Questo sito è accessibile da tutti i browser e dispositivi di navigazione Internet, ma il design e alcune funzionalità minori dell'interfaccia saranno visibili solo con i browser che rispettano gli standard definiti dal W3C.

This site will look much better in a browser that supports web standards, but it is accessible to any browser or Internet device.

Roberto bartali.it

Febbraio 2003

11 febbraio 2003
MITROKHIN: FRAGALÀ, SILVESTRI, "NINO" E LA VICENDA MORO

- Enzo Fragalà (An) torna all'attacco. Per il componente della commissione di inchiesta sulla vicenda dell'archivio Mitrokhin il report n.14 del dossier, quello che parla della fonte "Nino", si riferisce a Stefano Silvestri già vicedirettore dello Iai e non, come riferito da Vladimir Strelkov, già agente del Kgb operante a Roma, ad un altro esponente dell'Istituto affari internazionali. Oggi, nella nuova tornata dell'audizione della dottoressa Maria Vozzi (Sismi) Fragalà ha respinto questa interpretazione, raccolta a suo tempo dal servizio segreto militare dallo stesso Strelkof. Il dossier Mitrokhin in sostanza parla - ha detto l'esponente di An - del "numero due dell'istituto" è cioè di Stefano Silvestri, poiché il numero uno, storicamente, è identificabile nella persona di Altiero Spinelli che fondò lo Iai nel 1975. "La scheda 14 si riferisce al 'deputy director' dello Iai. Il dossier Mitrokhin fornisce informazioni fino al 1984, anno in cui l'archivista del Kgb va in pensione. In quel periodo il 'deputy director' ,cioè il numero 2 dello Iai è Stefano Silvestri", che è quindi da identificare, secondo l'esponente di An, nella fonte "Nino". Quindi "Nino" non era Bonanni (come indicato da Strelkov) né Bonvicini, indicato come contatto di servizi dell'Est nell'ambito dello scandalo che coinvolse il consigliere dell'ex presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, e cioè lo studioso Ruggero Orfei, e che collaborava con lo Iai. Ma Fragalà, nella sua lunga arringa, ha evocato anche qualche 'filo' che porta direttamente alla vicenda Moro. Silvestri, sottosegretario alla difesa nel Governo Dini, nel 1978 fece parte del comitato di esperti che supportò il ministro dell'Interno Francesco Cossiga durante il rapimento del presidente della Dc, Aldo Moro. Uno dei suoi appunti, cioè una analisi sulle logiche e dinamiche del terrorismo, stilato come consulente di Cossiga, venne ritrovato nell'abitazione di Giuliana Conforto, in viale Giulio Cesare 44 a Roma, il giorno in cui vennero arrestati, nel maggio del 1979, Valerio Morucci ed Adriana Faranda (i "postini" durante i 55 giorni del sequestro Moro'). Giuliana Conforto è la figlia di Giorgio Conforto, l'agente Dario, uno dei più importanti e influenti capi della rete spionistica del Kgb in Italia, sottolinea Fragalà. Oggi è emerso che la dottoressa Vozzi, dipendente del Sismi dal 1995, partecipò all'operazione della squadra mobile di Roma che portò all'arresto di Morucci e Faranda nell'appartamento di Giuliana Conforto. Noi non sapevamo che l'appartamento - ha detto la funzionaria del Sismi - fosse della figlia di Conforto. Non ci arrivammo per il nome di lei, individuammo prima la zona, poi la strada. L'obiettivo erano due o tre appartamenti di quel palazzo, non mi pare che sia stato fatto all'epoca il nome di Conforto padre. Che poi sia stato fatto successivamente non lo so. Potrebbe averlo fatto la Digos. Fragala, durante l'odierna riunione della commissione Mitrokhin ha ipotizzato anche un contato dello Iai con uomini che furono coinvolti nelle indagini sull'attentato al Papa. "Nel febbraio 1982, nell'ambito delle indagini sulla 'pista bulgarà per l'attentato al Papa ed il rapimento del generale americano Dozier, emerse che Luigi Scricciolo, gia' indicato come in contatto con servizi segreti bulgari prestò attività di collaborazione allo Iai dal luglio 1975. Risulta da documenti che Silvestri e Scricciolo avessero in più di una occasione scambiato opinioni su argomenti delicati come la Nato e questioni legate al terrorismo, come il caso Dozier". Ma sulla questione la Vozzi ha detto di non avere specifici elementi. freccia rossa che punta in alto

13 Febbraio 2003 (La Stampa)

ROMA - Se la criminalità organizzata - Cosa Nostra innanzitutto - continua a praticare la strategia «dell'inabissamento», c'è invece qualcosa di nuovo nel panorama eversivo. Lo dicono i servizi nella relazione al Parlamento sulla sicurezza interna nel secondo semestre 2002. È in atto una evoluzione caratterizzata dal confronto - seppure «a distanza» - tra gruppi eversivi finora distinti. Ci sono le Br dei delitti D'Antona e Biagi e c'è poi un «fronte articolato dalle elevate potenzialità dirompenti» che comprende gli anarco-insurrezionalisti dell'attentato alla Questura di Genova del 9 dicembre scorso e dei pacchi-bomba, gli insurrezionalisti sardi, gli anarco-ambientalisti dell'attentato all'Abetone di qualche settimana fa e il variegato mondo dei movimenti antagonisti. Due facce del terrorismo interno. Quello strutturato e verticistico tipico delle Brigate Rosse e quello dello «spontaneismo» legato all'individualismo anarchico. I servizi stanno tenendo d'occhio «in uno sviluppo dinamico ancora tutto da chiarire, il confronto a distanza tra tali ambienti», «sinora esente da spinte aggregative, ma sempre incline a sfruttare il clima di violenta contrapposizione allo Stato». Stanno emergendo, avvertono i servizi, «frange di nuove leve che, prive di quel retroterra dottrinario e comportamentale tipico dell'ortodossia brigatista, potrebbero rendersi disponibili ad osmosi progettuali e convergenze tattiche». In questo contesto, quali sono i pericoli per la sicurezza interna? «Il quadro dell'eversione resta contrassegnato dall'elevata minaccia» rappresentata dalle Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente, sostenute sia dai brigatisti latitanti all'estero - «funzionali al progetto di costituzione del fronte combattente antimperialista» - sia dai detenuti irriducibili, che da un lato sono impegnati a rivitalizzare il «fronte delle carceri», dall'altro a garantire la continuità con le vecchie Br, nelle azioni della cosiddetta «avanguardia» con gli omicidi D'Antona e Biagi. Gli obiettivi, infatti, restano gli stessi di sempre. «È possibile - allertano i servizi - che i terroristi intendano sfruttare la risonanza del dibattito politico sui progetti di riforma istituzionale, su questioni occupazionali e sulla crisi Fiat, cercando ancora di colpire tra quanti, a livello politico, sindacale e imprenditoriale, sono più coinvolti nella ricerca di mediazioni e soluzioni». Sullo scontro sociale e sulle problematiche economiche - aggiungono gli 007 - «va emergendo il recupero di teorie e terminologie degli anni di piombo, cui potrebbero non essere estranei vecchi militanti di colonne Br». Sono in oltre oggetto di attenzione le frange di matrice Br del Nord Est, da sempre di dichiarata impronta antimperialista, che potrebbero, in concomitanza con l'eventuale conflitto in Iraq, colpire obiettivi legati a basi Usa e Nato ovvero a industrie del comparto militare. Sul fronte degli anarco-insurrezionalisti, secondo l'intelligence, si va delineando una sorta di «spontaneismo coordinato», che - pur prescindendo da un'organizzazione verticistica - «finisce col perseguire modelli e progetti omogenei». Un raccordo tra l'attività eversiva dei vari gruppi anarchici, sottolineata dal ministro dell'Interno Pisanu nella sua ultima audizione a Montecitorio un mese fa, e che ha trovato un ulteriore conferma con la sentenza del 2 febbraio scorso emessa dal tribunale di Roma, in cui per la prima volta un gruppo di anarchici è stato condannato per associazione eversiva e banda armata. «In questa cornice - prosegue la relazione - favorevole alla formazione di un unicum sentire, si realizzerebbe una conforme proiezione operativa che punterebbe a reiterare le `campagnÈ ritorsive contro la magistratura, gli apparati di prevenzione e il carcerario, cui si aggiungono istituti finanziari e quei media ritenuti funzionali al `poterÈ». Per quanto riguarda la criminalità organizzata, gli 007 rilevano in generale una tendenza a «ricomporre le reti delinquenziali a seguito dei numerosi colpi subiti» ed insieme «la necessità di interagire» con le organizzazioni estere, dalla mafia russa a quella albanese. In riferimento alla Sicilia, i servizi confermano «l'inabissamento strategico» di Cosa Nostra e mettono in guardia dalle rivelazioni dei nuovi pentiti che potrebbero puntare a colpire alcune cosche per favorire l'ascesa di altre. «Rimane da verificare - scrivono i servizi - l'impatto di due ultime collaborazioni di esponenti di rilievo. Non può escludersi che tali nuove sortite possano rispondere a strategie pilotate ai danni di talune componenti mafiose, finalizzate ad imprimere una svolta nell'organizzazione, delineando scenari inediti». freccia rossa che punta in alto

14 Febbraio 2003
MORTO AMMIRAGLIO FULVIO MARTINI, EX CAPO DEL SISMI

È morto l' ammiraglio Fulvio Martini, capo del Sismi dal 1984 al 1991. Lo confermano fonti della Marina. L' ammiraglio Fulvio Martini, nato a Trieste nel 1923, è stato uno dei più celebri e chiacchierati 007 italiani. Nel suo memoriale uscito nel 1999, 'Nome in codice: UlissÈ, Martini ha raccontato 30 anni di storia italiana vista dalla poltrona del Sid (Servizio di informazioni della Difesa) prima e del Sismi poi. Nominato guardiamarina nel 1944, fu imbarcato, durante la seconda guerra mondiale, prima sul 'Duilio', come ufficiale di rotta, e poi sulla torpediniera 'Monzambano' come ufficiale addetto alle armi subacquee. Comandante dell' incrociatore 'Vittorio Veneto' nel 1972, ricoprì dal 1973 al 1978 l' incarico di capo reparto nel servizio di informazioni della Difesa (Sid), e nel 1978, diventato contrammiraglio, fu nominato vicedirettore del Sismi. Ammiraglio di squadra dal dicembre 1982, fu poi capoufficio al segretariato della Difesa. Il 26 aprile 1984 è stato nominato capo del Servizio di informazione e sicurezza militare italiano ed ha mantenuto la carica fino al 1991. Nella sua qualità di direttore del Sismi, Martini si è occupato a vario titolo dei più scottanti eventi degli ultimi anni: dalla strage di Peteano alla tragedia di Ustica, dall'attentato di Fiumicino alla strage di Bologna, dal caso Gladio alla vicenda del 'dossier cecoslovaccò sulla presunta attività spionistica in favore dei paesi dell'est. Nel 1992 è stato nominato consulente speciale per la sicurezza dal presidente del Consiglio Giuliano Amato. Martini è stato coinvolto nell'inchiesta sulle presunte deviazioni di Gladio, la struttura segreta costituita in Italia in ambito Nato, ma nel 2001 la Corte di Assise di Roma lo ha assolto. freccia rossa che punta in alto

CONDANNATI A ROMA TRE MILITANTI NAC-FCC

Per gli attentati alle sedi Ds e An firmati dai Nac-Fcc avvenuti tra il 1999 e il 2000, la seconda Corte d'Assise di Roma ha condannato i tre imputati Roberta Ripaldi, Fabrizio Antonini e Raoul Terilli a pene varianti da un anno e otto mesi e due anni e otto mesi. Associazione sovversiva e danneggiamenti sono i reati di cui sono stati riconosciuti responsabili, a seconda delle posizioni. La Corte, presieduta da Mario Renato D' Andria, ha riconosciuto tutti gli imputati colpevoli del reato di associazione sovversiva; Antonini e Ripaldi anche di danneggiamento; Terilli anche di detenzione di sostanze stupefacenti. Il pm Salvatore Vitello aveva chiesto condanne ad otto anni per Antonini, sei per Terilli e due per Ripaldi. Secondo l'accusa, i tre militanti dei Nuclei Armati per il Comunismo-Formazioni Comuniste Combattenti tra il 1999 e il 2000 avrebbero messo a segno attentati incendiari contro sedi dei Ds e di An, e dato fuoco all'auto della responsabile della formazione per un'agenzia di lavoro interinale. La prova sarebbe in una serie di volantini che sono stati diffusi all' esito degli attentati incendiari, una prova della pianificazione violenta della lotta politica. I difensori degli imputati, gli avvocati Caterina Calia e Antonia Di Maggio, avevano sostenuto in particolare che i danneggiamenti non erano collegati da alcun elemento probatorio. Terilli fu arrestato nel novembre 2001 dopo che la Digos trovò nel computer dove lavorava il testo del volantino inviato alla stampa il 17 e il 18 luglio dello stesso anno in cui si faceva riferimento all'omicidio di Massimo D'Antona, all'attentato in via Brunetti a Roma all'Istituto Affari Internazionali e all'auto di Simona Ciavatti, responsabile della formazione di un'agenzia interinale. Nel corso delle indagini è emerso che Antonini, di 42 anni, bidello in una scuola nel centro di Roma, avrebbe fatto due telefonate di rivendicazione dell'attentato alla sede Ds del quartiere periferico La Rustica il 28 aprile 1999, mentre la Ripaldi, di 26 anni, un lavoro saltuario di preparazione atletica in centri sportivi, avrebbe fatto una telefonata per rivendicare l'attentato alla sede Ds a Villa Gordiani il 5 maggio 1999. Entrambi eseguiti dando fuoco agli obiettivi. Per gli inquirenti i due potrebbero avere preso parte anche all'attentato di via Brunetti. Alcuni riscontri degli investigatori sono emersi dal materiale informatico sequestrato nelle abitazioni di Antonini e Ripaldi e in un appartamento in via Zanardi. Per quanto riguarda Terilli, gli investigatori ritengono che abbia lavorato in quello che viene considerato il covo dei Nuclei armati per il comunismo-Formazioni comuniste combattenti e che l'imputato usava normalmente. Per l'attentato alle due sedi Ds si sono costituiti parte civile gli avvocato Luca Petrucci e Cristina Michetelli. Petrucci ha definito la sentenza "equilibrata e priva di spirito vessatorio. Gli strumenti della lotta politica devono essere quelli della democrazia". freccia rossa che punta in alto

17 Febbraio 2003:

- Un anno dopo. L'omicidio del consulente del ministero del Welfare Marco Biagi segna il ritorno del terrorismo nel nostro Paese. Daniele Biacchessi, autore del "Delitto D'Antona" e di "Ombre nere" torna a narrare una storia del presente: gli atti dell'inchiesta, la risposta delle istituzioni, l'analisi e la comparazione dei documenti delle Brigate Rosse, la scorta negata a Biagi, le sigle del nuovo terrorismo, il caso di Michele Landi, il perito informatico trovato morto mentre stava ricostruendo il percorso della e-mail di rivendicazione dell'omicidio. Un giallo politico italiano non ancora risolto che si legge come un thriller. Non un mistero, ma una pagina della nostra storia ancor tutta da leggere. Dice il magistrato Armando Spataro in una delle interviste del libro: «È un filo che sostanzialmente non si è mai spezzato. I nuovi brigatisti che operano nel territorio sono organizzati in cellule. Sono in pochi, conducono una vita regolare. La loro attività è compartimentata, ogni cellula agisce su mandato della Direzione Strategica ma possiede ampia autonomia operativa. Ciò consente loro di colpire persone senza scorta, non difese dallo Stato, spesso metodiche negli spostamenti e nei loro appuntamenti pubblici. Osservando attentamente i documenti di rivendicazione degli omicidi D'Antona e Biagi, si comprende che la mano è la stessa. Alcuni termini vengono sostituiti ma i concetti restano. Al cosiddetto Sim (Stato Imperialista delle Multinazionali) si inserisce la parola Borghesia Imperialista ma il ragionamento intorno non cambia. Sono i riformisti i loro obiettivi, specie quei professori che lavorano nel campo del mercato del lavoro». freccia rossa che punta in alto

21 Febbraio 2003 - (Corriere della Sera)

- Le testimonianze di sei brigatisti raccolte da Giovanni Bianconi Il peso delle «mitologie» cattolica e marxista nella lotta armata degli anni di piombo. C'è chi fa il pittore, chi fa il poeta, chi cura l'orto. Geraldina di giorno lavora alla redazione del manifesto, la sera dorme in cella e dedica i suoi versi alla compagna Wilma, con la quale si scambiavano regali, dividevano un cappotto, era la sua «Macchiolina, con le fossette e i puntini verdi sull'iride» ma è rimasta sull'asfalto «per le pallottole di un agente di scorta che non avevamo voluto colpire», ed è «andata persa come ogni cosa della mia vita di prima». Anche Tonino, dopo sedici anni di carcere, dipinge. Mentre Bruno sta ancora dentro, ma si occupa di informatica. Sembrano ancora dei corpi celesti, fermatisi dopo una lunga traiettoria di cui non sanno le origini, non conoscono il punto di partenza, la pulsione originaria. Come ha fatto il kalashnikov a diventare verso, pennello, scalpello da scultore? Carichi di morti inutili e feroci, di orribili azzoppamenti, di agguati vigliacchi vissuti come eroismi, di sangue innocente sparso per niente, questi miti carnefici sembrano ancora anime leggere, sempre pronte a farsi portare dal vento delle passioni, ma sempre senza capire. Nella storia delle Brigate Rosse, in questa minuziosa prosopografia dal basso offertaci da Giovanni Bianconi ( Mi dichiaro prigioniero politico ) che Einaudi sta per mandare in libreria nella splendida collana Stile libero, la cosa che più sorprende è la mancanza di curiosità e di intelligenza che gli ex brigatisti hanno per la propria vita. Quel che meraviglia è come, oggi, né pentiti né dissociati, eppure sopravvissuti, essi non abbiano capito. Bianconi ci racconta il loro destino, presta la sua penna ai loro pensieri, con un rigore freddo che rischia il giustificazionismo, che è tenacia della ragione e dovere di cronista. Dunque Bianconi parla con le loro bocche, guida con Bruno la 132 che nasconde Moro nel bagagliaio, prepara insieme con Anna Laura l'ultimo pasto al prigioniero, passa con le mani di Maccari la mitraglietta a Moretti e con lui spara due raffiche su quel vecchio stanco e spaventato. E nel pensiero degli ex brigatisti due poveracci di 60 e di 30 anni, Giuseppe Mazzola e Graziano Giraluci, custodi della sede del Msi, assassinati per «incidente sul lavoro», sono ancora «due fascisti» senza storia, e diventa «un'azione militare» l'agguato più vile alla vittima più inerme: «Passa a piedi il ponte sul Tevere, compra il giornale all'edicola, si ferma al bar per bere un caffè e si riavvia verso casa. Alle sue spalle sbucano una donna e un uomo. Lei lo chiama, mentre il suo compagno gli scarica sette colpi di pistola nelle gambe. Traversi cade a terra e comincia a urlare, per il dolore...». Ebbene, nessuno di questi fragili e poetici assassini ha saputo dar conto di quel che Bianconi qui viviseziona nei suoi elementi primari, caso per caso, e dove ogni caso non è mai individuale ma tipico. Ecco il punto: i brigatisti non furono individui, ma tipi. Tutti eterodiretti dunque, e non certo nel senso del grande vecchio, del Kgb e dei servizi segreti deviati, ma nel senso culturale, epocale, hegeliano. Giovani affetti dal mal di vivere, come tutti i giovani del mondo, i brigatisti ricorsero infatti alla mammana, a una farmacopea che non conoscevano ma subivano, a una terapia per sentito dire. E non importa neppure il loro nome, non c'è differenza tra Pippo e Gulliver, tra Curcio e Franceschini, tra Mara Cagol e Augusta, tra la guerriera Angela che ha lasciato il fidanzato perché lo amava troppo, e quella che per troppo amore lo ha convinto a combattere con lei, o ancora quella Lalla che ha sparato perché amava. Né importa che siano morti sull'asfalto, o di aneurisma in cella come Germano, o siano invece rimasti vivi, solo in questo comunisti, nel far parte di un Olimpo che somiglia all'Ade, sempre figure e mai soggetti di quella che doveva essere una terra di eroi, di novelli Aiace, di Diomede, di Achille, di Ulisse e che invece è diventata la barca di Caronte. Bianconi coglie ciascuno di loro nel momento in cui stava consegnando la propria domanda epocale, quella di sempre, sull'ingiustizia nel mondo e sulla libertà, a una plumbea mitologia altrui, a una tensione dalla quale non era attraversato, che non gli apparteneva. Bianconi fotografa ciascuno di loro nell'atto di offrire la propria marmellata adolescenziale alla mitologia politica dei nonni resistenziali, ai sogni frustrati dei genitori, agli azzardi terreni della religione, del Vangelo, all'idea che Gesù è venuto sulla Terra per liberare i poveri. Avevano gli occhi gonfi di immagini che altri avevano visto, la testa piena di pensieri che non li riguardavano. I più raffinati tra gli storici della Rivoluzione francese hanno spiegato come essa sia stata influenzata dai navigatori dei mari del sud, uomini che, per tutto il Settecento, avevano scoperto terre nuove, e che erano tornati in Francia con, negli occhi, le immagini di un'umanità primitiva, donne nude, mitologie di libertà poi prestate ai figli, alle utopie dei giovani e ai loro malesseri. C'è insomma un rapporto stretto tra i mari del Sud e Rousseau, non ben dimostrabile e tuttavia sicuro come ha spiegato il più grande studioso dell'Oceano Pacifico, Oscar Spate. Ebbene il Pacifico dei nostri brigatisti fu il mondo eroico, ma ormai ridotto solo a rancore, dei partigiani, un paradiso dell'uguaglianza dove il povero è il buono e il ricco è il cattivo, quello del Vangelo e quello della Resistenza con la vecchia pistola dello zio antifascista, la mitologia cattolica e marxista del secondo dopoguerra italiano, di cui siamo tutti ancora testimonianza vivente. Leggendo Bianconi si capisce finalmente perché solo in Italia, solo nel Paese più cattolico d'Europa, tra giovani formatisi nelle scuole salesiane e nelle sezioni del Pci, la confusione generazionale si consegnò allo slogan «mai più senza fucile». Altrove la trasgressione diventava corpo nudo, e i giovani si coloravano perché trovavano insopportabile l'unicità cromatica del mondo. Quei giovani vivevano per l'integrazione mentre questi nostri morivano per la disintegrazione. Solo in Italia, nel più mediterraneo dei Paesi d'Europa, e dunque nel più vicino alla furia mediorientale, apparente periferia ma in realtà centro di uno scontro imperiale per il controllo dei processi finali della decolonizzazione (dall'Algeria alla Tunisia, al Marocco, all'Egitto, alla Grecia), solo qui gli astratti furori della gioventù divennero molotov, spranghe, chiavi inglesi, teste rotte eppur bisogna andar. Anche il momento dell'arresto dei brigatisti, che Bianconi ricostruisce, arresto per arresto, con il rigore freddo che i lettori del Corriere ben conoscono, è alla fine sempre uguale: nel covo, nella casa o nella borsa la polizia trovava libri di Lenin, classici di filosofia, romanzi gialli, racconti di fantascienza e cimeli del nonno partigiano. Non c'era mai la marijuana dei loro coetanei, ma, ancora e sempre, la dannazione italiana di libro e moschetto. Solo nel Paese ingessato nella cultura post resistenziale, nel Paese della democrazia bloccata e malata, nell'Italia eternamente indignata, nella patria dell'indignazione politica, solo a Torino, a Milano, a Roma, il mal di vivere e la ricerca di un destino potevano diventare lotta armata, una delle tante vie italiane al socialismo, insieme con quella storica di Togliatti, con quella letteraria di Pasolini, con quella dei giornali e con quella dei giudici di Magistratura democratica, che provavano a cambiare l'Italia nelle aule di tribunale, arrivando sino alla complessità di Tangentopoli e ancora oltre, anche dentro i nuovi movimenti e nel sindacato, nelle cui indignazioni cercano un ricovero e una tana le nuove, vecchissime Br, quelle che hanno ucciso Massimo D'Antona e Marco Biagi. La lotta armata è stata una via italiana al socialismo, una via lastricata e battuta sino alla tragedia. Ebbene, Bianconi ha ripercorso per noi questa via Paal verso la morte. È il biografo dei ragazzi della via Paal al socialismo. Il libro: «Mi dichiaro prigioniero politico» di Giovanni Bianconi uscirà martedì da Einaudi Stile libero, pagine. freccia rossa che punta in alto

23 febbraio 2003 (La Gazzetta del Mezzogiorno)
IN TRIBUNALE STRONCATURA LIBRO FASANELLA SU MARKEVITCH

- Per un libro su Moro Stroncatura in tribunale - Una stroncatura come non si leggeva da anni quella pubblicata da "La Repubblica" al libro "Il misterioso intermediario. Igor Markevitch e il caso Moro" poche settimane fa sulle pagine culturali del quotidiano romano e che ora trasloca dalla carta di giornale a quella bollata: è stato infatti dato mandato allo studio legale condotto dal salentino Giovanni Pellegrino, ex presidente della commissione stragi, di agire in sede civile per il risarcimento dei danni contro l'autore della recensione, Stefano Malatesta. Il libro di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, edito da Einaudi, che traccia la biografia culturale del direttore d'orchestra chiamato in causa nella vicenda Moro da una inchiesta condotta prima dalla procura di Brescia e poi dalla stessa commissione stragi (che attivò solo in questo caso i poteri di indagine nei suoi 10 anni di vita) veniva ridicolizzato e duramente criticato ("metodo cabalistico di condurre le indagini") da Malatesta in un articolo dal titolo "La favola del grande vecchio". La critica principale della stroncatura era quella di aver rielaborato una vecchia tesi, quella contenuta nel volume "I giorni del diluvio", edito anonimo ma steso da Francesco Mazzola, responsabile politico dei servizi segreti durante i 55 giorni del rapimento Moro, che parlava di una sorta di regia del Kgb che controllava strettamente il vertice delle Br e di una co-interessansa americana a chiudere la vicenda con la morte di Moro (sbarrando ogni strada alla trattativa) quando ci si rese conto che Moro stava rivelando segreti Nato. Gli autori del volume avevano già protestato per la stroncatura che "ignora del tutto gli elementi documentali sulla quale poggia l'ipotesi di un ruolo da mediatore svolto da Markevitch" e il libro della Einaudi spiega perché questo identikit calza a pennello ad Igor Markevitch. freccia rossa che punta in alto

24 Febbraio 2003:

Roma - Adesso, nelle mani degli investigatori dell'antiterrorismo, c'è perfino una lista, compilata chissà da chi, ma fatta ritrovare in una cabina telefonica due giorni fa con una telefonata anonima al 113. Sopra, nero su bianco, mani ignote hanno tracciato l'elenco dei possibili obbiettivi da colpire. Nella lista ci sono anche 30 nomi, definiti dalla voce contraffatta che ha contattato telefonicamente gli agenti «i prossimi bersagli». Per gli inquirenti, come rivela oggi il Corriere della Sera, l'elenco è attendibile. E le minacce sono concrete. Tanto concrete da aver immediatamente fatto scattare il Viminale. Una circolare, due giorni fa, ha raggiunto i prefetti delle diverse città interessate. Nel documento si chiedeva ai vertici territoriali delle organizzazioni di sicurezza di intensificare i servizi di protezione per luoghi e cittadini a rischio. E allegato alla circolare c'era proprio l'elenco incriminato, diffuso dopo averne riscontrato la validità. I gruppi eversori in Italia, insomma, sembrano fare sul serio. E il Viminale non vuole correre il rischio che si ripeta un nuovo caso Biagi, l'esperto di problematiche del lavoro, consulente del ministero del welfare, assassinato a Bologna dopo decine di minacce che le stesse forze dell'ordine non sembrano aver ascoltato. Di fatto, dietro la decisione del ministero degli Interni di alzare la soglia di allarme, c'è anche l'ultima analisi compiuta dagli esperti sui volantini fatti ritrovare negli ultimi periodi e sulle informazioni di intelligence che giungono al Viminale. Stando alle indiscrezioni il giudizio sarebbe concorde: le Brigate Rosse, o altri gruppi eversivi, si preparano a un nuovo clamoroso attacco. Anche i servizi segreti, d'altronde, nella propria relazione semestrale al Parlamento, consegnata qualche settimana fa, avevano chiarito che i nomi di chi sta tentando una mediazione tra le contrastate tematiche del lavoro in Italia, potrebbero essere già finiti sulla lista nera degli eversori. E avvertivano che potevano essere in atto passaggi di «osmosi» tra i terroristi nostrani, e i gruppi inernazionali interessati a destabilizzare la situazione politica in vista dell'eventuale scontro in Medioriente. Come prima conseguenza un nuovo giro di vite in materia di sicurezza, tornano le scorte per molti uomini in vista e si accentuano i controlli. freccia rossa che punta in alto

Moro 25 anni dopo tra veleni, misteri e inerzie dello Stato
Il senatore Massimo Brutti analizza la cronaca di un delitto annunciato

- Ore 9,15 del 16 marzo 1978, Roma, via Fani angolo via Stresa. Un commando delle Brigate Rosse uccide a raffiche di mitra i cinque agenti della scorta e rapisce Aldo Moro. è il più grave attentato terroristico nella storia della Repubblica. "Ricordo benissimo quel giorno. Ero docente di diritto romano all'università di Macerata. Me lo dissero quando arrivai in facoltà. Andai subito nella federazione del Pci per avere altre notizie. Poi partecipai all'assemblea, voluta da professori e studenti". Massimo Brutti, 59 anni, oggi è vicepresidente del gruppo Ds-Ulivo al Senato, fa parte della commissione antimafia e del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza. è uno dei massimi esperti sul terrorismo rosso e nero. Del più grave attentato messo a segno durante gli anni della lotta armata, il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, si è parlato al Verdi nel quadro della rassegna "La scena segreta" e Massimo Brutti è stato invitato a discuterne con i giovani che hanno partecipato alla manifestazione. Al senatore diessino La Città ha chiesto di narrare ricordi, retroscena, giudizi politici su quel drammatico evento. Senatore Brutti, fu colto di sorpresa quando seppe dell'agguato di via Fani? Solo in parte. Eravamo ad un livello altissimo di attacco allo Stato e alla democrazia da parte delle Brigate Rosse. La sorpresa derivava dall'efficienza dimostrata da questo gruppo e dall'incapacità dello Stato di difendere la personalità in quel momento più importante e cruciale della politica italiana. Perchè la figura di Aldo Moro era così importante in quel periodo? Ricordo le discussioni nei giorni immediatamente precedenti il 16 marzo sulla situazione politica che si stava delineando. Solo tre mesi prima, nel dicembre del 1977 era stata avanzata la richiesta di un governo di cui facesse organicamente parte il Pci. Di fronte a questa richiesta ci fu il veto assoluto espresso dall'amministrazione americana e anche dagli ambienti politici tedeschi. Ci fu una lunga ed estenuante trattativa di cui fu protagonista proprio Aldo Moro, in quel periodo presidente della Democrazia Cristiana. Si arrivò alla decisione di costituire una maggioranza di cui facesse parte il partito comunista, di cui esponenti di primo piano già ricoprivano incarichi istituzionali di primo livello: ricordo per tutti Pietro Ingrao, presidente della Camera e altri presidenti di commissioni parlamentari. Insomma il governo del 16 marzo doveva essere il punto di arrivo di un percorso intrapreso a inizio legislatura. E inveceÉ La partecipazione del Pci si fermò alle soglie del governo: si fece un monocolore democristiano presieduto dall'onorevole Giulio Andreotti, un politico che rappresentava una garanzia sia per la parte più conservatrice della Dc sia a livello internazionale. Moro non era riuscito a fare di più. Ma è stupefacente che l'uomo più esposto, proprio in quelle settimane impegnato in una lunga e complessa trattativa politica, non sia stato protetto adeguatamente. C'erano stati anche una serie di avvertimenti e lo stesso Moro era preoccupato per la sua incolumità personale. Il Pci scelse subito quella che allora fu definita la linea della fermezza: nessuna trattativa con le Br. A 25 anni di distanza, pensa ancora che fu la scelta giusta? Continuo a essere convinto che non si potesse fare altrimenti. Dopo la strage dei cinque uomini della scorta non era possibile aprire una trattativa per salvare la vita di Moro. Le Br volevano la liberazione di detenuti politici perchè puntavano ad un riconoscimento politico. Accettando quella richiesta lo Stato avrebbe ammesso l'esistenza di una guerra civile. Era necessario invece isolare le Br trattandole come un gruppo criminale, proprio per evitare che ottenessero il consenso dei lavoratori, delle parti più deboli della società. Nelle fabbriche ci fu una vera e propria battaglia di cui furono protagonisti il sindacato e il Pci. Una battaglia per convincere la classe sociale più esposta alla crisi economica che la linea delle Br avrebbe portato alla distruzione dei diritti dei lavoratori. Le Br volevano creare le condizioni per la guerra civile. Lo stesso obbiettivo della guerra civile era inseguito anche dal terrorismo nero attraverso le stragi. Voglio ricordare che dal primo gennaio del '69 al 31 gennaio 1987 in Italia ci sono stati 14591 atti di violenza politica. La storia di quegli anni è la storia di gruppi terroristici di diverso colore che puntavano alla guerra civile. È anche una storia piena di misteri, non crede? Io credo che in modi diversi sia i terroristi neri che i terroristi rossi siano stati favoriti e protetti da settori degli apparati dello Stato. Basta pensare come tutti i processi sulle stragi siano stati ostacolati da una serie di depistaggi e manipolazioni da parte dei servizi segreti italiani. Basta pensare come le Brigate Rosse siano cresciute e si siano sviluppate, anche attraverso il ricambio del loro gruppo dirigente, praticamente indisturbate. La storia del sequestro Moro è una storia di inerzia, mancanza di iniziativa da parte degli apparati dello Stato. Non dobbiamo dimenticare che proprio in quel periodo i nostri servizi di sicurezza erano guidati da uomini iscritti alla loggia massonica P2. Una setta segreta, affaristica ed eversiva che puntava sul piano internazionale all'acuirsi della guerra fredda, sul piano interno ad una stabilizzazione moderata, conservatrice, anche con elementi di autoritarismo. Insomma, agli antipodi della politica di Aldo Moro. Se andiamo a rileggere il "piano di rinascita democratica" della P2 troviamo cose molto attuali: la spaccatura del sindacato, la dissoluzione della Rai, la creazione di televisioni private, la riforma dell'ordinamento giudiziario. C'è una continuità impressionante con i nostri giorni. Torniamo al caso Moro. Quali furono le conseguenze sul piano politico di quella vicenda? L'esperienza della solidarietà nazionale finì quasi subito. Ricordo che qualche giorno dopo il 16 marzo uscì un articolo di Gianni Bagget Bozzo che non senza qualche soddisfazione dichiarava concluso l'esperimento della solidarietà nazionale. All'interno della sinistra si verificò una prima rottura, il partito socialista, alla ricerca di uno spazio autonomo, contestò la linea della fermezza, il dissenso con il Pci sul modo di combattere il terrorismo fu netto. Con la drammatica uscita di scena di Moro, la parte più conservatrice della Dc riprese il sopravvento. Faccio un esempio che visto oggi sembra incredibile: la Dc presentò migliaia di emendamenti alla legge che eliminava finalmente la mezzadria, un retaggio che definirei medievale e che ancora negli anni settanta non si riusciva a rimuovere. Perchè, a suo giudizio, non si riesce a chiudere con il passato, a consegnare alla storia avvenimenti che risalgono ormai ad un quarto di secolo fa? Di tutta la storia del terrorismo rosso il caso Moro è quello che più di ogni altro presenta ancora oggi aspetti oscuri. Ricordo i veleni sparsi su tutto, le lettere di Moro, i cosiddetti interrogatori, molti parassiti si mossero per sfruttare quella situazione. Ho parlato di un'inerzia voluta da parte dello Stato. Intorno e dietro a questa inerzia ci sono molte verità che ancora devono essere rivelate. Probabilmente ci sono ancora documenti che non sono stati ritrovati. Qualcuno sa dove sono. Secondo me, Aldo Moro quando parlava con i suoi carcerieri, ragazzi poco più che ventenni, sapeva che i suoi interlocutori erano altri. I brigatisti di oggi sono figli di quelli di ieri? Nella storia delle Br di allora ci sono due fasi. Una prima fase è basata sull'idea che le classi dominanti stessero preparando un colpo di Stato. Dopo il '75 viene meno l'antifascismo militante, l'attacco si rivolge contro la Democrazia Cristiana e il Partito comunista. Si punta alla guerra civile attraverso la dimostrazione del carattere autoritario e repressivo dello Stato. Io credo che il gruppo brigatista responsabile degli omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi sia in perfetta continuità con le Br dell'ultima fase, verso la fine degli anni Ottanta. Se si rileggono i documenti dei terroristi che assassinarono Ezio Tarantelli e Roberto Ruffilli, si scopre che il linguaggio è lo stesso, le parole d'ordine sono le stesse, anche la rappresentazione della fase storica è la stessa. freccia rossa che punta in alto

26 Febbraio 2003
Rivendicarono il delitto Biagi, Prosciolti quattro brigatisti

- Prosciolti «perché il fatto non sussiste». Niente processo per apologia di reato e propaganda sovversiva, quindi, per qu attro esponenti delle Brigate rosse che l'8 aprile scorso rivendicarono in aula l'omicidio del professor Marco Biagi. Il g up Maria Cristina Mannocci ha accolto la richiesta del pm Luigi Orsi, secondo il quale «come ha detto la Corte Costituzionale, la propaganda sovversiva per essere efficace deve contenere un pericolo concreto. Non è il caso in questione, perch é con quel linguaggio vetusto gli imputati non convincono prop r io nessuno: i documenti letti sono convenzionali, al punto da sembrare come i messaggi dei "B aci P erugina"». I quattro Br prosciolti sono Cesare Di Lenardo, Ario Pizzarelli, Stefano Minguzzi e Francesco Aiosa. Ieri mattina in aula i quattro imputati hanno esibito un nuovo documento sequestrato dalla Polizia penitenziaria in cui rivendicano la loro appartenenza alle Br-Pcc e dove affermano «la necessità di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria». Il documento si conclude con una previsione aggiuntiva: «Sia pure in tempi lunghi il capitalismo sarà abbattuto». Il processo era stato avviato dal pm Stefano Dambruoso che l'8 aprile scorso aveva ottenuto la condanna a 1 anno di reclusione dei quattro Br per un'altra rivendicazione in aula: quel la dell'omicidio di Massimo D'Antona. I difensori degli imputati, Sandro Clementi e Attilio Baccioli, avevano chiesto l 'assoluzione con una formula diversa: «perché il fatto non costituisce reato». I legali non escludono di impugnare la sentenza ricorrendo in appello. «Esiste un diritto naturale alla sovversione - dice l'avvocato Clementi - del resto in questo momento c'è chi vuole usare le armi anche per rovesciare un governo sovrano come quello dell'Iraq». freccia rossa che punta in alto

by abrapalabra