Questo sito è accessibile da tutti i browser e dispositivi di navigazione Internet, ma il design e alcune funzionalità minori dell'interfaccia saranno visibili solo con i browser che rispettano gli standard definiti dal W3C.

This site will look much better in a browser that supports web standards, but it is accessible to any browser or Internet device.

Roberto bartali.it

Gennaio 2003

3 Gennaio 2003: (Corriere della Sera)

ROMA - Un «vertice» in Corsica tra vecchi brigatisti latitanti per mettere a fuoco strategie operative e stringere rapporti con i separatisti. Puntano decisamente sulla parte settentrionale dell'isola francese le indagini dei magistrati impegnati a dare un nome ai terroristi che hanno ucciso Massimo D'Antona e Marco Biagi. Il filone d'inchiesta che ha portato all'arresto, lo scorso 17 dicembre, dell'ex esponente di «Prima Linea» Michele Pegna sta facendo emergere collegamenti che hanno impresso un vertiginoso impulso alle verifiche sulle nuove Brigate Rosse. Insieme con Pegna, nel periodo primavera-estate del 2000, sarebbe stato segnalato nella zona di Ajaccio anche Alessio Casimirri: il brigatista, scappato nel 1983 nel Nicaragua, è stato condannato all'ergastolo per il sequestro di Aldo Moro, ma non è mai stato estradato dal Paese centroamericano. E sempre in quel periodo, esattamente il 2 giugno, è stato arrestato vicino ad Ajaccio, sulla spiaggia di Ile Rousse, Alvaro Loiacono, altro terrorista delle Br che deve scontare il carcere a vita per l'omicidio dello statista democristiano, ma che è sempre stato latitante tra Francia e Svizzera.
D'ANTONA - Lo sviluppo alle indagini sul ruolo che Pegna potrebbe aver avuto nelle nuove Br e nell'omicidio di Biagi (all'epoca di quello di D'Antona era ancora detenuto a Trani per una condanna a 16 anni) è arrivato grazie a due testimonianze. La prima è di Maria Lobascio, l'insegnante del penitenziario pugliese con la quale il presunto brigatista ha avuto una convivenza di alcuni mesi dopo essere stato liberato: la donna, oltre a ricordare che l'ex compagno le diceva di aver provveduto a procurarsi armi per il suo gruppo, ha raccontato ai funzionari della Digos di Roma che Pegna si vantava di aver appreso in carcere il contenuto della rivendicazione dell'omicidio di D'Antona firmata dalle Br. «Avevamo i nostri "sistemi" per nasconderla», avrebbe detto Pegna alla Lobascio alludendo ai metodi utilizzati dagli «irriducibili» detenuti a Trani per ricevere e occultare documenti da elaborare.
LA CORSICA - Ad aprire il fronte corso delle verifiche sono state invece le dichiarazioni di Lorenzo Musso, l'ex avvocato di Imperia arrestato per un duplice tentativo di sequestro di persona. È stato lui a dire che, dopo aver allacciato rapporti con il capo dei separatisti Jean Michel Rossi, quest'ultimo gli aveva mostrato le foto di due terroristi che erano stati ad Ajaccio nel primo semestre del 2000. Uno, poi riconosciuto da Musso durante un interrogatorio di fronte al pm Franco Ionta, sarebbe Pegna. L'altro, secondo gli inquirenti, poteva essere Casimirri (ma Musso non lo ha riconosciuto). Pegna ieri si è fatto interrogare dal Tribunale del Riesame che deve decidere se liberarlo: «Non sono mai stato in Corsica», ha detto ricordando di non essersi «dissociato dalla lotta armata» ma aggiungendo che «quest'ultima va condotta in maniera più complessa» e ribadendo che era «in pensione» dalla scarcerazione. La decisione del Tribunale del Riesame è attesa per oggi. freccia rossa che punta in alto

(La Gazzetta di Reggio)

Un volantino con la scritta "Nuclei Territoriali Antimperialisti" e con il disegno di una stella a cinque punte iscritta in un cerchio è stato recapitato ieri, per posta prioritaria, alla redazione del quotidiano "Il Piccolo" di Trieste. Il volantino, che rivendica come proprio degli Nta "l'intero portato storico, politico e militare delle Br e delle Br-Pcc", è stato sequestrato dagli investigatori della Digos della Questura di Trieste che stanno facendo accertamenti e indagini per verificarne attendibilità e autenticità. Al volantino (che fa anche riferimento al settembre 2001, ai delitti D'Antona e Biagi, all'attentato alla Questura di Genova e ai "Lavori della Direzione Strategica Allargata Nta" che si sarebbe svolta il 26 dicembre scorso) è allegato un foglio nel quale sono rivolte minacce, in maniera implicita, ad alcuni magistrati. Intanto prosegue l'inchiesta della Procura di Bologna sull'uccisione del professor Marco Biagi, docente dell'università di Modena e Reggio. Alcuni componenti del pool investigativo sono andati nei giorni scorsi in Puglia per interrogare tre giovani salentini che erano nel capoluogo emiliano la sera del 19 marzo 2002, quando il consulente del ministero del Lavoro venne ucciso dalle Brigate rosse. A quanto si è appreso, i tre, tutti residenti nel sud del Salento, sarebbero stati individuati grazie ai filmati della telecamera a circuito chiuso della stazione ferroviaria di Bologna che sono stati esaminati dal pool investigativo per identificare le persone che erano nella stazione nelle ore precedenti e successive all'omicidio. L'arrivo degli investigatori nel Salento risalirebbe a venerdì, ma la notizia è trapelata solo ieri. Ai tre salentini sarebbe stato chiesto di motivare la loro presenza a Bologna la sera dell'omicidio e se sul treno in partenza e diretto nel capoluogo salentino avessero notato qualcosa di strano. L'interrogatorio alla questura di Lecce, secondo quanto si è appreso, avrebbe riguardato in particolare un giovane salentino che lavora saltuariamente in una pizzeria a Bologna. Il giovane ha precedenti penali ed è conosciuto anche dalle forze dell'ordine di Lecce. Sull'altro fronte delle indagini, quello che riguarda Michele Pegna (che nega di avere a che fare con il caso Biagi e attualmente si trova a Sulmona per scontare un anno di casa-lavoro) ieri si sono sapute le motivazioni del tribunale del riesame che il 2 gennaio ha ordinato la scarcerazione. Mancata trasmissione degli atti compiuti prima dell'emissione dell'ordinanza di custodia cautelare (22 ottobre 2002) e della trascrizione del verbale di interrogatorio del 20 dicembre. freccia rossa che punta in alto

9 Gennaio 2003: (tratto da Misteri d'Italia)
MICHELE PEGNA: BRIGATISTA PER FORZA

La nuvoletta di Fantozzi, quella della sfiga più nera, continua ad aleggiare su piazzale Clodio, sede della procura di Roma, che ormai da quasi quattro anni, con risultati a dir poco disastrosi, indaga sull'omicidio di Massimo D'Antona, prima vittima delle nuove Brigate Rosse. L'ultimo colpo ai vani tentativi di imboccare una pista decente in questa inchiesta ormai fredda è venuto dal Tribunale del Riesame di Roma che, per una questione di procedura - un cavillo come amano definirla coloro che non credono che la giustizia sostanziale sia anche giustizia formale - ha scarcerato Michele Pegna, 42 anni, ex terrorista, sospettato dalla procura di Roma di essere implicato nel delitto D'Antona. Il difetto di procedura è presto spiegato: l'ufficio del Pubblico Ministero non aveva trasmesso al Tribunale del Riesame alcuni atti dell'inchiesta, in particolare quelli su cui si basa l'ordinanza di custodia cautelare. Una "dimenticanza" non da poco e comunque in grado di mettere il Tribunale del Riesame nell'impossibilità di capire cosa riesaminare. Una "dimenticanza" che forse dimostra lo scarso interesse della stessa procura per un imputato contro il quale esistono indizi tanto esili e labili da essere inesistenti. UN CAVILLO PROVVIDENZIALE - In questo senso la decisione del Tribunale del Riesame di Roma di far uscire Pegna di scena (resterà in carcere a Sulmona per scontare un residuo di un anno di pena) può apparire salvifico per una procura che stava per imboccare l'ennesimo vicolo senza uscita, per edificare l'ennesimo teorema senza costrutto, insomma, per fare un nuova, enorme, mastodontica brutta figura, per l'esattezza la quinta. In precedenza, infatti, il pool antiterrorismo guidato dal procuratore aggiunto Italo Ormanni (inchieste sui delitti, tutti rimasti insoluti, di via Poma, Olgiata, Di Veroli) aveva sbagliato tutti i filoni di indagine aperti, a cominciare dall'arresto di Alessandro Geri per finire con quello dei militanti di Iniziativa Comunista, passando per la disastrosa inchiesta sul CARC e su quella, subito abortita, su Giorgio Panizzari. Quattro clamorosi buchi nell'acqua. Ora alla guida del pool antiterrorismo della procura di Roma è arrivato (dal 13 dicembre scorso) Franco Ionta. CHI È MICHELE PEGNA? Il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu, come al solito enfatico, lo ha definito "un personaggio di grande spicco". In realtà Michele Pegna è stato un militante di basso rango del partito armato, passato per esperienze politicamente molto diverse tra loro. Aveva cominciato a battere la strada della lotta armata sul finire dell'esperienza del fenomeno dell'eversione rossa italiana, cioè all'inizio degli anni Ottanta, militando prima in Prima Linea e poi nei COLP, i Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria, un piccolo gruppo dedito soprattutto a rapine di autofinanziamento, privo di strategia e programma politici, fondato, appunto, dopo la sconfitta di Prima Linea e rimasto in attività per poco più di un anno, i cui personaggi di maggior rilievo furono Susanna Ronconi e Lucio Di Giacomo, quest'ultimo ucciso dopo una rapina (ancora appunto) nel 1982. È questo l'anno in cui Michele Pegna viene arrestato per la prima volta per l'attività di Prima Linea a Bologna. Il secondo arresto è di due anni dopo, il 9 febbraio 1984. Pegna ha 25 anni, originario di Reggio Calabria, è uno studente del Dams di Bologna ed è legato sentimentalmente a Elisabetta Pina Pau, una ragazza sarda anch'essa studentessa a Bologna, già arrestata il 28 ottobre 1982 assieme proprio a Susanna Ronconi. Pegna viene catturato a Milano, in una via attorno al Castello sforzesco, con addosso una pistola ed una bomba a mano. Fin dal primo processo subito per direttissima per detenzione d'armi, il 2 aprile del 1984 (verrà condannato a dieci anni di reclusione più un anno di libertà vigilata), Pegna si schiera apertamente con i duri, i cosiddetti irriducibili. Alla prima udienza viene espulso dall'aula per insulti alla Corte, assieme ad un altro detenuto che aveva cercato di aggredire un "pentito" dell'organizzazione. Più volte processato, Pegna colleziona altre condanne per un totale di 16 anni di detenzione, ma resta un irriducibile, tanto che ancora nel 1988, durante il processo al troncone bolognese di Prima Linea, su 43 imputati è lui l'unico a non aver mai ripudiato la lotta armata. È nell'udienza del 1 marzo di quell'anno che Michele Pegna legge un documento sulla necessità di "costruire e rafforzare il fronte rivoluzionario antimperialista". Il documento sostiene che "in questi anni i prigionieri comunisti di Action Directe stanno lottando contro il tentativo di annientamento dell'antagonismo proletario e rivoluzionario e contro le sezioni di isolamento e di sicurezza rinforzata; il nocciolo duro del carcere imperialista e cioè l'individuazione, la differenziazione, l'isolamento". "La lotta dei compagni di Action Directe - afferma ancora Pegna - si allaccia alla lotta portata avanti dai compagni della RAF (Rote Armee Fraktion), dalle Cellule Comuniste Combattenti belghe e dai compagni spagnoli e noi, prigionieri della guerriglia italiana, esprimiamo la nostra solidarietà attiva alla lotta dei prigionieri della guerriglia in Europa occidentale come momento specifico della lotta complessiva alla borghesia imperialista. Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo". Nei 16 anni trascorsi in prigione, Pegna passerà prima nel gruppo di Guerriglia Metropolitana per il Comunismo ed infine - secondo gli investigatori - nelle Brigate Rosse - Partito Comunista Combattente, la cui adesione sarebbe avvenuta durante la detenzione a Trani dove avrebbe conosciuto quattro brigatisti anch'essi dell'area irriducibile: Antonino Fosso, Francesco Donati, Michele Mazzei e Franco Galloni, tutti ancora detenuti. Tornato in libertà il 14 gennaio 2000, avendo scontato l'intera pena inflittagli, Pegna avrebbe dovuto recarsi a Bologna (dove risulta residente) per adempiere agli obblighi imposti dall'autorità giudiziaria, dovendo comunque scontare ancora un anno di libertà vigilata. Ma a Bologna Pegna non arriverà mai, preferendo stabilirsi nel napoletano. Attenzione, però, Pegna non entra in clandestinità, né si dà alla latitanza, come - con la solita superficialità - hanno scritto i giornali. Si stabilisce prima a nella zona di Ponticelli, periferia di Napoli e poi a Portici dove vive con tanto di nome sulla targhetta della porta della sua abitazione. Quando il 17 dicembre scorso lo arrestano, è da diversi giorni che il suo legale, l'avv. Mario D'Alessandro, ha comunicato alla questura di Napoli che il suo assistito intende costituirsi. Ma che terrorista sarebbe mai un terrorista che si costituisce? Ecco perché la polizia ignora le comunicazioni del legale di Pegna e preferisce arrestarlo con un'operazione in grande stile e di assoluta inutilità cui partecipano - nientemeno - agenti delle Digos di Roma, Napoli e Bologna, oltre a funzionari del pool bolognese che indagano sull'assassinio di Marco Biagi. Uno spiegamento di forze ridicolo, con tanto di quartieri militarizzati e piazze circondate, per un uomo che al momento dell'arresto non è armato, non custodisce armi da nessuna parte e mostra i suoi documenti assolutamente legali. Con grande dolore della procura di Roma tra il 14 gennaio 2000, data della sua scarcerazione ed il 17 dicembre 2002, data del suo arresto, Michele Pegna è sempre vissuto alla luce del sole, spostandosi, al massimo, nel triangolo tra Napoli, Portici e Ponticelli, sempre con documenti legali e lavorando nel settore della grande distribuzione. Da un anno e mezzo, poi, Pegna viveva con una donna, un'impiegata di una ditta di forniture alimentari, dove l'ex terrorista aveva lavorato. COME SI È ARRIVATI AL SUO ARRESTO: UN'INCHIESTA CERVELLOTICA - La storia dell'indagine che porta all'arresto di Michele Pegna ha dell'incredibile ed è l'ennesima dimostrazione di come ormai le inchieste degli investigatori italiani siano fredde, prive di capacità investigative (appunto!) e soprattutto siano fatte interamente a tavolino. Se non c'è il "pentito" di turno che racconta tutto, allora si procede per teoremi. Per fortuna di tutti si tratta di teoremi solitamente destinati al fallimento più totale. Il TEOREMA PEGNA è presto spiegato. Ha una parolina magica da cui cominciare. La parolina magica è: Bologna. Dal giorno dell'omicidio di Marco Biagi (19 marzo 2002), quindi da nove mesi, gli investigatori bolognesi, polizia e carabinieri, pestano acqua nel mortaio. Non c'è un solo indizio, purtroppo, che gli assassini del collaboratore del ministro Maroni abbiano lasciato dietro di loro. Nulla. Avendo perso anche a Bologna sia le memorie degli anni del terrorismo, sia le "voci" interne agli ambienti contigui a quel poco che resta di lotta armata in Italia, non è restato altro agli investigatori che affidarsi alle solite indagini induttive, tutte fatte a tavolino. Dal momento che Biagi è morto a Bologna sono stati rispolverati i vecchi fascicoli dell'estremismo di sinistra bolognese. Tra i tanti nomi, quasi tutti ex di Prima Linea e dell'autonomia operaia (le BR a Bologna non hanno mai avuto neppure una base), ecco spuntare quello di Michele Pegna. L'attenzione degli investigatori si ferma su questo nome per un particolare insignificante quanto cervellotico, ma comunque suggestivo. Per spiegare questo particolare è necessario fare una premessa: come tutti i detenuti condannati con sentenza definitiva ad una pensa superiore ai cinque anni, anche Michele Pegna ha dovuto nominare un proprio tutore legale che curi i suoi interessi mentre si trova in carcere. Si dà il caso che il figlio del tutore di Michele Pegna frequenti la stessa classe e sia molto amico del figlio minore di Marco Biagi. Gli investigatori bolognesi, folgorati da cotanta scoperta, tirano le somme e ottengono un acutissimo due più due: Pegna - che non può essere accusato del delitto D'Antona perché all'epoca (20 maggio 1999) era detenuto - ha partecipato al delitto Biagi. A provarlo - e poi dicono dei teoremi... - sarebbe proprio il legame che passa tra il figlio del suo tutore ed il figlio di Biagi. A che cosa possa essere servita quell'amicizia tra due bambini nessuno lo spiega, ma intanto Michele Pegna finisce nel mirino dell'inchiesta Biagi. La clamorosa scoperta degli investigatori bolognesi arriva fino a Roma da dove - e non è la prima volta - la stessa fugge fino a finire sui giornali. Ancora da Roma parte l'ordine di custodia cautelare per lo stesso Pegna che il 31 ottobre 2002 viene accusato dei reati di "associazione sovversiva e banda armata" assieme a tre dei quattro brigatisti irriducibili detenuti a Trani di cui abbiamo già parlato, e cioè Fosso, Mazzei e Galloni che nel corso di un processo avevano assunto la paternità del delitto D'Antona. Se Pegna non ha potuto uccidere D'Antona perché era in carcere, certamente ha partecipato alla stesura del documento di rivendicazione. Questo l'altro pezzo del mosaico accusatorio, un semplice mosaico. Così labile che parlare di un castello accusatorio ci sembrerebbe perfino eccessivo. MA SU LA COLPEVOLEZZA DI PEGNA ORA LA PROCURA DI ROMA INSISTE - Nonostante l'ancora di salvezza loro lanciata dai giudici del Tribunale del Riesame, i magistrati della procura di Roma sembrano voler insistere ad accusare Pegna. E, invece, contro l'ex piellino di concreto c'è solo che il quadro indiziario su cui si basa l'accusa è di una debolezza disarmante. Eccolo: secondo il GIP Teresa Covatta - che aveva confermato l'arresto - Michele Pegna: cancellava dalla sua agendina nomi e numeri di telefono; evitava luoghi pubblici; strappava i biglietti dell'autobus appena usati; si dava da fare per trovare documenti falsi; aveva forti legami con la Francia; aveva raccontato di essere un trafficante di armi. Tutte azioni, queste, riferite ai magistrati da una ex fidanzata di Pegna, Maria Lobascio, che aveva conosciuto l'ex terrorista nel carcere di Trani, dove lei stessa insegnava. Inoltre, Michele Pegna - tornato libero dopo 16 anni di detenzione - aveva violato l'obbligo di presentarsi tre volte alla settimana alla questura di Bologna e si era trasferito a Napoli, dove - peraltro - conduceva una vita pubblica e con il suo vero nome. Altro accusatore di Pegna è Lorenzo Musso, un ex imprenditore che sta scontando una condanna a sei di carcere per due tentati sequestri di persona. Secondo Musso, l'ex piellino sarebbe stato vicino agli ambienti dell'indipendentismo corso, tanto da aver lasciato la sua fotografia ad un esponente dell'Armata Corsa (morto nel 2001 e che quindi non può smentire), che gliela avrebbe mostrata, assieme a quella di un altro brigatista, senza però fargli il nome di Pegna. Riuscite ad immaginare un ex terrorista che intende tornare alla lotta armata comportarsi in un modo simile? Un altro elemento considerato "forte" dalla procura di Roma era la forte somiglianza a Simonetta Giorgieri - altra ex brigatista sulla lista dei ricercati - a cui Michele Pegna era solito accompagnarsi. E bastato che i magistrati incontrassero l'attuale fidanzata di Pegna per ricredersi: la donna - effettivamente - sembra la sorella gemella della Giorgieri, ma non è la Giorgieri. Tutto qui. Intanto le inchieste sui delitti D'Antona e Biagi continuano a cllezionare buchi nell'acqua. freccia rossa che punta in alto

16 Gennaio 2003:

Il prossimo 16 marzo saranno 25 anni dal rapimento (e successivo assassinio) del leader democristiano Aldo Moro da parte delle Brigate rosse di Mario Moretti e di chissà chi altro. Già si annunciano libri-inchiesta, ricostruzioni, saggi. A bruciare tutti sul traguardo delle librerie sono stati, in apertura del 2003, il giornalista Giovanni Fasanella, che tra l'altro ha al suo attivo una brillante e giustamente irrispettosa biografia di Massimo D'Alema, e lo sceneggiatore, regista e docente di Storia dello spettacolo Giuseppe Rocca. I due hanno affrontato la enigmatica figura di Igor Markevic, il defunto direttore d'orchestra dal presidente diessino della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino indicato come il possibile intermediario fiorentino con i brigatisti che tenevano Moro prigioniero. Figura controversa, quella del raffinato musicista, dal passato di gran profilo, tra gli intrighi di spie, eccelsi intellettuali, uomini corrotti, doppiogiochisti e faccendieri d'alto lignaggio. Il libro non sembra arrivare a conclusioni certe, ma ricostruisce con fedeltà la straordinaria figura di Markevic, enigmatico protagonista di insospettate avventure internazionali. (m.d.l.) Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca "Il misterioso intermediario". freccia rossa che punta in alto

19 Gennaio 2003: (Giornale di Vicenza)
Resistenza rossa, un messaggio per posta celere: Con uno stile improntato agli Anni di Piombo annuncia la nascita della «Colonna Trieste».

«Portare l'attacco allo stato imperialista delle multinazionali. Organizzare una nuova resistenza popolare. Lo sciopero non basta, bisogna organizzarsi e combattere». Sono alcuni degli slogan che accompagnano il messaggio in cui si annuncia la nascita di una «Colonna Trieste, per il comunismo, resistenza rossa», recapitato ieri per posta prioritaria alla redazione del nostro giornale. La busta e il messaggio sono stati sequestrati dalla Digos. La data del messaggio, di cui si chiede la pubblicazione, porta la data dell'11 gennaio, mentre la lettera è timbrata 17. «Combattere è rimasto il solo modo per fermare lo sfruttamento - annuncia il messaggio - colpire la progettualità dello stato fascista, i padroni, i loro servi e riportare la legalità e la dignità al popolo. È arrivato il momento di agire in modo diretto e deciso, colpire al cuore lo stato!». Il linguaggio ricorda gli appelli delle Brigate Rosse della prima ora. Con tanto di attacco al sindacato. Infatti invita a «Agire in modo organizzato deciso e cosciente, è inutile minacciare a parole o sperare di ottenere risultati con qualche sciopero organizzato dai servi dei padroni. Sono tutti vulnerabili...». Tanta violenza si configura così: «In questa fase la pratica della guerriglia e della lotta armata è l'unica politica efficace che possa affrontare e risolvere la contraddizione che oppone il popolo e le classi deboli agli sfruttatori imperialisti, ai loro massacri e alla politica fallimentare di partiti e confederazioni sindacali». La conclusione richiama alla mente gli anni di piombo: «La guerra che stiamo avviando come avanguardia rivoluzionaria renderà più visibili le pratiche di repressione che sono adottate da questa democrazia che mette in ginocchio il popolo nelle espressioni di lotta, come dimostrano le torture di Genova, le città in stato d'assedio, lo scatenarsi dei corpi speciali, le leggi speciali, i tribunali speciali, la schedatura e lo spionaggio, una guerra scatenata dal regime per fermare la rivoluzione che vuole liberare il popolo e riprendere il potere». freccia rossa che punta in alto

20 Gennaio 2003:

La storia delle Brigate rosse dalla loro formazione, a cavallo delle lotte studentesche e operaie nel '69-'70 fino alla cattura dei capi storici tra il 1975 e 1976. BR: Imputazione Banda armata di Vincenzo Tessandori, scritto a caldo nel 1977, in una fase che potremmo definire di transizione della lotta armata in Italia, torna alle stampe per Baldini&Castoldi con aggiornamenti e una postfazione dell'autore alla luce di quelli che furono gli avvenimenti del periodo (il movimento del '77, la violenza diffusa, il rapimento Moro e la sconfitta del partito armato nei primi anni '80) e di quelli di oggi, dove si assiste ad una recrudescenza del terrorismo culminata con gli assassinii di Massimo D'Antona e di Marco Biagi. L'analisi si svolge direttamente sui testi scritti dai brigatisti, sui numerosi volantini e comunicati distribuiti nelle fabbriche, recapitati alle redazioni dei quotidiani o lasciate sul luogo del delitto per rivendicare il valore politico del gesto. Viene analizzato il cosiddetto "brigatese", il linguaggio urlato e contorto che i terroristi usavano, e ne viene seguita l'evoluzione. Dai semplici proclami degli inizi che inneggiano alla lotta armata per il comunismo, alle oscure analisi politiche che profetizzano la crisi imminente del SIM (Stato imperialista delle multinazionali) e la necessità della rivoluzione proletaria nella fase più avanzata della lotta armata. Uno sviluppo che va di pari passo con i metodi di lotta: dai roghi di auto di dirigenti delle aziende e di sindacalisti di destra, ai rapimenti e ai processi del popolo, fino all'omicidio. Non a caso l'autore sceglie come incipit del saggio un episodio spartiacque: il primo omicidio firmato BR, quello del procuratore Francesco Coco, "giustiziato" per essersi opposto al rilascio di alcuni terroristi all'epoca del sequestro di Mario Sossi. Tessandori ripercorre anche quelle che sono le varie anime di questa formazione, quella proveniente dalla fucina rivoluzionaria dell'università di Trento e da cui uscirono Margherita Cagol, Renato Curcio e Corrado Simioni, quella proveniente dalle fabbriche (Sit-Siemens, Pirelli e Fiat), agitate dagli scioperi e dalle lotte sindacali e che furono una palestra per Mario Moretti, Roberto Ognibene, Giorgio Semeria, e dalle ali più dure del PCI e del Movimento Studentesco (come accadde per Alberto Franceschini). Come reagirono forze dell'ordine e media? Anche in questo caso, racconta Tessandori, assistiamo ad un'evoluzione notevole: dalla sottovalutazione degli episodi criminosi, liquidati all'inizio come semplici atti vandalici, alla presa di coscienza che le "fantomatiche" Brigate rosse erano una realtà concreta e pericolosa. Lo Stato passa all'offensiva attraverso la creazione di corpi speciali guidati da un pool di uomini agguerriti (tra gli altri, il procuratore Giancarlo Caselli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), che in poco tempo riescono a sgominare il nucleo cosidetto "storico" delle BR (finiscono in manette Franceschini, Curcio, Semeria, Carlo Fioroni, Ognibene, mentre la Cagol muore durante uno scontro a fuoco), lasciando la formazione decapitata e indebolita tra il '75 e il '76. Lo studio di Tessandori si ferma al '77, il periodo della seconda ondata di proteste studentesche e operaie: sono gli anni degli espropri proletari, della violenza diffusa, di nuove formazioni, come Autonomia operaia e Prima linea, che teorizzano l'insurrezione urbana e di massa. Sarà anche l'anno della riorganizzazione delle Brigate rosse. I superstiti, Moretti, Adriana Faranda, Barbara Balzerani, e altri decidono di strutturarsi come un vero e proprio esercito clandestino, esasperando la compartimentazione e la militarizzazione delle "colonne" e scegliendo bersagli più ambiziosi. Saranno in tanti a cadere sotto l'implacabile fuoco delle P38. freccia rossa che punta in alto

23 Gennaio 2003: (La Padania)

Ricordate la grottesca seduta spiritica alla quale partecipò Romano Prodi ai tempi del sequestro Moro? Si è sempre ritenuto che quella strana riunione fosse servita, coprendo la fonte, a inviare un'informazione agli inquirenti. Così non fu. O almeno così non fu secondo il parere di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, autori del libro Il misterioso intermediario (Einaudi edizioni, 264 pagine, 14 euro), che nel loro volume in libreria dalla settimana scorsa offrono al lettore una ricostruzione sorprendente e inquietante allo stesso tempo: le rivelazioni di Moro al "tribunale" delle Brigate Rosse rischiavano di destabilizzare l'ordine mondiale e i poteri forti decisero di intervenire attraverso Igor Markevic, il direttore d'orchestra al centro di mille intrecci che nel libro viene descritto come gran cerimoniere di una politica parallela all'interno della quale massoneria, alta finanza e servizi segreti si univano senza lasciare traccia al fine di perseguire uno scopo comune. Di seguito, riportiamo alcuni brani del capitolo che ricostruisce con dovizia di particolari proprio quell'oscuro episodio. «Era il 2 aprile. In pieno allarme internazionale per le rivelazioni del presidente democristiano, in Italia pareva che non si potesse far altro che affidarsi a fluidi paranormali. E così, mentre attorno a Roma un sensitivo, chiamato dal governo, cercava Moro con tecniche da rabdomante, una risposta arrivò dall'Appennino emiliano. Qui, in una casa di villeggiatura, un pacioso gruppo di amici, dopo aver mangiato, insieme alle rispettive famiglie non sapeva cosa fare: il tempo si era guastato e avevano dovuto rinunciare alla prevista passeggiata. Così, tra le chiacchiere delle mogli e il chiasso dei bambini, avevano deciso di fare una seduta spiritica. Avevano messo un piattino da caffè al centro di un grande foglio, ai cui bordi erano state scritte le lettere dell'alfabeto, vi avevano puntato tutti un dito sopra e avevano cominciato a porgli domande sull'onorevole Moro e sulla sua sorte. La cosa strana è che quegli amici erano quasi tutti serissimi docenti universitari e che fra loro c'erano un futuro presidente del Consiglio, Romano Prodi, e un futuro ministro, Alberto Clò. Il piattino aveva cominciato a correre con grande decisione da una all'altra delle lettere e aveva composto un nome: G-R-A-D-O-L-I». Ovvero, tanto per capirci, mentre politica ed economia internazionali tremavano sulle sedie per le rivelazioni dello statista democristiano un gruppo ben assortito di luminari accademici scherzava con un piattino attorno alla vita di Moro. No, troppo stupido per essere vero. I signori facevano sul serio e proprio per questo va escluso che le loro energie paranormali fossero indirizzate verso gli spiriti di Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira per farsi rivelare il luogo in cui Moro era tenuto prigioniero. No, c'era qualcos'altro, qualcosa di inconfessabile. Qualcosa che non poteva essere comunicato né con una lettera né con una telefonata anonime? Qualcosa di talmente grave e segreto da non poter essere reso noto nemmeno attraverso il passaparola nelle alte sfere. Ma cosa? Prosegue il libro.
«Viene da chiedersi, allora, se sia possibile leggere in qualche altro modo quel messaggio. Lo si potrebbe, per esempio, prendere alla lettera, per quello che è: un messaggio esoterico, appunto, cioè in codice. La seduta spiritica avrebbe segnalato, allora, a chi era in grado di capirlo, che quell'indicazione poteva essere decifrata solo da chi, interno o esterno al gruppo, fosse iniziato a quel particolare linguaggio cifrato. Se il codice fosse stato, per esempio, quello rosacrociano, le lettere indicate dal piattino avrebbero potuto non formare il nome del paesino sul lago di Bolsena, ma essere lette come GRADO-LI (grado 51). Si sarebbe rinviato, cioè, a un livello ancora più occulto del trentatreesimo, il gradino più alto della gerarchia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado LI? Un rarissimo testo pubblicato in Francia intorno al 1870 da Ély Star (pseudonimo di un seguace di Péladan e di Flammarion), Les mysteres de l'horoscope, svela che il Grado LI corrisponde al Maître du Glaive, il Signore del Gladio. E l'ipotesi può acquistare una sua perturbante suggestione se si pensa appunto alla rete segreta Gladio e alla circostanza che al numero 68 di via Gradoli abita il pittore Ivan Mosca della loggia Monte di Sion, gran maestro, con il nome esoterico Hermetico, dell'Ordine dei Cavalieri massoni eletti Cohen dell'Universo, confraternita in rapporto di fratellanza con i Rosacroce». Letto così e riferito alla situazione internazionale, quel messaggio poteva essere interpretato in due modi: o come una richiesta di intervento rivolta al fantomatico Signore di quella organizzazione; oppure come l'annuncio che il Grado LI stava per muoversi». Più avanti scopriremo che la giusta chiave di lettura dell'intera vicenda risiede nella seconda ipotesi, ma ora cerchiamo di capire - sempre attraverso ampi stralci del libro di Fasanella e Rocca - quale fosse il retroterra politico ed esoterico che portò alla seduta, quale fosse l'ambiente da cui provenivano i vari protagonisti, Romano Prodi in primis. Ecco il testo.
«È noto, per esempio, quanto il professor Prodi sia vicino, per formazione e rapporti, ad ambienti finanziari anglo-americani, in particolare alla London School of Economics. Il prestigioso istituto di formazione finanziaria era nato, nell'alveo di un'altra organizzazione, la Fabian Society, insieme alla Round Table. Alla stessa area di influenza può essere riportato anche un gruppo assai vicino a Prodi, quello del Mulino. L'associazione bolognese di cultura, infatti, nel 1965 era stata tra i fondatori, con il centro studi Nord-Sud e la Fondazione Olivetti, dell'Istituto affari internazionali, promosso da Altiero Spinelli come filiazione italiana del Royal institute of international affairs (Riia). L'idea del Riia era nata a Parigi nel 1919, durante la Conferenza della pace, quando il colonnello Edward House, plenipotenziario del presidente Woodrow Wilson, aveva riunito all'Hotel Majestic un gruppo di delegati anglofoni suoi confratelli della Round Table. Tra loro, oltre a Bernhard Berenson, gran protettore di Markevic, c'era anche lord Esme Howard, padre di Hubert, il dominus rector di quel Palazzo Caetani attorno al quale ruotano tutti gli enigmi del caso Moro. Era Hubert Howard, il Grado LI, fonte o destinatario del messaggio del piattino? Era lui il Signore del Gladio indicato con la seduta spiritica?... Proprio a ridosso di quell'episodio, Hubert Howard ebbe un contatto con il governo italiano. Non si sa se sia stato chiamato o se sia stato lui a proporsi, magari per comunicare che da quel momento la cosa era in mano a poteri più forti e che non erano gradite interferenze. In qualunque modo siano andati i fatti, è molto probabile che sia stato appunto quell'incontro a segnare l'entrata in azione di Howard e delle due istanze che egli rappresentava. Istanze che lo legavano entrambe a Igor Markevic molto più strettamente di quanto non facesse un matrimonio con due cugine. È probabile, infatti, che l'immagine di Howard come principe consorte di Lelia Caetani celasse altri livelli di operatività. Se il vero compito di Howard a Roma fosse stato quello di fare da tramite fra la Gladio italiana e la rete Stay-behind e insieme l'Authority di quel sistema di protezione?». I templi del mondialismo, gli illuminati del mondo, avevano deciso che il tempo degli indugi era terminato. Bisognava intervenire e per farlo era necessario muovere i propri uomini migliori, i "fratelli" di più alto grado e di più fidata esperienza. In ballo non c'era soltanto la stabilità italiana ma la sinarchia, cioè l'idea di un Governo mondiale. Di questo pensiero (la sinarchia, ndr) si trovò una sistematica esposizione in un documento segreto venuto alla luce nel 1935: si intitolava Pacte Synarchique ed enunciava i principi e la strategia per diffondere, in tappe successive, l'Ordine nuovo in tutto il mondo. La gradualità come elemento decisivo per il compimento di un progetto così ambizioso e globale era stata messa a punto dalla Fabian Society, che prese il nome proprio da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore e puntò molto sulla formazione: The London School of Economics fu una sua creazione e divenne modello per molte università, tra le quali Harvard. Magia, politica parallela, intrigo e altissima finanza. Un insieme esplosivo che trovò dimora, in quel periodo oscuro, in una "città magica". «Nel 1978, Howard appariva solo un gentiluomo di campagna, dedito al riordino e all'amministrazione dell'ingente patrimonio della moglie Lelia (morta l'anno prima), con la quale da molto tempo si era ritirato nel feudo di Sermoneta. Qui i due avevano dedicato tutte le loro cure allo splendido giardino di Ninfa, fatto nascere da Marguerite Chapin tra le rovine di una città morta, che Gregorovius definì «la Pompei del Medioevo». I ruderi, secondo molte voci, ospitavano spesso sedute spiritiche e questo contribuiva ad aumentare la suggestione di quel luogo remoto e protetto. In quest'oasi Hubert Howard è vissuto appartato, ma niente affatto isolato. Molti dei frequentatori erano dello Iai (Istituto affari internazionali), altri della Trilateral, delle Conferenze Bilderberg, l'Istituto Atlantico, il Club di Roma fondato e presieduto da Aurelio Peccei. Tutte sigle che in vario modo discendono dal mondialismo della Fabian Society, attraverso la Round Table e il Royal institute of international affairs e costituiscono in Italia una sorta di trasversale "partito angloamericano". Ecco, allora: dopo che si era avuta la certezza che le rivelazioni di Moro toccavano punti vitali per la sicurezza del Patto Atlantico, questo schieramento angloamericano si era mosso e aveva attivato il Signore di Gladio. Che si ricordò di un'altra situazione difficile, nella Firenze occupata dai tedeschi, e di un giovane artista che lo aveva aiutato a uscirne, Igor Markevic. Hubert e Igor, dunque, di nuovo insieme, come 34 anni prima, a trattare ancora una volta sulla sorte di un ostaggio eccellente: durante la guerra, i tesori di Firenze in mano ai nazisti; nella primavera del 1978, Moro in mano ai brigatisti rossi». Ecco finalmente entrare in scena Igor Markevic, direttore d'orchestra alla luce del sole ma mestatore nell'ombra, tramite massonico tra i potentati mondialisti e i brigatisti rossi, cerimoniere di un rito tanto segreto quanto radicato. Narra il libro: «Hubert sapeva che, dopo la trattativa per Firenze, Igor aveva mantenuto rapporti con ambienti americani e inglesi; che era intimo amico di Moshe Feldenkrais, il guaritore di Ben Gurion; che aveva intrecciato in Svizzera le relazioni più cosmopolite; e che aveva eccellenti rapporti con il governo francese da cui negli anni Sessanta aveva ricevuto la Legion d'Onore. Ma Hubert conosceva soprattutto i suoi legami viscerali con la Grande Madre Russia, confermati anche dalle dichiarazioni filosovietiche, al momento di assumere l'incarico a Santa Cecilia... Soprattutto, però, Hubert sapeva quali fossero i fini del misterioso Priorato di Sion, di cui Jean Cocteau, intimo amico e sodale di Igor, era stato Nautonnier (nocchiere, ndr). Ordine dalla fisionomia sfuggente e mutevole, durante la guerra era stato contattato anche dai servizi inglesi per organizzare la resistenza in Francia. Charles de Gaulle se n'era servito per la sua ascesa al potere. E gli americani avevano fatto proprie le due idee fondamentali del Priorato: agire nel campo della psicologia di massa e realizzare il grande disegno di una federazione di stati europei. Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, gli storici che hanno studiato questo ordine, ce lo descrivono come immerso da qualche tempo in una «sfera piuttosto tenebrosa», dove politica, massoneria, Cavalieri di Malta, Cia, Vaticano, alta finanza «si incontrano, si uniscono temporaneamente per uno scopo o per l'altro, poi riprendono la propria strada». Anche tutti questi fili del Priorato di Sion, negli anni Settanta, finivano con l'intrecciarsi dentro e attorno a Palazzo Caetani, in una ragnatela di discrete relazioni e di contatti insospettabili fra persone e istituzioni. Nella primavera del 1978, dunque, non poteva che essere convocata lì, a Palazzo Caetani e dintorni, la riunione sinarchica per risolvere i problemi aperti dal sequestro Moro. Su questo piano sovrannazionale Hubert Howard e Igor Markevic avrebbero governato l'intricata matassa di interessi e di posizioni che si aggrovigliavano nel caso Moro. In un'ipotetica divisione dei ruoli, è possibile che Igor agisse sul campo, per così dire, tornando a fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello politico delle Br, e Howard tenesse il controllo nella cabina di regia di Palazzo Caetani». Altro che piattini da caffè e sedute spiritiche da strapazzo: stando alle tesi contenute in questo libro, Prodi e i suoi sodali rappresentavano soltanto l'ultimo anello di una catena di comando mossa dai potentati mondialisti spaventati dall'ipotesi che Moro potesse continuare a parlare di fronte al "tribunale" delle Brigate Rosse e che molti segreti della politica parallela internazionale finissero in pasto all'opinione pubblica portando a un tracollo economico e a una nuova ipotesi di contrapposizione frontale tra i blocchi. La bocca di Moro, come sappiamo, fu chiusa per sempre: il mistero che avvolge la sua morte, invece, non troverà mai fine. freccia rossa che punta in alto

23 Gennaio 2003: (Il Secolo XIX)
Morto l'avvocato Lazagna, partigiano fino all'ultimo.

La Resistenza. Le grandi battaglie libertarie. Ma anche le accuse, poi cadute, di contiguità con il terrorismo; l'amicizia con Giangiacomo Feltrinelli, il confino. Il Sid del generale Miceli, che l'avrebbe voluto morto insieme al giudice Mario Sossi. Una vecchiaia serena: i libri, gli studi, l'insegnamento. C'è la storia d'Italia dalla guerra in poi, nell'esistenza di Giovanbattista Lazagna. È morto ieri all'ospedale di Novi, l'ex comandante della divisione partigiana Pinan Cichero, che in Valborbera aveva accettato la resa del presidio tedesco di Tortona.
Era nato a Genova; avvocato, aveva ottant'anni. Da tempo si era trasferito a Rocchetta Ligure; lì, proprio accanto all'istituto della Resistenza da lui ispirato, è stata allestita la camera ardente. Sabato i funerali. Lazagna fu parigiano con il nome di battaglia di Carlo. "Ponte Rotto" il suo racconto più celebre. Era il nome di una località all'imbocco della Valborbera che fu teatro di memorabili vicende, scontri aperti tra le forze tedesche e i reparti della Resistenza. Lazagna le visse, protagonista ventenne; poi le raccontò in un libro ristampato per otto edizioni. La politica, il Pci. Era, lo ricorda l'amico Giordano Bruschi, «un animo libertario, sognatore, che sognava un cambiamento radicale della società». Con Bruschi, infatti, si schiera nel '56 contro l'intervento sovietico in Ungheria. Allora, negli anni Cinquanta, è consigliere provinciale per due cicli amministrativi. Nel '60 gli scontri di Genova contro la formazione del governo Tambroni; Lazagna forma un comitato di avvocati per difendere i manifestanti inquisiti per gli scontri con la polizia. Poi l'amicizia con Feltrinelli, iniziata quasi per caso nel '67 e poi confermata dal tempo. Notti interminabili a discutere delle lotte rivoluzionarie in America Latina, sulla necessità di sostenerle. Feltrinelli muore sotto il traliccio di Segrate il 15 marzo '72. Il 22 Lazagna viene arrestato. È l'inchiesta "Gap-Br". Quando esce dal carcere, nel Ferragosto, è un uomo quasi finito. Cinque mesi di carcere lo hanno distrutto, moralmente e fisicamente. Ma la tempra del combattente, del partigiano «che ha seppellito solo momentaneamente le armi», lo salva. Nell'ottobre '74 un nuovo clamoroso colpo di scena. A Torino l'allora giudice istruttore Giancarlo Caselli lo fa arrestare. L'accusa: è il capo delle Brigate Rosse. Nel corso del processo "Carlo" denuncia un intrigo del Sid del generale Maletti: volevano uccidemi, spiega, insieme con il giudice Mario Sossi, nel covo dove le Br avevano imprigionato il magistrato. La sua lunghissima detenzione preventiva scatena reazioni di piazza. Anche Franca Rame e Dario Fo sfilano per chiederne la liberazione. Ottobre '75. Lazagna lascia il carcere, ma per il "confino". Soggiorno obbligato, proprio a Rocchetta Ligure. Tutte le accuse contro di lui, alla fine, cadranno. Lazagna, intanto, è divenuto docente di diritto all'Università di Urbino. Dopo la pensione si ritira a Rocchetta Ligure con la moglie. Diventa presidente dell'Anpi della Valborbera. L'ultima intervista è dell'anno scorso: «La mia Resistenza non finirà mai». freccia rossa che punta in alto

by abrapalabra