victor, che prevedeva l'internamento di Moro ed il suo isolamento, se liberato dalle Brigate Rosse. La sua influenza fu enorme.
Un ruolo importante ebbe Stefano Silvestri, vice Presidente dello IAI. Il colonnello dei Carabinieri Domenico Faraone, capo del controspionaggio competente per i paesi del patto di Varsavia, identificò nel Silvestri colui che, con il nome in codice Nino, nel dossier Mitrokhin era un contatto confidenziale della residentura del KGB a Roma (vedi rapporto impedian n 14 del dossier Mitrokhin e resoconti stenografici della Commissione Mitrokhin dell'11 e 12 febbraio 2003). Il Silvestri era in contatto con Luigi Scricciolo, responsabile delle relazioni internazionali della UIL, che era a sua volta in contatto per ragioni di spionaggio con i servizi bulgari e con una spia del KGB con il nome in codice Frank. (Dichiarazione di L Scricciolo al GI Imposimato volume 58 docum XXIII commissione Moro, dossier Mitrokhin rapporto Impedian n 218, resoconto stenografico commissione Mitrokhin del 11 febbraio 2003 p32). Il comitato aveva, dunque, nelle sue fila un agente della CIA, un presunto contatto del KGB ed affiliati alla P2, tutti ostili a Moro ed alla sua politica di superamento della logica dei blocchi contrapposti varata a Yalta.

La relazione di Stefano Silvestri.
Il professor Silvestri fece una relazione su come reagire al sequestro Moro,- mai pervenuta ai giudici del caso Moro perché secretata per quindici anni-, delineando la linea d'attacco alle BR. Egli disse che bisognava tendere alla "perdita di valore dell'ostaggio". Il Governo doveva dimostrare di non avere alcun interesse a Moro ed alla sua vita. Il Silvestri si soffermò in particolare su quella che chiamò "la strategia del carciofo" perseguita dalle BR. Spiegò che le BR intendevano sfrondare ad una ad una le "foglie del nemico (lo Stato italiano nda) lavorandolo ai fianchi, indebolendone la volontà, evitando a lungo il confronto diretto, mutando fronti e tattiche, sino a che esso non sia costretto a mettere a nudo il suo cuore, rinunciando a tutte le sue difese". Per questa offensiva Silvestri vedeva una situazione drammatica dello Stato che si stava arrendendo. Ciò giustificava - per Silvestri - la proposta incentrata sulla riduzione del valore ostaggio. Dopo avere messo in evidenza che le BR cercavano di dividere il fronte degli oppositori DC, il Silvestri proseguì affermando: "Il rischio maggiore per gli avversari delle BR è quello di assecondare questa strategia lasciando sempre ad esse il vantaggio di attaccare "foglia dopo foglia" ed il vantaggio psicologico di raggiungere il fatto compiuto". A questo punto Silvestri propose una strategia di risposta che era quella del blocco di ogni iniziativa diretta a "perdere tempo" per trovare la prigione Ecco cosa disse il Silvestri al Ministro dell'Interno Cossiga: "La strategia fin qui seguita contro le BR sembra ispirarsi a due principi:

  1. esercitare una pressione generica , ma possibilmente crescente, sul complesso della società italiana, nella speranza di isolare o comunque intralciare le operazioni delle BR (obiettivo massimo: la scoperta del covo)
  2. ricercare canali di contatto diretto o indiretto con le BR per iniziare un "dialogo" (e quindi iniziare la dinamica di un negoziato).

Questa duplice strategia cerca di assicurare quattro obiettivi: la salvaguardia dello Stato e dell'ordine pubblico, la protezione della società civile, la solidarietà politica e la vita dell'onorevole Moro. Tuttavia essa è anche una strategia con elementi contraddittori che potrebbe subire l'iniziativa di una strategia del carciofo."
"Il problema- prosegue Silvestri- è nel doppio desiderio di "combattere le BR e di evitare il peggio: il secondo obiettivo finisce col lasciare al nemico l'iniziativa ed accettare il "fatto compiuto". Una tale strategia lascia le BR completamente libere di scegliere la loro risposta e di graduare i loro interventi : i più duri e destabilizzanti fin quando la pressione non divenga insopportabile, .. e poi più accomodanti e negoziali; costringendo il governo a trattare in condizioni di impopolarità (o forse facendo anche in modo di ridicolizzare qualche esponente) quando nella società vi sia già fermento e insoddisfazione.
"Ad un esame più attento risulta che tutti i" vantaggi" delle BR vengono attivati da un solo elemento, un solo punto di forza ideale, che permette loro di sfruttare la situazione: il possesso di Aldo Moro ed il suo valore ostaggio. Tutto il resto è accessorio. Sino ad ora infatti sembra che la perdita di Aldo Moro si sia dimostrata sufficiente per impedire al governo l'uso pieno dei suoi punti di forza. Se questo è il punto di forza allora obiettivo della strategia diviene: riconquista del punto di forza (liberazione di Moro), o, in via subordinata, riduzione del suo valore ostaggio".
Il Silvestri liquida subito la prima ipotesi ritenendola impraticabile.
Dopo avere affermato che "la strategia tesa alla riconquista di Moro difficilmente può essere utilizzata perché le BR hanno sinora mostrato di avere capacità sufficienti per sfuggire alla cattura", Silvestri sostiene che ciò non significa abbandonare la ricerca del covo o tralasciare ipotesi di contatto diretto con le BR, ma avere la consapevolezza che "queste sono vie secondarie, di reazione alle iniziative delle BR, che non consentono al governo una effettiva ripresa dell'iniziativa". E qui viene fuori la strategia che deve spingere le BR ad eliminare l'ostaggio. "Se non si può puntare tutto sulla liberazione dell'ostaggio, senza subire l'iniziativa avversaria, allora rimane la possibilità di diminuire il valore dell'ostaggio. Questa è una strategia difficile e crudele. Difficile, perché può dare l'impressione di cedere in qualche modo al ricatto dei terroristi, e crudele perché si espone alla escalation della violenza: contro l'ostaggio o con nuovi colpi di forza". Di queste due ipotesi, Silvestri opta per la seconda, rilevando che le BR avevano messo in atto pressioni psicologiche e materiali, che rendevano vulnerabile Moro, "certamente cosciente del grave valore politico che potrebbero avere sue ammissioni anche false o anche estorte con la forza." "Ma questa non è una lotta che egli possa compiere da solo".
A questo punto Silvestri passa alla proposta concreta parlando di "via offensiva e difensiva". "La via offensiva implicherebbe il tentativo di forzare la mano alle BR, costringendole, per ragioni di forza maggiore, ad abbandonare la loro attuale strategia. Per raggiungere un tale obiettivo si potrebbe ideare azioni di vario tipo, contro i brigatisti in carcere o contro i simpatizzanti, obbligando le BR a reazioni estreme (esempio: il tragico sviluppo del caso Schleyer legato alla precedente azione di Mogadiscio, e ai suicidi in carcere). Ciò potrebbe portare alla morte dell'ostaggio o potrebbe costringere i brigatisti a nuovi colpi di mano terroristici. In ambedue i casi essi sarebbero costretti a non sfruttare la strategia del carciofo, bensì ad abbandonarla, per tornare allo scontro diretto. E in tale scontro il governo potrebbe mobilitare senza più alcuna remora le sue forze superiori.
L'aspetto più inquietante e rilevante di questa storia è che questo documento segreto - mai consegnato ai giudici del caso Moro- venne trovato nel 1979 nel covo brigatista di viale Giulio Cesare 44 a Roma in cui si trovavano due dei responsabili del sequestro Moro Valerio Morucci e Adriana Faranda nonché Giorgio Conforto agente del KGB.
Diventa di estremo interesse, di conseguenza, stabilire attraverso quali modalità questo documento sia stato sottratto ai giudici e per quale motivo. Basterà valutare, tra l'altro, il resoconto della Commissione Parlamentare Mitrokhin dell'11/2/2003 per percorrere una traccia investigativa abbastanza agevole per l'accertamento di questa circostanza. La relazione del prof. Franco Ferracuti In sintonia con l'analisi del dr Silvestri si pose quella del prof Ferracuti, uomo della CIA, il quale esordì dicendo, contro la verità testimoniata da esponenti delle BR, da Aldo Moro e da documenti, che "la vittima faceva uso abbastanza generoso di farmaci". è quindi probabile che abbia continuato a prendere farmaci, senza poterne controllare la natura e le dosi. è anche possibile che determinati farmaci gli siano stati somministrati al di fuori della sua consapevolezza. "Dopo la tesi falsa del "drogato" , Ferracuti passava a dire che "dalle analisi grafologiche si evidenziavano fini tremori, attribuibili possibilmente alla somministrazione di farmaci del gruppo dell'aloperidolo (Rede Dotti 1974). Esattamente il contrario di ciò che aveva scritto Moro e ritenuto la Commissione di inchiesta sulla strage di via Fani- "Tali farmaci, - sentenziava Ferracuti, - la cui somministrazione è dosabile con estrema facilità, possono diminuire notevolmente la resistenza psichica della vittima, pur accentuandone la reazione depressiva. Essi potrebbero spiegare la stereotipia e la perseverazione contenutistica presente nei messaggi 3 e 5, l'errato rilievo cronologico del messaggio 5, nonché alcune delle evidenti discrasie presenti in vari punti. Ove i farmaci siano stati usati, la loro somministrazione dovrebbe essere stata discontinua, dato il loro effetto di accumulo e data la variabilità contenutistica ed emozionale presente nei messaggi". Anna Maria Braghetti, che fu la carceriera di Moro per 55 giorni, escluse la somministrazione di qualunque farmaco a Moro e la pratica di qualunque tortura fisica o psichica. Il giudice Mario Sossi, rapito dai NAP (nuclei armati proletari) disse che le BR non drogano i prigionieri, non li torturano e non estorcono i messaggi. (p 87 "Il prigioniero" di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, universale economica Feltrinelli). La stessa commissione sulla strage di via Fani riconobbe che "A scrivere era certamente Moro: suo era lo stile suoi erano i passaggi facilmente riconoscibili degli scritti Da alcuni cenni di Savasta e da allusioni di Morucci si desume che Moro fu un prigioniero coraggioso, tutt'altro che disposto a cedere passivamente alle richieste dei sequestratori" Ferracuti ammise 15 anni dopo (1993) davanti all'FBI: "Aldo Moro era politicamente morto fin dal giorno della sua prima lettera dalla prigionia. E dal punto di vista del governo è stato meglio che "l'incidente di Moro sia finito come è finito" (Tesi di Master Università degli Studi La Sapienza - facoltà di criminologia - di Fiorenza Pascazio anno 2002-2003) Quel comitato aveva nelle sue fila un agente della CIA, un contatto del KGB ed affiliati alla P2, tutti ostili a Moro. Il comitato operò senza lasciare alcun verbale. Le possibili strategie furono elaborate da alcuni esperti di terrorismo che formularono delle possibili risposte alle iniziative delle BR. freccia rossa che punta in alto

MORO: 26 ANNI DOPO QUEL 16 MARZO, IN MEMORIA STRAGE L'AGGUATO DI VIA FANI, PUNTA ICEBERG TERRORISMO IN ITALIA (di Gianni Morini)

Ventisei anni dopo, l"eccidio di Via Fani, quell'"attacco al cuore dello Stato", che colpì le istituzioni e segnò il momento più alto della strategia eversiva delle Brigate Rosse, merita una pausa ed una riflessione. Non fosse altro perché, come la storia ci insegna, dalla memoria di ieri, di quelli che furono definiti i 55 giorni più lunghi e difficili della storia della prima Repubblica, si può provare a dare un senso ed un perché all'insensatezza ed agli interrogativi che lasciano le terribili stragi di oggi.
Il rapimento del presidente della Dc Aldo Moro e l'uccisione dei cinque uomini della sua scorta furono portati a termine, con fredda determinazione, la mattina del 16 marzo 1978: poco dopo le 9 un commando di terroristi, almeno una decina secondo quanto stabilirono successivamente le indagini, entrò in azione al passaggio della Fiat 132 blu e del corteo di auto che stava accompagnando lo statista verso Montecitorio. Quel giorno Moro avrebbe dovuto brindare alla formazione del primo Governo nella storia politica italiana con l'appoggio, seppur esterno, dell'allora Pci di Enrico Berlinguer. Il 16 marzo, insomma, era una data comunque destinata a restare negli annali. Ed, infatti, nonostante l'orrore, nella stessa serata della strage e del sequestro, Camera e Senato concessero la fiducia con voto unanime di quasi tutti i partiti al governo monocolore Dc di Giulio Andreotti, un governo di "unità nazionale" o di "compromesso storico", come lo si definì allora, chiamato a far fronte ad un'emergenza esplosiva e, inevitabilmente. destinato anche a spaccarsi attorno alle polemiche sul comportamento da tenere nei confronti dei rapitori di Moro. Le auto del Presidente della Dc e della scorta furono costrette a rallentare all' incrocio tra via Fani e via Stresa, nel quartiere Monte Mario, da un'utilitaria che si mise di traverso ed, ancor prima che gli agenti si rendessero conto di quanto stava per accadere, un vero inferno di fuoco si abbatté sulle due auto, seminando morte. Ha destato sempre sconcerto la precisione "chirurgica" della "geometrica potenza di fuoco" scatenata dai brigatisti: le raffiche di proiettili dei kalashnikov, 91 colpi complessivi, non lasciarono scampo agli uomini della scorta, ma neppure un solo colpo sfiorò, nell'auto blu, il presidente democristiano, che venne tirato fuori dalla vettura e trascinato via. Del gruppo di fuoco dell' azione terroristica più audace e più violenta fino ad allora compiuta in Italia, fecero parte nove terroristi: Mario Moretti, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, più Rita Algranati nel ruolo di vedetta. Da tempo, ormai, nessuno di loro è più in carcere. Tutti sono in semilibertà o al lavoro esterno. Da quel lontano 16 marzo partirono giorni, settimane, mesi di incredibili colpi di scena, di certezze svanite, di speranze affossate, di appelli e rivendicazioni, di deliranti "comunicati" del "Tribunale del Popolo", ma soprattutto di furibonde liti e polemiche tra "falchi" e "colombe". Si può dire che ancor oggi, oltre un quarto di secolo dopo quei giorni, non si sono del tutto spente le frizioni tra inattaccabili assertori della linea della "fermezza", decisi a non concedere alcunché ai terroristi, ed il partito trasversale di chi, invece, tentò o avrebbe tentato qualsiasi strada per salvare lo statista da una fine annunciata. Vinse comunque il no alle trattative ed il 9 maggio, a conclusione del "processo" nel covo di via Montalcini, gli aguzzini di Moro eseguirono senza pietà la loro "sentenza" inappellabile: il corpo crivellato di colpi di Aldo Moro venne fatto trovare nel bagagliaio di una Renault rossa in via Caetani, nel pieno centro di Roma, a due passi dalle sedi della Dc e del Pci. Come la Spagna di oggi, l'Italia non era più la stessa. freccia rossa che punta in alto

17 marzo 2004
IL «LIBRO NERO DELLA PRIMA REPUBBLICA»di Rita Di Giovacchino
«Il Manifesto» Le strade d'Italia che portano a Capaci Per Fazi Editore, «Il libro nero della prima Repubblica» di Rita Di Giovacchino FRANCESCO NERI

Perché il 20 marzo 1979 è stato ucciso a Roma, in via Tacito, il giornalista Mino Pecorelli, direttore di Op, in procinto di pubblicare ampi stralci della parte sconosciuta del Memoriale Moro? Perché nel 1980 lo Stato scese a patti con le Br e pagò un riscatto per la liberazione dell'assessore democristiano Ciro Cirillo, rinnegando la linea della fermezza che solo due anni prima aveva adottato per il sequestro di Aldo Moro? Chi è veramente il senatore Giulio Andreotti, uno dei pochi politici italiani uscito indenne dal terremoto che ha distrutto la prima repubblica? Sono solo alcune domande a cui cerca di rispondere Il libro nero della prima repubblica (Fazi editore, pag. 443, 18 euro). L'autrice, Rita Di Giovacchino, da anni si occupa di cronaca giudiziaria per il Messaggero. Ha seguito quasi tutte le grandi tragedie italiane: dal caso Moro alla morte di Falcone e Borsellino. Con questo volume, uscito solo qualche mese fa e già alla seconda ristampa, la giornalista tenta di ricostruire l'intreccio dei poteri, visibili e invisibili, che hanno caratterizzato e condizionato decenni di vita politica nazionale.
Il libro è articolato in cinque parti: un prologo, tre capitoli, un epilogo. «Il mio criterio - dice Di Giovacchino - sarà quello di raccontare i fatti».
La prima parte del volume è dedicata agli anni del golpe Borghese: la notte dell'8 dicembre 1970 alcune migliaia di uomini guidate dal principe Junio Valerio Borghese occuparono il Viminale per ritirarsi poche ore dopo. Sono anche gli anni di Gelli e della P2. Quelli di Sindona che morirà il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera dopo aver bevuto un caffè al cianuro, proprio come Gaspare Pisciotta nel '54. Sono gli anni di Gladio, un'organizzazione segretissima di cui facevano parte tre componenti operative: il Superservizio, sorta di cupola dei servizi segreti che avrebbe pianificato la strategia della tensione, identificato con l'ufficio R del Sid e poi del Sismi; i reparti militari Stay Behind regolari; la rete parallela, costituita da civili o ex militari, in cui erano confluiti anche alcuni appartenenti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, coinvolti nel golpe Borghese. La seconda descrive il delitto Moro: l'agguato di via Fani, il carcere del popolo, il Memoriale. Rita Di Giovacchino riporta molti documenti di quei tragici fatti e, commentando alcune lettere del leader democristiano, scrive: «È proprio la diagnosi impietosa che Moro fa in quelle pagine dell'involuzione politica del paese e dell'assenza di ogni tensione etica e politica, a fornire un'istantanea anticipata della degenerazione del sistema italiano, che sarebbe venuta pienamente alla luce quindici anni dopo».
La terza parte è relativa all'agenzia del crimine: la banda della Magliana, il patto intercorso tra questa, Cosa Nostra e ambienti dell'eversione di destra «cominciato - come si legge nel volume - con un mutuo scambio di favori su armi e documenti e proseguito con la partecipazione dei neofascisti alle rapine e dei malavitosi agli attentati».
Nell'epilogo, sul tramonto della prima repubblica, Rita Di Giovacchino riporta alla memoria del lettore quel 23 maggio 1992 quando, sull'autostrada che collega Punta Raisi a Palermo, all'altezza di Capaci, 500 chili di tritolo dilaniarono il giudice Falcone, la moglie e cinque agenti di scorta. E poi il 19 luglio quando, solo 57 giorni dopo, stessa sorte sarebbe toccata al giudice Borsellino in via D'Amelio. freccia rossa che punta in alto

17 marzo 2004 - (Corriere della sera)
ARCHIVI USA: NIXON E L'ITALIA
Nixon: il mio tormento si chiama Italia
Nuove rivelazioni dai documenti di Washington appena declassificati. Tra il 1969 e il 1970 il nostro Paese era «osservato speciale»
dal nostro corrispondente ENNIO CARETTO

WASHINGTON - «La competizione tra Fanfani e Moro per la Presidenza della Repubblica è un cancro continuo per la Dc. Nessuno dei due può essere eletto presidente senza i voti comunisti. Fanfani e Moro sono ossessionati, pensano sempre che effetto avranno le loro azioni sul Pci se ne otterranno l'appoggio per le loro ambizioni presidenziali. Ma potrebbe emergere un outsider, Pertini». Una pausa. «Se indicessimo le elezioni, ne uscirebbe un Parlamento più centrista, ma il Pci lo sa e non vuole che siano anticipate. Per questo si comporta bene, tanto è vero che il suo segretario Longo ha condannato l'espulsione di Dubcek dal Pc cecoslovacco. Sta utilizzando i socialisti come il suo cavallo di Troia nelle amministrazioni locali». è il 9 luglio del '70, sei mesi dopo l'autunno caldo, e il leader dc Mariano Rumor, appena dimessosi da premier dopo il governo dei 100 giorni, il suo terzo, si sfoga con l'ambasciatore americano a Roma Graham Martin. è convinto che alle elezioni regionali del mese precedente ci sia stato un complotto Pci-Psi, uno storno forzato di voti dal Psiup ai socialisti per formare amministrazioni «rosse» come in Umbria e in Toscana e per fargli la fronda a Roma. Sbotta: «Mi sono dimesso per traumatizzarli e indurli alla ragione!». Lo sfogo di Rumor figura nel dossier Nixon sull'Italia declassificato dagli Archivi nazionali a Washington, e segna una svolta nella politica dell'amministrazione Usa verso il nostro Paese. La Casa Bianca, che ha puntato non sui due «cavalli di razza» Fanfani e Moro ma su Rumor, si è accorta che in Italia è incominciato un periodo di grave instabilità politica. I suoi carteggi testimoniano del timore che il Pci assuma il potere, del sospetto che il Psi ne sia complice, e della furia per le beghe fra i leader della Dc. Ai primi di agosto l'ambasciata a Roma arriva a ipotizzare una «soluzione non costituzionale» della crisi: Martin adombra «un flirt di Fanfani con i sovietici per installare un regime «forte» in Italia», in vista della sua conquista della Presidenza, e si riserva di affrontarlo al ritorno della sua visita a Mosca.
L'ipotesi è sbagliata, di lì a pochi giorni nascerà il governo di centrosinistra di Colombo. Ma per Washington il nostro Paese è diventato «il ventre molle dell'Europa, e mette in gioco il futuro della democrazia nell'intero continente». Il «tormento italiano» di Nixon è incominciato un anno prima, nel luglio del '69, alla caduta del «Rumor 1°». In quella data un dispaccio del Dipartimento di Stato cita Toni Bisaglia, ritenuto un uomo di fiducia: «Se fosse utile, non avremmo obiezioni a che lo avvicinaste per influire sulla formazione del governo» scrive all'ambasciata. Il disagio aumenta quando quello stesso mese Rumor forma un monocolore con Moro agli Esteri al posto di Nenni. Un rapporto dice che il governo potrebbe cadere «a causa dei torbidi operai e studenteschi». Nell'ottobre '69 «le convulsioni italiane» sono tali da indurre il ministro dei Trasporti John Volpe, un italoamericano amico di Nixon, a prendere le redini della diplomazia. Volpe, che diverrà ambasciatore a Roma, si reca da Saragat. Il presidente italiano avverte che Nixon deve proteggere non solo l'Italia «ma tutta l'Europa, se no l'Urss tenterà di fagocitarla come Praga», e paragona la Superpotenza all'impero romano «arbitro dell'equilibrio e la pace mondiali». Volpe chiede a Nixon di invitare Rumor e Saragat a Washington per un chiarimento.
Il segretario di Stato William Rogers e il consigliere della sicurezza della Casa Bianca Henry Kissinger non sono d'accordo sull'invito. Rogers vuole il chiarimento subito. Segnala a Kissinger di avere ricevuto una lettera «dell'avvocato Paolo Pisano, che dice di rappresentare l'editore Vittorio Vaccari e Rumor, secondo cui, se non interverremo, a Roma andrà al governo un Fronte popolare coi comunisti». Stando a Pisano, «Moro è pronto all'intesa con il Pci» (il compromesso storico, non ancora noto come tale) «che è facilitata dall'abbandono da parte del Vaticano della sua politica anticomunista». Kissinger preferisce aspettare, vuole prima un'indagine dei servizi segreti sull'Italia e la Santa sede. Sceglie il gennaio del '70 per la visita di Rumor, e il luglio successivo per quella di Saragat. E sollecita poi Nixon a formare una Commissione d'inchiesta «sulle implicazioni per gli Usa di un ingresso comunista al governo a Roma». «C'è qualche pericolo che in due o tre anni il Pci salga al potere, sarebbe prudente esaminare la emergenza, non possiamo lasciarci cogliere impreparati». Il capo della commissione sarà Elliott Richardson, un fido di Nixon: l'esito dell'inchiesta è tuttora segreto, il dossier non è mai stato declassificato.
Dall'ottobre '69 in poi, mentre il nuovo ambasciatore Graham Martin, un falco nominato per fare ordine nel caos italiano, giunge a Roma, gli eventi precipitano. L'autunno caldo accentua le difficoltà di Rumor, le bombe del 12 dicembre alla Banca dell'Agricoltura di Milano e alla Banca del Lavoro di Roma seminano il panico tra gli italiani. Un telegramma dell'ambasciata americana al Dipartimento di Stato parla di «centinaia di arresti tra i maoisti, gli anarchici, gli estremisti di sinistra» senza cenni alla strategia della tensione della estrema destra. «Gli effetti politici potrebbero essere severi» ammonisce. Rumor annulla la visita a Washington a gennaio, e in un appunto a Nixon del 16 dicembre Kissinger commenta: «Se venisse, al ritorno a Roma si troverebbe in una situazione più difficile». A differenza di Martin, Kissinger non esclude che le bombe arrivino da destra: «La polizia italiana sta arrestando anche neo fascisti con trascorsi terroristici». A gennaio e febbraio del '70, né Rumor né Moro né Fanfani riescono a formare un governo, l'Italia è alla deriva.
Rumor riesce nell'impresa a marzo, e la Casa Bianca non prende misure, decide di aspettare. Il 22 giugno del '70, quando Fanfani si reca all'Onu, Kissinger organizza una sua visita alla Casa Bianca per l'atteso chiarimento. Notifica a Nixon che Fanfani vuole apparire «un leader meritevole dell'attenzione americana, cosa che è nel nostro interesse perché è un uomo influente». Il presidente Usa sa come trattarlo. Ricorda che «la nostra ex ambasciatrice a Roma Booth Luce lo considerava il miglior politico italiano» e Fanfani ribatte che lo chiamava «il leader per i giorni di pioggia». Il «cavallo di razza» rassicura l'ospite. Quella tra il luglio '69 e il marzo '70 è stata una fase tra le più delicate della storia d'Italia, ma la situazione è molto migliorata. Le ultime elezioni hanno rafforzato la Dc, il Psi, il Psu e il Pri a danno della destra e fermato l'avanzata del Pci, del Psiup e dei maoisti. Si può guardare al futuro con ottimismo. Ottimismo infondato perché due settimane dopo scoppierà la tempesta, Rumor rassegnerà le dimissioni, e Fanfani finirà sulla lista dei sospetti. freccia rossa che punta in alto

NATO E DINTORNI
I cavalli di razza che non piacevano alla Casa Bianca

WASHINGTON - Il dossier degli Archivi nazionali conferma che Moro non è gradito all'amministrazione repubblicana di Nixon tanto quanto lo fu a quella democratica di Johnson. Il 9 ottobre del '69, in pieno autunno caldo, l'ex premier italiano, in quel momento ministro degli Esteri, va alla Casa Bianca. Kissinger ha notificato a Nixon che Moro «è interessato al simbolismo, non alla sostanza dell'incontro, per una questione di prestigio personale e come riconoscimento del ruolo della Dc in Italia». è un'allusione, come quella a Fanfani otto mesi dopo, alla sua corsa alla presidenza della Repubblica italiana. Kissinger ha anche ricordato a Nixon che in passato ha visto Moro due volte.
Il presidente americano fa del suo meglio. Dice a Moro che l'America ritiene l'Italia «un alleato importante», e giudica lui Moro, Saragat e Rumor «politici realistici, il tipo di leader di cui il mondo ha bisogno». Moro è cauto, non si riscalda ai complimenti come farà Fanfani. Non si sbottona sul Pci né sul Psi, ribadisce solo l'«amicizia e solidarietà italiane» agli Usa, e illustra la crisi a Roma: «I problemi sono complessi, il Paese è in transizione, ma il monocolore di Rumor intende rilanciare il centrosinistra, i cui partiti sono tutti per la Nato». Esprime infine il suo apprezzamento per il passaggio dal confronto al negoziato nella politica estera Usa. E. C. freccia rossa che punta in alto

«Il Gazzettino»
MISTERI D'ITALIA

Con una istanza presentata ieri l'avv. Nino Marazzita per conto di Maria Fida Moro ha chiesto la riapertura delle indagini sulla strage di Via Fani nonché sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. Secondo la figlia di Moro dalle indagini relative al dossier Mitrokhin e da altre indagini sarebbero emerse nuove prove e nuovi indizi. In particolare sarebbe emerso il collegamento tra uomini delle Br e il servizio segreto di Mosca, e inoltre che il comitato di crisi, massimo organo costituito dal governo d'allora per seguire il rapimento Moro, era costituito di persone quasi tutte iscritte alla loggia massonica «coperta» P2. Uno dei non iscritti alla Loggia P2 si dimise dal comitato per disaccordo con gli altri membri.
Allegando documenti tratti dal dossier Mitrokhin e dalle indagini relative, l'avvocato Marazzita chiede al procuratore della Repubblica di riaprire le indagini «in ordine alla individuazione degli ulteriori concorrenti nei delitti relativi al sequestro e all'omicidio dell'on. Aldo Moro e della sua scorta».
«Le nuove fonti di prova - spiega il legale - sono facilmente rilevabili attraverso la lettura della documentazione prodotta: è processualmente certo-ha aggiunto Marazzita- che due tra i più feroci organizzatori della strage, del sequestro e dell'uccisione del presidente Moro furono arrestati nel maggio '79 a Roma in viale Giulio Cesare, presso il domicilio di Conforto Giuliana. È certo che fino al giorno precedente la strage il presidente Moro era stato seguito da un soggetto di nazionalità russa».
Le indagini sul dossier Mitrokhin hanno permesso di acclarare «ulteriori fonti probatorie su circostanze fino ad oggi sconosciute agli inquirenti e in gran parte dolosamente celate»: primo, che «Conforto Giorgio era l'agente »Dario«, caporete dei servizi strategici del patto di Varsavia e quindi uomo del Kgb russo. Secondo, che il soggetto che seguiva Moro era Sergej Sokolov, capitano del Kgb russo. Terzo, che Morucci Valerio, Giorgio Bellini, Luigi Santini, Alessandro Girardi erano membri dell'organizzazione 'Separat', gestita dal terrorista Carlos, braccio esecutore della strategia terroristica del Kgb».Un'altra circostanza «merita il doveroso approfondimento»: «All'indomani dell'eccidio di via Fani e durante tutto il corso del sequestro fu istituito presso il ministero dell'Interno per volere del ministro Cossiga uno speciale comitato di gestione crisi». I suoi componenti sono quasi tutti risultati iscritti alla loggia massonica P2. «Non affiliato alla loggia segreto era il prefetto Gaetano Napolitano, capo del Cesis, che con grande atto di coraggio decise di dimettersi in quanto non condivideva l'operato del comitato». «Tali elementi - concòude l'avvocato dei Moro - chiudono il cerchio logico della morsa cospirativa nella quale Aldo Moro era chiuso senza più alcuna speranza di sopravvivere». freccia rossa che punta in alto

RICHIESTA RIAPERTURA CASO MORO
Ansa
MORO: COSSIGA, ATTACCO MARAZZITA SOLO INDECENTI SPECULAZIONI

Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica, attacca duramente l'avvocato Nino Marazzita, che ieri ha presentato una richiesta di riapertura delle indagini sul caso Moro a nome di Maria Fida, la primogenita del presidente della Dc.
Senza citare per nome Marazzita, Cossiga parla delle «recenti farneticanti speculazioni sul caso Moro di un assai modesto legale». «è doloroso e rivoltante - afferma l'ex Capo dello Stato - che un noto 'paglietta' speculi in maniera indecente, dopo 26 anni, su un evento tragico quale fu il rapimento di Aldo Moro, la sua successiva uccisione, e l'annientamento della sua scorta, evidentemente per risollevare le sorti di una traballante professione». freccia rossa che punta in alto

Ansa
MORO: MARAZZITA, INSULTI CHE SANNO DI CONFESSIONE

«Nessuno l'ha chiamato in causa. Questo attacco di Cossiga ha il sapore di una confessione spontanea». Nino Marazzita, rappresentante legale di Maria Fida Moro, replica così al duro attacco del presidente emerito della Repubblica.
«Sono insulti - dice - che mi lasciano del tutto indifferente. Non replico perchè penso che gli insulti, quando sono usati come un metodo, si ritorcano giustamente contro chi li fa». «Cossiga usa l'insulto come metodo - prosegue Marazzita - quando i temi non gli sono graditi. Sarebbe stato molto piu' interessante se nei 26 anni che sono passati da via Fani avesse cominciato a dire la verita'. Debbo ammettere che come uomo politico lui non é stato 'modesto', ma è stato molto divertente». freccia rossa che punta in alto

Ansa
MORO: AL VAGLIO PM IONTA RICHIESTA APERTURA NUOVA INDAGINE

È da oggi al vaglio del pm Franco Ionta, responsabile del pool antiterrorismo di Roma, la documentazione, tre faldoni (comprendente il dossier Mitrokhin), depositata dall'avvocato Nino Marazzita assieme alla richiesta di apertura di una nuova indagine sul caso Moro.
Per il legale, proprio dal dossier emergono aspetti che potrebbero configurare lo scenario di «una combine di interessi italiani e stranieri, principalmente P2, Kgb e Cia» il cui scopo sarebbe stato quello di «bloccare la politica di apertura verso il Partito Comunista Italiano». Questi organismi, secondo l'ipotesi di Marazzita, «insieme con i servizi israeliani che ebbero un ruolo marginale», si sarebbero impadroniti dei «meccanismi delle Brigate Rosse che volevano liberare Moro e che invece furono costrette ad ucciderlo». Il pm Ionta, il quale ha rappresentato l'accusa in alcuni dei processi celebrati sui fatti cominciati con il sequestro dello statista Dc in via Fani e la strage della sua scorta, dovrà ora stabilire se sussistano i presupposti per la apertura di un fascicolo processuale. In particolare, il magistrato, titolare tra l'altro del fascicolo riguardante proprio il dossier Mitrokhin, dovrà accertare se quegli elementi indicati da Marazzita non siano mai stati esaminati in passato e, quindi, costituiscano la novità necessaria per avviare una nuova inchiesta. freccia rossa che punta in alto

Ansa
MORO:ACCAME, CHI FECE CADERE INDICAZIONE DI GRADOLI STRASSE? TROPPI TABÙ RESISTONO AD UNA SERIA RIFLESSIONE

«Vi sono ancora troppi tabu' che resistono nonostante siano passati 26 anni dal sequestro di Aldo Moro». Falco Accame, ex presidente delal Commissione Difesa, studioso del caso Moro e presidente della Anavafaf, l'associazione che tutela i militari, chiede che questi tabu' siano affrontati. C'era qualcuno che sapeva della imminente strage nelle istituzioni e non ha fatto nulla per evitarla?« E a riscontro Accame cita alcuni elementi: »Perche' dal tavolino a tre gambe di Bologna non emerse la chiave per scoprire il covo e cioe' via Gradoli, ma emerse solo 'Gradoli', deviando cosi' la indagine sul paese e impedendo che si scoprisse una fonte essenziale per individuare la prigione e i carcerieri di Moro?. Eppure da fonti tedesche era emersa la notizia esatta, e cioe' che si trattava di Gradoli Strasse, e non vi erano quindi dubbi su dove andare a guardare«.
Accame ricorda gli elementi emersi nel tempo sulla »«Gladio delle centurie» la struttura militare che e' stata tenuta coperta dal "disvelamento" della gladio dei 622. Un militare di questa gladio venne inviato a Beirut il 5 marzo 1978. Il 16 febbraio era pervenuta ai servizi una soffiata dal carcere di Matera da parte di un detenuto, Salvatore Senatore. Il militare fu convocato a La Spezia da Comsubin (il comando incursori a cui venne affidata anche l'operazione smeraldo i ricerca della prigione di Moro sul litorale laziale) in data 26 febbraio. Il gladiatore fu imbarcato a La Spezia il 5 marzo sulla nave Jumbo M e gli fu affibbiato un messaggio a distruzione immediata in cui si chiedeva che l'Olp intervenisse per la liberazione di Moro. Quel documento era per Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti italiani a Beirut. L'originale di questo documento e' stato riprodotto nel libro «I misteri del caso Moro» del regista Giuseppe Ferrara, «Forse - osserva Accame - non a caso è stato fatto completo silenzio su questo libro dove si fa cenno dal ruolo giocato da Comsubin e Maripers sulla intera vicenda». Il secondo tabu' - sostiene Accame - riguarda l'invio di un'agente della gladio delle centurie (nome in codice Franz) in Cecoslovacchia per indagare sull'addestramento delle Br in tale paese, addestramento che risulta dal libro «In cifra» «I giorni del diluvio» scritto dall'allora sottosegretario ai servizi segreti, Francesco Mazzola. «L'agente Franz - come ha più volte detto - ebbe notizie da ambiente tedesco circa il covo di "Gradoli Strasse". Lo comunicò al capitano La Bruna. Fu però fatta cadere strasse e la notizia fu data in modo anonimo attribuendola ad una "soffiata" del tavolo a tre gambe di Bologna dove si tenne a seduta spiritica che ufficialmente indicò il nome di Gradoli».
«Interrogati dai Ros - segnala Accame - i due gladiatori dovrebbero essere incriminati per falsa testimonianza se hanno detto il falso e processati. Se quanto hanno detto è vero la rilevanza della notizia da loro fornita eè di enorme interesse. Ma sulla vicenda è caduto il silenzio più rumoroso di quello di un attentato terroristico. I cittadini hanno diritto di sapere se questi due gladiatori hanno mentito o hanno detto il vero. Il silenzio su questa vicenda è una vera vergogna per la Repubblica. freccia rossa che punta in alto

18 marzo 2004 (La Padania)
Martinelli, regista di "Piazza delle Cinque Lune": perché nessuno ne parla?
«Verità nascoste nel mio film su Moro»

Due giorni fa le autorità hanno commemorato con una cerimonia in via Fani il 26 anniversario del rapimento di Aldo Moro, prologo all'uccisione da parte delle Brigate Rosse. Su quel clamoroso episodio di terrorismo ha fatto l'anno scorso un film "Piazza delle cinque lune", il regista Renzo Martinelli, autore di "Vajont", e ora impegnato nella realizzazione di un film, "Il mercante", su un tema quanto mai attuale, il terrorismo islamico. E Martinelli lamenta il silenzio che ha avvolto il suo film, malgrado il can-can mediatico che da 25 anni circonda il caso Moro. «Nessuno ne ha parlato - dice - sebbene abbiamo mostrato nel film due fatti incontrovertibili che cambiano notevolmente il quadro della situazione: innanzitutto che, contrariamente a quanto si era detto finora, in via Fani non c'è stato alcun tamponamento della macchina di Moro; secondo che, negli spezzoni di filmati che abbiamo utilizzato per la ricostruzione, sul marciapiede di destra c'è un killer solitario che uccide il capo scorta, il maresciallo Leonardi, e scompare nel nulla, quando da 25 anni sei commissioni d'inchiesta ed i brigatisti hanno detto che si era sparato solo da sinistra».
«Sono elementi che avrebbero dovuto far riaprire le indagini - prosegue Martinelli - Dov'è l'uomo che ha ucciso Leonardi, e di cui nessuno ha mai parlato? Chi era? E cosa fa adesso? Insomma ci sembrava di aver dato un contributo forte come impegno civile alla riflessione su quel fatto. In realtà nessuno si è filato il film, nessuno lo ha citato, tutti parlano di Bellocchio e nessuno del mio». E questo come mai? «Non lo so, io faccio il cineasta, il mio mestiere è di fare film, di farli uscire e di cercare che se ne parli, cosa che non è avvenuta. La mia impressione - continua - è che siamo andati a scomodare delle verità che a nessuno fa piacere scomodare in questo momento. Come mai infatti appena tre mesi dopo - tre mesi, non tre anni - arriva il film di Bellocchio, «Buongiorno notte», sullo stesso argomento e tutti ne parlano? Perché è un film «politicamente corretto», che non dà fastidio a nessuno, dove si sostiene che a rapire Moro sono stati i brigatisti da soli, dei poveri ragazzi un po' cialtroni che hanno sbagliato, che l'hanno ammazzato sì, ma poi si sono pentiti, e così via. Una «verità» rassicurante«. «E tenga presente - prosegue il regista - che venti giorni prima dell'uscita del film, il mio ufficio stampa ha tempestato le redazioni di tutte le principali trasmissioni: «Porta a Porta», Ferrara, Gad Lerner, ecc. Nessun palinsesto ha accettato di ospitare gli attori, o me, o di parlare del film, mentre vengono ospitati cani e porci, Verdone, Pieraccioni, Boldi e De Sica...«. Nessuno le ha mai dato una spiegazione? «Mai. Evidentemente 25 anni sono ancora troppo pochi per affrontare un argomento così delicato». Duei due episodi citati, il tamponamento fantasma e il killer misterioso, cosa potrebbero significare? Possono significare che nel rapimento Moro ci sono state coperture ad alto livello e che vi hanno partecipato elementi spuri. Oltre al killer di destra c'era anche un uomo che arriva dal bar sulla sinistra e sono loro due a fare il grosso del lavoro. Mentre i brigatisti veri si concentrano sull'Alfetta di scorta e la crivellano di colpi ben 92 in 15 secondi - lo stesso attacco non può essere portato alla Fiat 130, perché lì dentro c'è Moro, che deve essere preso illeso. Sulla 130 dunque occorrono due specialisti, altamente professionisti, di grande precisione di tiro, che sopprimono l'autista e il maresciallo di scorta.» I servizi segreti, si è ipotizzato...
«Certamente si è attivata una parte dei servizi segreti (mentre un'altra parte aveva invece interesse a liberare Moro), certamente si è attivata la P2, il cui scopo statutario era impedire in ogni modo che i comunisti andassero al potere, e quindi occorreva bloccare il «compromesso storico» di Moro. E sicuramente si sono mossi anche i servizi segreti di mezza Europa. Cosa ci faceva in via Fani il colonnello Camillo Guglielmi che in Sardegna, a Capo Marrargiu, addestrava i «gladiatori» (gli uomini di «Gladio», la struttura «coperta» anti comunista ndr.) alle tecniche di imboscata«. I servizi segreti hanno sempre negato ogni coinvolgimento...
«E le pare che un rapimento di quelle dimensioni potesse avvenire senza che i servizi segreti, che avevano sicuramente degli infiltrati, non ne sapessero nulla? Non ci crede nemmeno un bambino. Chi poi abbia dato la luce verde all'operazione non lo so. Non spetta a me, spetta agli inquirenti accertarlo. Noi abbiamo snocciolato una serie di coincidenze che dovrebbero far riflettere». Queste cose però sono già state dette, questi sospetti sono già stati avanzati. «Ma il film è il primo tentativo onesto di dare uno «sguardo dalla torre», di vedere le cose dall'alto nel loro insieme, in una ricostruzione più ampia. Però non dispero, i film sono come i fiumi carsici, a volte scompaiono, si infilano sottoterra, poi riemergono alla luce del sole... il film c'è, ci sono le cassette e i dvd, magari qualcuno prima o poi vorrà approfondire la cosa».
Lei non è mai stato convocato da alcun magistrato? «Mai, e sì che me l'aspettavo, dopo aver smentito il fatto del tamponamento e aver svelato i due killer «ombra». Non solo ma c'è un terzo giallo: i brigatisti avevano bloccato al traffico, con due 128 messe di traverso, l'alto e il basso di via Fani, i cosiddetti «cancelletti»; ma chi c'era a bloccare l'incrocio con via Stresa, da dove non è arrivata nessuna macchina durante l'agguato? C'erano evidentemente dei complici, mai apparsi nelle indagini. Avevo pensato, facendo questo film - dice ancora Martinelli - che avrebbe avuto una grande risonanza mediatica: usciamo proprio il 9 maggio, nel 25° anniversario dell'uccisione di Moro, chissà che baccano. E invece nulla. Il silenzio...». freccia rossa che punta in alto

26 Marzo 2004: C'ERAVAMO TANTO ODIATI (L'espresso)

Fra una manciata di giorni inizierà la registrazione di un evento per la tv destinato a far scalpore: un Iungo colloquio fra l'ex brigatista Adriana Faranda e il presidente emerito Francesco Cossiga che all'epoca del rapimento Moro (1979) - cui la Faranda partecipò - era ministro degli Interni. Non è ancora stabilito in quante puntate si tradurrà il colloquio che toccherà anche il "personale" e non solo il "politico" o la ricostruzione storica degli anni di piombo del terrorismo, né se darà il via a una serie di altre trasmissioni a due voci tra personaggi che si sono trovati su fronti opposti. La prima idea dell'incontro è venuta alla Faranda dopo aver visto il film di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, "Buongiorno notte". L'ex Br, che oggi fa la fotografa, ne ha casualmente parlato con Lucia Annunziata, incontrata in occasione della festa di compleanno della figlia della presidente Rai, presso il circolo del Polo di Roma, dove Faranda era stata incaricata di fare il servizio fotografico "ufficiale". La cosa non ebbe alcun seguito e solo dopo qualche tempo il progetto dell'evento - che sarà prodotto dalla Wilder - è stato ripreso e rielaborato da Faranda assieme a Mara Nanni, anch'essa un'ex terrorista. Corrado Formigli gestirà la discussione e Alex Infascelli ("Almost blue") ne curerà la regia. Non è ancora deciso se la trasmissione finirà su una rete Rai o Mediaset o Sky o su La7, ma si dice che l'idea sia piaciuta molto al direttore generale di viale Mazzini, Flavio Cattaneo. freccia rossa che punta in alto

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