Marzo 2003
1 Marzo 2003 (Misteri d'Italia)
MA CHI SONO, DAVVERO, QUESTI NUOVI BR?
Chi sono, davvero, i nuovi brigatisti? Le interpretazioni e le analisi - come al solito - si sono sprecate. La convinzione comune - la più banale - sostiene che sono, semplicemente, figli delle vecchie Brigate Rosse. Quasi fosse possibile configurare una continuità con un fenomeno eversivo, politicamente spentosi vent'anni fa e - militarmente - morto almeno dal 1988. Proviamo ad analizzare le figure di Nadia Lioce (il secondo nome Desdemona - molto letterario e che ha colpito i media - è soltanto anagrafico e da lei mai usato) e Mario Galesi. Lei è nata nel 1959, lui nel 1966. Come dire che lei aveva nove anni nel'68 - anno identificato come primo germogliare del progetto armato in Italia - e lui appena due. I conti non tornano neppure con la generazione del movimento del 77: lei aveva 16 anni e lui 11. Se arriviamo alla sconfitta politica del terrorismo in Italia (il 1982), lei aveva 23 anni e lui 16. È forse possibile stabilire un vago, vaghissimo, legame soltanto con le ultimissime Brigate Rosse, quelle che escono di scena nel 1988, dopo il delitto Ruffilli, e che già allora sono un fenomeno assolutamente residuale: se lei aveva 29 anni, lui di anni ne aveva 22. Ma, evidentemente, non è solo una questione di legami di età. La questione vera sta tutta nella volontà di rianimare (se non resuscitare) un programma politico e militare che ha subito una sconfitta drastica e drammatica. Sconfitta non solo perché il fenomeno terroristico in Italia è stato annientato dagli arresti e dai processi, ma anche perché il suo progetto politico non ha trovato alcun terreno su cui attecchire e svilupparsi. È restato un progetto d'élite. E non ultimo perché proprio la fine del terrorismo è derivata anche dalla delazione, il cosiddetto "pentitismo", risultato di un processo di sdoppiamento e di distacco dei suoi stessi militanti dalle loro stesse idee. Quando la psicologia si innesta sulla politica il dramma diventa farsa. Nel 1988 le BR cessano di commettere attentati. I nuovi brigatisti tornano sulla scena ben 11 anni dopo, nel 1999, con l'omicidio D'Antona. È in quegli 11 anni di pausa che va ricercato il seme che è tornato a germogliare per dare di nuovo i suoi frutti di morte. Cosa è davvero accaduto tra il 1988 e il 1999? Cosa è successo alle Lioce e ai Galesi, che ancora si aggirano tra di noi, nel lasso di tempo di quegli 11 anni? È questo il primo interrogativo a cui dobbiamo rispondere se vogliamo davvero capire perché l'idea di lotta armata in Italia è riuscita a sopravvivere a se stessa. E ancora. Queste nuove Brigate Rosse sono solo un residuo della storia? I nuovi brigatisti sono come gli ultimi giapponesi che ancora combattevano su atolli sperduti, anni e anni dopo la fine della seconda guerra mondiale? Come dobbiamo considerarli? Impiegati interinali del terrore? Replicanti difettosi del fallimento di un'idea? Oppure semplici serial killer con una visione messianica del comunismo? L'unico elemento che ci sembra di afferrare è la loro solitudine. Forse proprio a una riflessione attenta attorno a questo elemento, la solitudine, bisognerà partire per capire chi è, davvero, Nadia Leoce e chi era, davvero, Mario Galesi.
2 Marzo 2003: (corriere della Sera)
- Torna l'allarme per il terrorismo interno in Italia. E ancora una volta con un fatto di sangue. Un agente della Polizia ferroviaria, Emanuele Petri, è stato freddato a bruciapelo, stamattina, sul treno roma-Firenze. Ucciso dopo aver chiesto i documenti a un ragazzo e una ragazza in viaggio sul treno Roma-Firenze. Lei, si è scoperto più tardi, è Nadia Desdemona Lioce, ricercata per banda armata e legata alle Nuove Br. È in carcere. Si rifiuta di rispondere alle domande degli inquirenti e si è dichiarata prigioniera politica. Il suo complice - ferito nel conflitto a fuoco e adesso in ospedale in gravi condizioni (i medici lo stanno operando) - è Mario Galesi, come lei latitante. Desdemona Lioce e Mario Galesi sono ritenuti da investigatori e magistrati fra gli esponenti di spicco dei Nuclei Comunisti Combattenti romani e veneti dei primi anni novanta, che a partire dall'omicidio D'Antona, si trasformarono nelle «Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente», ovvero il «trait d'union» fra vecchio e nuovo terrorismo. I FATTI - L'agente ucciso era di pattuglia con un suo collega. Il loro era un controllo di routine. I poliziotti si sono affacciati nello scompartimento e hanno chiesto i documenti ai passeggeri. All'improvviso, come hanno raccontato i testimoni, la donna ha puntato la pistola alla tempia di uno dei sue agenti e nel giro di pochi istanti la situazione è diventata incontrollabile. Emanuele Petri, 48 anni, di Tuoro sul Trasimeno (Perugia) e padre di un figlio, non ha avuto scampo. Il suo collega, Bruno Fortunato, di 46 anni, padre di due figli, è invece rimasto ferito gravemente. La sparatoria è avvenuta mentre il treno era nei pressi di Terontola, vicino Arezzo. Il nome di Desdemona Lioce, la donna arrestata oggi per la sparatoria sul treno Roma-Firenze, era stato fatto dal ministro dell'Interno, Giuseppe Pisanu, nell' audizione dello scorso 27 gennaio alle commissioni congiunte Affari Costituzionali e Difesa della Camera. Il ministro, parlando sul tema della violenza politica e del terrorismo, aveva sottolineato «l' assiduo impegno investigativo che ci ha consentito di individuare e catturare elementi di spicco delle Br-Pcc, già condannati per gravi delitti e latitanti all' estero». Tra le operazioni più significative, Pisanu aveva segnalato «quella conclusa nello scorso ottobre, nel quadro delle indagini relative all'omicidio D'Antona, nei confronti dei terroristi Michele Mazzei, Francesco Donati, Francesco Galloni e Antonino Fosso, tutti già condannati all'ergastolo per omicidio, che, nel carcere di Trani, secondo quanto finora accertato dalla magistratura, avevano elaborato documenti preparatori della rivendicazione dell' assassinio». Nello stesso contesto d' indagine, aveva aggiunto, «sono stati emessi provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di tre ex militanti dei Nuclei Comunisti Combattenti, Nadia Desdemona Lioce, Mario Galesi e Michele Pegna, accusati di appartenere alle Br-Pcc».
(Il Nuovo) - Lo scontro a fuoco: La sparatoria è avvenuta tra le stazioni di Camicia e di Castiglione Fiorentino, sul treno interregionale 2034, poco prima delle 8 e 30. Una pattuglia di due poliziotti, durante un controllo di routine, ha chiesto i documenti a due giovani, un uomo e una donna che sedevano da soli in uno scompartimento. Mentre i documenti venivano controllati il giovane ha estratto una pistola e l'ha puntata al collo di un agente, Emanuele Petri. Ci sarebbe stata una colluttazione al termine della quale sarebbe partito un colpo che ha trapassato il collo dell'agente. Petri è deceduto. Nello scontro è rimasto ferito al torace anche il collega di Petri, Bruno Fortunato. Un terzo agente, Giovanni di Franzo, accorso al rumore dello sparo, ha ferito l'aggressore e bloccato la donna che era con lui. La coppia di terroristi, aderenti alla nuove Br: lei è Desdemona Lioce, aderente alle nuove Brigate Rosse, la donna arrestata per la sparatoria sul treno che collega Roma con Firenze. L'uomo con cui viaggiava, invece, potrebbe essere Mario Galesi, presunto terrorista. Nel conflitto a fuoco è morto un agente della Polfer, ed è rimato ferito un altro poliziotto. La donna sarà sottoposta alla prova dello stube. La coppia seconso le ricostruzioni, sarebbe salita sul treno a Roma Tiburtina e aveva come destinazione Arezzo. Da tempo era nel mirino della Digos di Roma. Lo scenario: secondo gli inquirenti la coppia era "in fase operativa e presumibilmente stava preparando un attentato". La sparatoria infatti rafforza gli elementi raccolti durante un'indagine della Procura di Roma, che si era concentrata su una cellula di cui farebbe parte proprio la Lioce. Nei suoi confronti era stata emessa un'ordinanza di custodia cautelare. Il possibile obiettivo: potrebbe essere il sottosegretario al Lavoro Mariagrazia Sestini. Nei suoi confronti è stata rafforzata la tutlea. Il sottosegretario, infatti, vive ad Arezzo e questo ha fatto scattare un ulteriore allarme per la sua persona - già sotto protezione dopo gli attentati ai professori Biagi e D'Antona. La Sestini, però, invita alla prudenza sul presunto collegamento tra la sua persona e l'azione delle due Br: ''Io mi occupo di volontariato, associazionismo, handicap, minori; vale a dire, materie estranee a quelle che, finora, sembrano essere state al centro della nuova azione terroristica." Certo è però - ha concluso il sottosegretario - che se il ministero del Lavoro è tra gli obiettivi del terrorismo, allora tutti coloro che vi lavorano devono temere". Le indagini : ad Arezzo sono, inoltre, immediatamente accorsi i magistrati. Il coordinatore del pool antiterrorismo di Roma Franco Ionta sta, infatti, raggiungendo la procura: intende prendere visione personalmente delle armi e dei documenti trovati in possesso dei due arrestati. Tra gli oggetti in possesso della coppia, una microcamera ed un floppy disk. Nel borsone è stato trovato anche materiale cartaceo e ritagli di pubblicazioni. I documenti di identità utilizzati dai due sono risultati rubati in bianco e poi falsificati. Presenti anche il procuratore della Repubblica di Arezzo Roberto Rossi. Nell'inchiesta è coinvolta anche la Digos di Firenze. Alla questura di Arezzo poco dopo le 13 sono arrivati anche il procuratore di Firenze, Ubaldo Nannucci, ed il pm Giuseppe Nicolosi. La Procura di Firenze infatti è competente nei reati di terrorismo. Sul posto anche gli investigatori che si occupano dell'omicidio di Marco Biagi. Un testimone dello scontro a fuoco: La Lioce era glaciale, il suo sguardo non lo dimenticherò mai più. L'arrivo in questura della Lioce: la donna è stata trasportata imediatamente in questura ("capelli rossi, tranquillissima", la descrivono alcuni testimoni), mentre l'uomo è stato trasportato all'ospedale San Donato di Arezzo e sottoposto a intervento chirurgico. La Lioce, fredda e distaccata in un primo momento ha rifiutato di rispondere agli investigatori. Solo dopo essere stata riconosciuta dagli esperti dell'antiterrorismo ha confermato le proprie generalità. Avrebbe però affermato al momento di ammettere la propria identità: "Sono prigioniera politica". Per verificare se abbia sparato, gli inquirenti la sottoporranno alla prova dello stube. Il giallo:Le forze dell'ordine stanno cercando anche un'altra donna, non italiana, che sembra essersi allontanata al momento della sparatoria. Forse viaggiava con la coppia, ma molto probabilmente, si tratta di una passeggera che, impaurita, ha fatto perdere le proprie tracce.
Chi sono gli assassini arrestati:
Mario Galesi, 37 anni, è l'uomo arrestato insieme a Nadia Desdemona Lioce, dopo la sparatoria sul treno Roma-Firenze. Come la Lioce, anche Galesi era irreperibile e ricercato nell'ambito delle indagini per l'omicidio D'Antona, per la ricostituzione delle Brigate Rosse. Galesi è stato arrestato una prima volta nel 1986, quando, insieme ad alcuni complici, aveva cercato di introdursi nello stadio Flaminio. L'accusa era di partecipazione a banda armata, ma due giorni dopo è stato scarcerato per assoluta mancanza di indizi. Galesi torna sulla scena nel '97 con una rapina da 120 milioni di lire (le cui modalità fanno pensare all'autofinanziamento) nell'ufficio postale di via Radicofani, a Roma. Nel '98, sfruttando un permesso, Galesi sparisce dalla circolazione quando gli rimanevano pochi anni di carcere da scontare. Il nome di Galesi riappare quindi, insieme a quello della Lioce, il 31 ottobre dello scorso anno, nell'ordinanza di custodia nell'ambito delle indagini sull'omicidio D'Antona, emessa dal gip Maria Teresa Covatta nei riguardi di presunti appartenenti alle Br-Pcc, su richiesta della procura della Repubblica di Roma.
Nadia Desdemona Lioce, pisana, 43 anni, ex esponente dei Nuclei Comunisti Combattenti (Ncc), è irreperibile dal 1995. Il suo nome è emerso nell'ordinanza di custodia emessa nei confronti di Alessandro Geri, l'uomo che era stato accusato di essere il telefonista nell'omicidio D' Antona. Secondo l' accusa, Lioce farebbe parte del gruppo che avrebbe segnato la fase di ricostruzione delle Brigate Rosse, dopo la ritirata strategica del 1989. È stata legata a Luigi Fuccini, arrestato a Roma nel 1995 insieme con Fabio Matteini perchè trovato in possesso di armi. Da allora non si sa più nulla di lei. Fonti degli investigatori l'avevano però segnalata prima in Francia e poi in Germania. Dopo l' omicidio D' Antona il suo nome ricompare sulle cronache. Un accostamento che porta la famiglia a diffondere, attraverso un legale, una nota per ricordare che la donna «è una libera cittadina, mai sottoposta ad alcun procedimento penale per reati associativi nè di altra natura». Ma il 31 ottobre 2002, nell'ambito delle indagini sull'omicidio D'Antona, il gip Maria Teresa Covatta emette sei ordinanze di custodia cautelare nei riguardi di presunti appartenenti alle Br-Pcc, su richiesta della procura della Repubblica di Roma: si tratta degli irriducibili Antonino Fosso, Michele Mazzei, Francesco Donati e Franco Galloni e di due irreperibili, la Lioce e Mario Galesi. Nel capoluogo toscano la digos perquisisce le abitazioni dei familiari della Lioce ed anche l'abitazione di un altro familiare a Foggia, città di origine della donna. A destare l' attenzione dei magistrati è stata proprio l'irreperibilità/clandestinità della Lioce e di Galesi, in concomitanza con la ripresa dell'attività terroristica delle Brigate Rosse. La donna, trasferitasi in Toscana, fino all'inizio del 1995 risultava convivente a Pisa con Luigi Fuccini, 42 anni, pisano. Si allontanò dalla città toscana nel febbraio di quell'anno, il giorno dopo l'arresto a Roma del suo compagno e di Fabio Matteini, 42 anni, fiorentino, proclamatisi appartenenti ai Nuclei comunisti combattenti e prigionieri politici dopo essere stati fermati dalla polizia per un normale controllo. Nel 1997 la digos di Firenze la segnalò alla magistratura per i suoi presunti collegamenti con gli Ncc. Nel 2002 riappare nell' ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip della procura di Roma.
3 Marzo 2003: (Il Tempo)
Pellegrino: legami tra Br nuove e degli anni '80
- L'EX presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino non è sorpreso degli arresti dei brigatisti Lioci e Galesi avvenuti ieri, collega l'attentato che i due avrebbero potuto realizzare con l'acuirsi della situazione internazionale. Presidente Pellegrino, come giudica questi due arresti? «Questi arresti confermano l'analisi che la Commissione Stragi fece nell'immediatezza dell'omicidio D'Antona. Se oggi quella relazione venisse riletta, si vedrebbe che noi ragionammo pensando che le Nuove Brigate Rosse avevano un legame con i superstiti delle vecchie BR e soprattutto con il gruppo toscano, che era stato individuato come autore degli omicidi di Conti (ex sindaco repubblicano di Firenze, nda) e Ruffilli (collaboratore dell'ex segretario della Dc De Mita e costituzionalista, nda). Quindi ritengo che ci sia una certa affiliazione di questo filone delle Brigate rosse con l'ultimo segmento storico delle Br degli anni '80. Molti di quei membri delle vecchie Br non sono mai stati assicurati alla giustizia e sono rimasti latitanti e quelli assicurati alla giustizia sono tutti rimasti irriducibili». La ricostruzione delle Nuove Brigate Rosse è avvenuta a partire del 1989? «Sì, in quel periodo si sono riaccesi i tizzoni che continuavano ad ardere dopo la ritirata brigatista degli anni precedenti. Se si leggono i documenti delle rivendicazioni dell'assassinio di D'Antona e di quello del professor Biagi, che è meno criptico, si ha la sensazione che durante la ritirata del proletariato le Br cercano di riorganizzare lo scontro con la borghesia imperialista». La Commissione Stragi sulla base di quali documenti aveva svolto il suo lavoro investigativo sulle nuove Br? «La documentazione che avevamo a disposizione non era solo nostra. Come Commissione abbiamo anche lavorato su materiale che ci veniva dal Ros e dalla polizia. Malgrado questo, risultati non se ne sono visti. Dai primi dati che ho a disposizione, la cattura della Lioci e di Galesi è avvenuta in maniera casuale». Questi arresti confermano i rischi che erano stati lanciati nelle precedenti relazioni presentate periodicamente in Parlamento dai servizi di sicurezza? «Certamente, la mia impressione è che questi gruppi che cercano di riorganizzarsi sono ancora deboli, poco partecipati e non hanno una buona capacità organizzativa che consente loro di colpire a largo intervallo di tempo. Questa è una delle caratteristiche della fase finale delle BR. Basta vedere che intervalli di tempo ci sono tra gli omicidi Tarantelli (27 marzo 1985,nda), Conti (10 febbraio 1986, nda) e Ruffilli (16 aprile 1988, nda) per capire che le "truppe" in ritirata non avevano la capacità organizzativa per poter colpire continuamente. Infatti, prima di realizzarne un'altra avevano bisogno di tempo». Relazioni tra iniziative che i due avrebbero potuto attuare e il momento di crisi internazionale? «Nel momento in cui la tensione internazionale sale è agevolmente prevedibile che le probabilità di un attentato crescano. Non dimentichiamoci che l'omicidio D'Antona avviene durante la guerra nel Kossovo, mentre quello Biagi in un momento di forte tensione sociale».
(La Stampa)
- In due agende e un floppy gli ultimi misteri d´Italia. Non sono ancora stati aperti i documenti sequestrati ai due terroristi per paura che una mano inesperta cancelli quei contenuti «preziosi». ABBIAMO svoltato, il cerchio si sta chiudendo». Al Viminale, l´euforia si mischia al dolore, alla rabbia per il «prezzo pagato» in termini di vite umane. Guardando oltre la scena del delitto, in quello scompartimento del Roma-Firenze forse è stato trovato «il bandolo della matassa» che ha portato ieri il ministro dell'Interno, Beppe Pisanu, a dire che «si sta avvicinando il momento per rendere giustizia alla memoria del professore Biagi e D´Antona». Insomma, pur se in modo fortuito e tragico, la polizia potrebbe essere inciampata sugli assassini dei due giuslavoristi e collaboratori dei ministri del Lavoro, o che hanno fatto parte dei gruppi di fuoco delle Br che sono entrati in azione il 20 maggio del 1999 a Roma e il 19 marzo del 2002 a Bologna, anche se ieri ha sparato una calibro 7,65 mentre per D´Antona e Biagi fu utilizzata una pistola calibro 38. Scaramanticamente, per non creare attese che potrebbero andare deluse, l´investigatore dell´Antiterrorismo ripete che «intanto procede la procura di Firenze per omicidio e tentato omicidio», riferendosi ai due uomini della Polfer. Ma le attese, è inutile negarlo, ci sono e probabilmente non andranno deluse. Intanto, la scena del delitto, al di là di quelle macchie di sangue, del corpo senza vita dell´agente della Polfer, ha lasciato diversi indizi. Spiega l´uomo dell´Antiterrorismo: «Dai primi elementi, i due hanno commesso degli errori. Per esempio, nella storia delle Brigate Rosse, i clandestini si spostavano sempre da soli e in questo caso viaggiavano in coppia». Ancora ieri sera non erano state aperte le due agendine elettroniche e il floppy disk sequestrati ai due terroristi, per un «motivo di cautela», per paura che una mano inesperta cancellasse i contenuti «preziosi» di quel materiale. Gli investigatori stavano aspettando i tecnici delle case produttrici delle agendine e dei floppy per non commettere errori. Si comprende, dunque, il «nervosismo» di queste ore d´attesa: quelle agendine potrebbero rivelarsi molto utili. Mario Galesi e Desdemona Lioce hanno presentato documenti falsi agli uomini della Polfer. «I documenti - racconta chi li ha visti - presentavano degli errori grossolani: erano scritti a mano». Secondo una prima verifica, si tratta di carte d´identità rubate in bianco a Tivoli, nel 2000. Un indizio importante, che può fare ipotizzare che nella zona dei castelli romani le Br abbiano avuto o abbiamo ancora un covo, una base. Anche perché nella storia degli Ncc, dei Nuclei comunisti combattenti di cui si sospetta che Galesi e Lioce abbiano fatto parte, c´è un episodio che risale al 25 dicembre del 1992, quando il segretario della locale sezione del Partito socialista consegnò ai carabinieri due volantini, con intestazione «Nuclei comunisti combattenti», rinvenuti una decina di giorni prima. Il fatto poi che i due terroristi fossero partiti all´alba dalla stazione Tiburtina rafforza il sospetto che a Roma ci possa essere una base logistica delle Brigate Rosse. I due terroristi dovevano arrivare ad Arezzo alle 8,30, ieri mattina. Perché Arezzo, per fare cosa? Per il momento, si possono fare soltanto congetture: «Si può ipotizzare - spiega l´investigatore - che dovevano partecipare a una riunione, incontrarsi con altri brigatisti. Oppure che stavano recandosi sul posto per fare controinformazione su qualcuno. Insomma, per studiare i percorsi e le abitudini di un possibile bersaglio. Il fatto che fossero "armati" di una viodeocamera potrebbe far supporre che stessero lavorando a una inchiesta su qualche possibile vittima». Arezzo, dopo Roma e Bologna? Gli investigatori non si sbilanciano, e intanto riaprono il fascicolo della rapina, avvenuta quasi un mese fa, all´ufficio postale di via Torcicoda, nella periferia di Firenze. Il 6 febbraio, alle nove del mattino, quattro rapinatori, tra cui una donna (o forse due), armati di pistole e di mitra, un Kalashnikov, fanno irruzione nell´ufficio postale. Del gruppo, due entrano con il volto coperto con caschi, gli altri due irriconoscibili grazie alle sciarpe. Bottino: 67.000 euro. Il sospetto è che Mario Galesi e Desdemona Lioce potrebbero aver partecipato a quella rapina. Ieri mattina Desdemona Lioce, ai poliziotti che le chiedevano la sua identità non ha voluto rispondere. Si è chiusa in un silenzio sospetto fino a quando, da Roma, non è arrivato chi l´aveva conosciuta nella metà degli Anni Novanta, e l´ha invitata a farsi riconoscere: «Dai, Nadia...». Solo a quel punto lei è sbottata: «Se sai che sono Nadia, sai pure che sono brigatista...». Il sospetto che fosse una «operativa» delle Brigate Rosse, gli uomini della Digos di Roma l´hanno avuto sin da quando, pur non avendo nessun debito da scontare con la giustizia, lei si era resa irreperibile. E come per Michele Pegna - poi arrestato e scarcerato - e per Mario Galesi, il gip di Roma ha emesso un´ordinanza di custodia cautelare anche per Desdemona Lioce, sulla base di indizi tenui ma con la certezza che spettava a loro, agli indagati, l´onere della prova della loro innocenza. Per Pegna, così sembra essere andata. Per Galesi e Lioce, invece, la drammatica cronaca di ieri ha rappresentato la conferma dei sospetti della Digos di Roma. Dopo quasi quattro anni dall´omicidio D´Antona, e dopo tentativi all´apparenza andati a vuoto - come l´arresto e la scarcerazione di Alessandro Geri, il presunto telefonista che rivendicò l´omicidio di via Salaria, e l´inchiesta del Ros dei carabinieri su Iniziativa Comunista - adesso il «mistero» delle nuove Brigate Rosse inizia a non essere più tale.
4 Marzo 2003: (La Repubblica)
Adriana Faranda: rivivo il mio dramma vecchie e nuove Br sono legate.
"Sbagliato inseguire il sogno di una società
giusta con la lotta armata: ora sono non violenta". "Ho sentito la notizia e ho avuto subito una sensazione; mi è affiorata come un'immagine dal mondo della clandestinità. I documenti falsi, la tensione del controllo. Lì per lì ho pensato: era domenica mattina, forse andavano a una riunione, a metà strada con il nord, come si faceva all'epoca. Ma è stata solo un'impressione: quando ho sentito della microcamera nel pacchetto di sigarette, mi è sembrato più probabile che andassero a fare un'inchiesta". Adriana Faranda, 53 anni, componente della Direzione strategica nelle prime Brigate Rosse all'epoca del sequestro Moro e "postina", insieme con Valerio Morucci, nei 55 giorni del rapimento, venne arrestata nel '79. Ha scontato sedici anni di prigione ed è libera dal '95. Vive in campagna, fa la fotografa, e, ormai, si dichiara "una non violenta convinta". È trascorso un quarto di secolo dalla strage di via Fani. Alle prime Br sono seguìte negli anni Ottanta quelle di seconda generazione e la lotta armata è stata sconfitta e isolata. "Le Br attuali sono per me incomprensibili dice Faranda eppure un elemento di continuità con il passato ci deve essere. Ho avuto dei dubbi finché le Br attuali non sono state avallate dai brigatisti detenuti. Dopo, non più. Quando dal carcere parte l'appoggio diretto vuol dire che c'è almeno un riconoscimento, politicamente parlando. E per le Br, "politicamente" vuol dire che c'è un minimo di prolungamento. Ideologico e organizzativo". Nadia Desdemona Lioce ha detto di essere delle Brigate rosse e si è dichiarata prigioniera politica. Proprio come facevate voi. "Non mi ha stupito. Stesso comportamento, stesse formule. Se esiste ancora un gruppo di persone che si rifà all'ideologia delle Brigate rosse, è ovvio che chi ne fa parte riproduca gli stessi riti, sebbene il contesto sociale sia profondamente cambiato. Dichiarare l'appartenenza e dirsi prigionieri politici, è fra i connotati dell'identità brigatista.
Riti a parte, riconosce una continuità oggettiva tra le nuove e le vecchie Br? "L'uccisione di D'Antona e di Biagi mi hanno lasciato esterrefatta. Lo dico rispetto alle prime Brigate rosse; perché già quelle di seconda generazione, degli anni Ottanta, sono per me difficili da interpretare. Quando le vecchie Br volevano avviare un processo di diffusione dell'ideologia della lotta armata sceglievano obiettivi immediatamente riconoscibili, l'epoca delle persone con responsabilità nascoste o meno visibili è venuta dopo. Ora, per fortuna, è tutto diverso: un'epoca si è chiusa definitivamente. Oggi siamo in presenza di un movimento per la pace, autentico, trasversale e forte, del tutto differente dal movimento antiamericano di un tempo e dell'odio cosiddetto antimperialista che l'accompagnava. Le nuove Br non hanno tanta acqua in cui nuotare o tanto referente disposto a passare sul terreno della violenza". E allora? "Non le so interpretare. In questa situazione le vecchie Br sarebbero state in ritirata strategica. Mi spiego: al 90% se ne starebbero tranquille, in attesa di un contesto sociale di conflitto acuto, per il restante 10% tenterebbero di riavviare un discorso di propaganda, per riconquistare il consenso. Ma con azioni di basso profilo, non certo con gli omicidi. Tengo a dire che sto ragionando a rigor di logica. Dò per scontato il lato umano: che non si può inseguire il sogno di una società più giusta con la lotta armata. Io sono ormai una non violenta convinta". Lei è stata una dirigente delle Br, sa riconoscere la cosiddetta "sapienza" brigatista nei documenti diffusi dopo gli omicidi di Massimo D'Antona e di Marco Biagi? "Quei documenti non li ho letti. Ma vorrei smitizzare il concetto di "sapienza". All'epoca noi ci informavamo sui volumi degli iscritti al Rotary, sulla guida Monaci, sui giornali locali. Ormai c'è Internet, che mette a disposizione qualsiasi cosa per chi vuole e sa navigare bene. Quanto agli informatori, anche ai nostri tempi c'era l'impiegato al ministero o altrove. Ma direi che oggi, in un momento in cui la situazione di massa d'appoggio non esiste, potrebbe rivelarsi paradossalmente più facile individuare il simpatizzante isolato". Quale consistenza pensa possano avere le nuove Br? "La pericolosità di un gruppo non ha niente a che fare con la sua consistenza numerica ed è in diretta relazione con la volontà e la decisione di queste persone ad agire. È un dato di fatto che, a differenza dei nostri tempi, oggi non esistono situazioni favorevoli nei movimenti. E meno si è presenti sul territorio, più difficile è muoversi. Ma sta di fatto che loro si muovono, purtroppo". Secondo lei, ci sono contatti o collegamenti con le vecchie Br? "Un legame, anche fisico, con le vecchie Br, probabilmente c'è. Non ho né la voglia né gli strumenti per avere certezze o per trarre conclusioni. Tra l'altro non ho mai conosciuto alcun elemento del gruppo toscano. Quanto alla continuità, invece, c'è sicuramente quella ideologicaorganizzativa". Da che lo deduce? "Dal fatto che le nuove Br sono state appoggiate da persone detenute. Perché, per quanta fame e sete di referenti esterni possa avere chi è prigioniero, non si avalla qualcuno, fuori, se non si sa chi è. Devi riconoscerlo come parte di te, ideologicamente e politicamente. Devi riconoscere la tua stessa identità politica, avere delle garanzie". Il declino e la sconfitta delle Br iniziarono venticinque anni fa, dopo l'omicidio di Moro e della sua scorta. Come mai ancora esistono le Brigate rosse? "Se non si accetta che la lotta armata è stata sconfitta dalla storia; se non si accetta che l'utopia di una società giusta non si può imporre e non si può ottenere con la violenza, ma anzi, al contrario, si può fondare solo sul rispetto della vita, allora si continua ad andare avanti, a tempo indeterminato, nella stessa perversa illusione". Come guarda Adriana Faranda le Br di oggi? "Vivo con molta amarezza, quanto è accaduto. Due morti e la donna del treno era clandestina. Conosco il dramma e la solitudine di quella vita. Conosco le difficoltà ad uscirne. E adesso l'irreversibilità di quanto è avvenuto è enorme e irrimediabile. Se sei clandestino, o riconosci la sconfitta e vai altrove, magari all'estero. O, peggio, stai qui, in attesa, finché fai o accade qualcosa. Scelte drammatiche e definitive. E dopo, dopo tutta questa morte, anche se tornerai tra i vivi e non uso questo termine a caso non sarai mai più quella di prima. E non sarà mai finita". Sta pensando a lei stessa? "Sì, in parte. Anche se io, come tanti altri, non ho mai ucciso nessuno in prima persona. Ma è lo stesso. Le responsabilità collettive sono un macigno. Dentro ti resta sempre qualcosa che ti dà la consapevolezza che nulla sarà più com'era".
6 Marzo 2003 (Corriere della sera)
ROMA - A un anno dalla rivendicazione del delitto Biagi, le Brigate rosse tornano a lanciare proclami con la calligrafia tonda e chiara di Nadia Lioce (il secondo nome, Desdemona, in calce al documento lei non l'ha messo). Ufficialmente le dieci pagine scritte a mano con due sole cancellature sono la dichiarazione spontanea ai giudici di Roma andati a interrogarla, prima di chiudersi nel silenzio. Ma per gli esperti dell'Antiterrorismo rappresentano «un messaggio che arriva dal cuore delle Br». Quasi una risoluzione strategica, condensata rispetto al solito per il poco tempo che la donna ha avuto a disposizione prima di incontrare i magistrati. Due giorni appena, nell'isolamento di una cella all'indomani dell'arresto, per dare conto delle «linee che in questa fase congiunturale caratterizzano la proposta delle Brigate rosse alla Classe». Alla luce di quelle dieci pagine, per inquirenti e investigatori Lioce non è più una semplice militante delle «Br per la costruzione del partito comunista combattente», come s'è firmata. È un capo. Una che «commemora dall'alto» il militante morto domenica nello scontro a fuoco con gli agenti della polizia ferroviaria. L'espressione è di un analista del Viminale, a commento dei passaggi in cui la brigatista ricorda «il compagno Mario Galesi» esaltandone «lo studio e il lavoro di comprensione svolto con impegno e serietà, esaudendo la prima condizione necessaria per rapportarsi efficacemente alla conduzione dello scontro». Una sorta di investitura da parte di chi, evidentemente, era entrato nell'organizzazione in precedenza e aveva già compiuto lo stesso percorso. La sparatoria sul Diretto 2304, scrive la brigatista superstite, non è stata un'azione premeditata: «Vogliono far credere che il conflitto a fuoco sia stato espressione di una linea di attacco delle Br o peggio, un costume dei brigatisti di sparare qua e là al primo che capita, peraltro anche in palese condizione di inferiorità di fuoco». Non è così, assicura la Lioce. I programmi sono altri. Per lei si tratta di «iniziative rivoluzionarie», per l'Antiterrorismo sono attentati in preparazione. E se si devono individuare gli obiettivi dalle parole messe nero su bianco, come si tentava di fare negli anni Settanta e Ottanta coi volantini firmati con la stella a cinque punte, il documento consegnato ieri al giudice indica tre «aree di interesse», come le chiamano gli esperti. C'è la conferma dell'attenzione rivolta in primo luogo ai progetti di riforma del mercato del lavoro e delle istituzioni; l'area politica e quella dei «consiglieri» come D'Antona e Biagi, dunque. Ma anche il mondo dei sindacati, compresa la Cgil. Infine, la contingenza internazionale porta a immaginare attacchi contro bersagli riconducibili a chi sta preparando la guerra all'Iraq: Stati Uniti, Israele e Gran Bretagna. Il linguaggio è involuto, i periodi lunghi e complessi, ma per chi è abituato a questo stile i messaggi risultano chiari. «Lo scontro di potere tra Classe e Stato sulla rimodellazione economico-sociale e istituzionale - scrive la Lioce -, nel quale le Brigate Rosse sono intervenute con l'azione Biagi spostando i rapporti di forza momentaneamente a favore del proletariato, non è affatto chiuso, ed è aggravato dalla perdurante stagnazione economica». Dopo la teoria, ecco le indicazioni per la «prassi»: «Sta alle avanguardie rivoluzionarie sapervi incidere, andando a lacerare le contraddizioni che attraversano il nemico, a porre le basi per la ricostruzione di un'autonomia politica della Classe». Per chi pratica la lotta armata significa continuare a muoversi in quell'area dove le parti sociali giocano un ruolo fondamentale: la Confindustria, che per i brigatisti «ha sponsorizzato e sostenuto con tutte le sue forze l'iniziativa di riequilibrio del rapporto neo-corporativo», ma anche i sindacati. «In questi giorni - si legge a pagina 6 del documento - il governo Berlusconi si prepara a celebrare, confidando sul vantaggio militare ottenuto ( l'uccisione di Galesi e l'arresto della Lioce , ndr), l'avvio della riforma Biagi. Cgil, Cisl e Uil, come se le parole d'ordine con cui sono scesi in piazza milioni di persone fossero solo contro il governo e la malasorte, ricuciono il rapporto tra loro e la Confindustria sul consueto terreno dell'interesse comune alla competitività delle azioni operanti in Italia...». Per gli analisti, mettere sullo stesso piano Cgil, Cisl e Uil significa anche spiegare ai vari «Nuclei» e «Fronti» che in questi mesi hanno compiuto attentati dimostrativi contro la Cisl e la Uil, che fra i tre sindacati non ci sono differenze sostanziali. Sono tutti sullo stesso piano, e semmai ha «colpe» maggiori chi promuove i grandi appuntamenti di piazza e poi «tradisce» le aspettative dei manifestanti. Ma dopo l'11 settembre 2001, citato dalla Lioce come una sorta di spartiacque, l'orizzonte delle «avanguardie rivoluzionarie» non può fermarsi all'Italia. Occorre occuparsi della prossima guerra all'Iraq, che le Br leggono come il tentativo di «abbattere il principale ostacolo all'egemonia dell'entità sionista bastione dell'imperialismo nell'area, disarmando e annientando la resistenza palestinese, punto di riferimento e di forza per tutte le masse arabe e islamiche espropriate e umiliate dall'imperialismo, che nel complesso costituiscono il naturale alleato del proletariato metropolitano dei Paesi europei». Anche su questo punto c'è un passaggio del documento che, letto con gli occhiali di chi immagina futuri attentati, indica nuovi obiettivi. «Le avanguardie - continua la Lioce - devono fare del contrasto alle mire israelo-anglo-statunitensi di ridefinizione a proprio vantaggio degli equilibri in Medio Oriente un punto di programma su cui aprire la prospettiva storica del Fronte combattente antimperialista, promuovendone i termini politico-militari...». La chiave di volta è tutta in quel termine doppio, «politico-militare», che prelude alle azioni armate che servono da cassa di risonanza ai proclami brigatisti. Di qui l'indizio su possibili bersagli legati a Stati Uniti, Israele e Gran Bretagna. Dal chiuso della cella nel carcere di Sollicciano, seppure in un momento di «vantaggio militare» per lo Stato, arrivano insomma nuovi annunci di guerra. «La linea dell'attacco al cuore dello Stato secondo i criteri di centralità, selezione e calibramento sedimentati e verificati in 30 anni di attività delle Br, è vincente e propositiva». Firmato Nadia Lioce. Cioè Brigate Rosse.
7 Marzo 2003 - (Corriere della Sera)
Da Moretti alla Lioce, il fronte arabo delle Br
- Armi e attentati, trent'anni di contatti. Il giudice che indagò Arafat: un mito che resiste «Gli elementi raccolti dal magistrato non hanno l'idoneità a creare l'apprezzabile "fumus" di colpevolezza per una partecipazione di Yasser Arafat ad una presunta collaborazione tra l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e le Brigate rosse...». Nel 1990 il processo finì così, assoluzione per insufficienza di prove. E per l'Italia il capo dell'Olp tornò ad essere soltanto un discusso leader politico e non un imputato. Carlo Mastelloni, un giudice di Venezia, aveva chiesto un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti: lo riteneva coinvolto nella fornitura di un carico di armi che l'Olp consegnò «gratuitamente» alle Brigate rosse nel 1979. Una vicenda oscura, mai chiarita. Simbolo della fascinazione delle vecchie Brigate rosse per la causa palestinese. Mastelloni della bontà di quell'inchiesta è convinto ancora oggi: «Gli incontri di Mario Moretti a Parigi con i dissidenti dell'Olp testimoniavano l'ambizione delle Br. Cercavano non solo armi, ma anche un riconoscimento internazionale. E lo cercarono tra i palestinesi, che nel loro immaginario hanno sempre avuto una funzione di mito». Una fascinazione rimasta intatta nel tempo. Nel 2003, Mario Galesi che confida a Nadia Lioce di volere una sepoltura con la kefiah al collo. Nel 1973, Mara Cagol, la compagna di Renato Curcio uccisa in un conflitto a fuoco nel 1975, che diceva di ispirarsi a Leila Khaled, la giovane palestinese specializzata in dirottamenti aerei che all'inizio degli anni Settanta divenne una specie di icona della lotta armata. Ma l'influsso del «mito» palestinese portò anche ad atti più concreti. Negli anni di piombo, molti dei capi Br la pensavano esattamente come Nadia Lioce, che martedì, dal carcere di Arezzo, ha definito la «resistenza palestinese» come «il punto di riferimento di tutte le masse arabe e islamiche umiliate dall'imperialismo, che nel complesso costituiscono il naturale alleato del proletariato metropolitano dei Paesi europei». Quel «naturale alleato» venne cercato, blandito, divenne una chimera, sempre sfiorata, mai completamente abbracciata. La storia dei contatti tra Brigate rosse e terrorismo palestinese passa attraverso tentativi goffi, piccoli tradimenti, sospetti reciproci. Una vicenda piccola, nell'enormità di quegli anni, ricostruita attraverso le testimonianze dei pentiti. E così riassunta dalla Commissione parlamentare di maggioranza sul caso Moro: «Risulta che sia le Br, sia Prima Linea hanno stabilito rapporti non occasionali con gruppi minoritari ed estremisti della resistenza palestinese dai quali, o tramite i quali, hanno ricevuto forniture di armi, che dopo l'assassinio di Aldo Moro determinarono un salto qualitativo nell'armamento delle maggiori organizzazioni terroristiche». Mario Moretti, capo delle Brigate rosse, nel 1979 girò per il Mediterraneo a bordo del «Papago» trasportando 150 mitra Sterling, due mitragliatrici, sei quintali di esplosivo al plastico. Armi destinate alle Brigate rosse, che si occuparono del trasporto, ma anche all'Ira e all'Eta. I fornitori, secondo il racconto del pentito Sandro Galletta: «Si trattava di una frazione dell'Olp, dissidente, ovvero minoritaria». Un pentito storico delle Br, Antonio Savasta, racconta che i palestinesi, colpiti dall'efficienza dimostrata dalle Br, offrirono il loro appoggio in cambio dell'impegno dei terroristi italiani a colpire obiettivi israeliani e Nato. «Una volta ottenute le armi - scrive la Commissione -, le Br cancellarono dai loro programmi le azioni promesse ai palestinesi, secondo Savasta per la difficoltà politica di conciliarle con la strategia dell'organizzazione, tutta incentrata sulla vicenda italiana». Gli interlocutori palestinesi non la presero bene, e i rapporti con gli «inaffidabili» italiani si raffreddarono. Gli ultimi colpi di coda delle «vecchie» Brigate rosse riportano in primo piano i rapporti con gli estremisti palestinesi. Il documento di rivendicazione dell'omicidio (luglio 1984) del diplomatico americano Leamon Ray Hunt, responsabile delle forze militari Nato nel Sinai, viene firmato dalle Brigate rosse-Partito comunista combattente, e dalla Farl (Frazione Armata Rivoluzionaria Libanese), organizzazione legata al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Un delitto rimasto senza colpevoli. E senza spiegazioni, ad iniziare da quella rivendicazione congiunta. La storia del Pcc sembra finire nel 1989, quando la polizia smantella la sua ultima cellula. Nove arresti, otto italiani e un giordano, Khalid Hassan Thamer Birawi, militante del «Consiglio rivoluzionario» di Abu Nidal, all'epoca primula rossa dell'eversione internazionale, responsabile dell'attentato del 1982 alla sinagoga di Roma. Secondo gli esperti dell'antiterrorismo, era stata concordata un'alleanza politica per compiere un attentato a Roma. In quell'operazione finisce in manette anche Franco La Maestra, nome di battaglia «Cesare». Era lui che teneva i contatti con l'inviato di Abu Nidal. Oggi La Maestra è uno degli irriducibili Br, uno di quelli che dal carcere «ispirano» chi sta fuori. Fu lui a citare implicitamente la Lioce e Galesi in una intercettazione telefonica dopo il delitto D'Antona. Anche Eli Carmon, israeliano, uno dei principali esperti di terrorismo internazionale è convinto che l'«appello» della Lioce non sia estemporaneo, ma abbia radici profonde: «Anche nel 1987-88, prima di essere spazzate via, le Br-Pcc, colpite dal successo della prima Intifada, scrissero documenti in cui auspicavano una collaborazione con i terroristi palestinesi». Gli esperti italiani dell'antiterrorismo leggono le parole della Lioce confrontandole con il documento dei Nipr (Nuclei di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria), organizzazione che si ispira alle Br-Pcc, che rivendicava l'attentato del 10 aprile 2001 all'Istituto Affari Internazionali di Roma. Trenta pagine sulla situazione internazionale. Un'analisi dettagliata sul Medio Oriente, che esalta «il soggetto palestinese» come «un alleato naturale nella lotta all'imperialismo». Sostiene Carmon: «Nelle loro risoluzioni, i terroristi italiani hanno sempre trascurato l'aspetto religioso della lotta palestinese, che è fondamentale. Esaltando invece lo sfondo ideologico, i deboli contro i forti». L'aspetto mitologico. Quello che diceva Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate rosse: «I primi Br erano imbevuti dell'alone leggendario della Resistenza. Verso la metà degli anni Settanta i più giovani invece si ispirarono alla lotta dei palestinesi». Come Mario Galesi e Nadia Lioce, oggi.
9 Marzo 2003
- Tra i molti misteri italiani, quello della morte di Aldo Moro, torna, quest'anno, con l'inesorabile pesantezza del venticinquennale. Qualche messa, le solite corone di fiori, le commemorazioni, un paio di convegni, forse, una nuova rivelazione. Ma é difficile pensare che un Paese che forse proietterá nelle sue scuole i film di Alberto Sordi possa, ad esempio, far solo leggere ai suoi ragazzi e ai loro docenti, i discorsi dello statista assassinato dalle Brigate Rosse, anche esse inesorabilmente tornate. In un tempo in cui, soprattutto in politica, avanzano semplificazione e sgangheratezza, riprendere un discorso di Moro é salire sulle spalle di un gigante. Ricchezza del linguaggio, spessore culturale, ironia, sottigliezza, simmetria, luciditá, sono i valori persi anche nel lessico del «Palazzo». La memoria di Moro, dunque. Di un Moro vivo. Sottratto, se possibile, al paradosso di quei 55 giorni, al suo fantasma. Ma quel fantasma c'é. Continua ad agitarsi. E questo Paese é chiamato a fare i conti anche, o soprattutto, con il Moro morto, con il suo sangue che «ricadde» sugli amici, sulla Dc, sull'Italia. Tra i non molti che continuano a coltivare la memoria di Aldo Moro c'é Giuseppe Giacovazzo che ha il merito di non essere il vacuo custode di un simulacro, ma un amico che non si rassegna e che soprattutto non vuol dar pace a quanti hanno rimosso Moro dalla loro coscienza. Èstato cosí, per un'inquietudine che ha molto della feroce nostalgia per il maestro perduto ma non poco della passione di un giornalista che continua a porsi faticosi perché, che é nato «Moro 25 anni dopo i Misteri» edito da Palomar. Ieri mattina nella sede della casa editrice di Gianfranco Cosma, l'autore ha tenuto una conferenza stampa per anticipare i temi di un volume che, al di lá delle veritá processuali, vuole essere soprattutto una sfida politica e culturale rivolta agli amici di Moro. Un invito a non dimenticare, a parlare, a non essere spettatori muti e inermi di fronte ad una delle grandi tragedie italiane del '900. Il libro (che sará presentato ufficialmente a Bari il 21 marzo nel corso di un dibattito con Ciriaco De Mita e Arturo Parisi) oltre ad un ampio capitolo iniziale dello stesso Giacovazzo e al testo del documentario televisivo che l'autore curó per il Tg1 nel decennale della morte, contiene anche gli interventi che Forlani,Mancino e Martinazzoli pronunciarono nella stessa occasione e l'ultimo discorso di Moro ai gruppi parlamentari della Dc tenuto il 28 febbraio del '78. La rimozione di Moro (non la sua morte nel cuore degli amici, ma la morte del cuore degli amici) inizió giá pochi giorni dopo il sequestro. Davanti alle telecamere dei Tg1- ha ricordato Giacovazzo - anche amici carissimi e non di partito come padre Sorge e il professor Scoppola negarono l'autenticitá delle sue lettere dal carcere brigatista. Era quel disconoscimento di Moro che portó l'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga a preparare quel «piano Victor» che, nel caso Moro fosse tornato, ne prevedeva il ricovero per farlo rinsavire. Ma da Cossiga ad Andreotti fino allo stesso Zaccagnini (che finirá i suoi giorni anche con il tormento per non essere stato ammesso a casa Moro per chiedere perdono) gli amici si iscrissero a quel partito della fermezza voluto soprattutto dal Pci di Berlinguer che avvicinatosi, proprio grazie al leader democristiano, all'area di governo,doveva dimostrare di avere forte il senso dello Stato. «Da me intervistato per il TG1 nel 1984, qualche mese prima di morire -ha ricordato Giacovazzo- Berlinguer ammise che con solo Moro vivo il Pci sarebbe entrato nel governo. Ma quello- ha aggiunto- non era il pensiero di Moro convinto assertore soprattutto di un dialogo che doveva aprire vie e spazi nuovi alla democrazia italiana». Prigioniero di terroristi che pure riuscí a conquistare con la forza del dialogo, abbandonato dagli amici paralizzati e irretiti dal Pci e da uno Stato che affidó le indagini a generali piduisti, Aldo Moro non tornó e morí «al momento giusto» per tutti: superpotenze comprese. Venne il grido amarissimo di Paolo VI («Signore, tu non hai ascoltato la nostra preghiera») per il quale Moro aveva profetizzato un «grande scrupolo per il pochino che aveva fatto», venne il riconoscimento di un grande scrittore, Leonardo Sciascia, tra i pochissimi a credergli. Dalla sua piccolissima cella il prigioniero credente aveva giá intravisto la «bellissima luce» che lo aspettava nell'aldilá. Ma lasciando il buio di troppi e inesplorati misteri. Il libro di Giacovazzo ha il merito di non cedere alla rassegnazione, di invitare a fare i conti con Moro e di ricordare che via Caetani resta il crocevia della storia della nostra Repubblica.
10 Marzo 2003 (Il Tempo)
- IL KGB che spiava Aldo Moro, il Sismi che lo sapeva ma non avvertì la magistratura, i due «fronti di fuoco» dei brigatisti in via Fani, i covi di via Gradoli e via Montalcini, le manovre politiche per salvare o, secondo alcuni, per non salvare l'ostaggio. Un quarto di secolo dopo il rapimento e l'assassinio dello statista democristiano e il massacro della scorta, sul «caso Moro» continuano ad aleggiare molti, troppi misteri. L'ufficiale del Kgb. Sergej Fedorovic Sokolov, ufficiale del servizio segreto sovietico, spiava Moro alla Sapienza già un mese prima del sequestro, spacciandosi per studente. A sua volta era controllato dagli 007 del Sismi. Il suo nome emerse dal dossier Mitrokhin nel '98 anche se l'assistente del presidente Dc Franco Tritto denunciò la sua presenza sospetta intorno allo statista già il 16 marzo 1978. Sokolov chiese informazioni sulla scorta di Moro nel febbraio di quell'anno. Poi scomparve nel nulla e, il 23 marzo rientrò precipitosamente in Unione Sovietica per tornare in Italia nell'81. Per lui la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione non essendo «possibile dimostrare il coinvolgimento» dell'uomo nella vicenda. «Perché il Sismi - si chiede oggi Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle inchieste sulla strage e il rapimento - ha taciuto alla magistratura l'esistenza di un fascicolo su Sokolov mentre era in corso il sequestro?». La dinamica della sparatoria. Il consulente balistico della procura sostenne fin dall'inizio la tesi del fuoco incrociato di cui restarono vittima gli uomini di scorta in via Fani. Gli ex Br sostennero il contrario. «Sia nella prima consulenza per la procura nell'immediatezza del fatto, sia nelle perizie balistiche eseguite successivamente in sede dibattimentale e istruttoria scrissi che nell'agguato di via Fani per rapire Moro, vi fu un fuoco incrociato da parte delle Brigate Rosse. Lo dimostravano i fori dei proiettili e il numero delle armi», spiega il professor Antonio Ugolini. Almeno sull'auto del presidente, il fuoco fu aperto da destra e da sinistra della strada. Per Ugolini, inoltre, i famosi 49 colpi «con verosimiglianza furono sparati da una sola pistola mitragliatrice utilizzando due caricatori, mettendo a segno buona parte dell'operazione. Tanto che sul posto venne trovato un caricatore con alcune cartucce, dimostrando che l'arma si era inceppata». Aggiunge Ugolini: «i caricatori della pistola mitragliatrice Fna 43 erano da 32 o 36 colpi ed uno, come noto, fu estratto perchè l'arma si era inceppata». Invece, ancora nel 1997, in commissione Stragi, Valerio Morucci, affermò che gli «Fna a sparare erano due», aggiungendo quindi che «la perizia balistica ha accomunato i colpi sparati da entrambe le armi». I covi. Per Alfredo Carlo Moro, fratello della vittima e magistrato, si è tuttora in presenza di «elementi dubbi» e la versione dei brigatisti è «fantasiosa e illogica». La Renault 4 nella quale venne rinvenuto il cadavere di Moro era in via Montalcini, dove fu vista da un'inquilina, e «raggiunse la sede della vera prigione, che era fuori Roma ma vicina alla Capitale. In questa sede - sostiene Carlo Moro - avvenne l'uccisione e la Renault tornò in via Caetani verso mezzogiorno». Per quanto riguarda via Gradoli, invece, la scoperta del covo viene definita da Carlo Moro un fatto «enigmatico».
12 Marzo 2003
Il leader di Potere operaio, Franco Piperno, racconta del suo incontro col capo delle Br «Con Moretti un colloquio politico»
- Un gran numero di brigatisti non volevano la morte del democristiano Poco dopo il tragico epilogo del sequestro di Aldo Moro, che si consumo' il 9 maggio 1978, vi fu un incontro tra Franco Piperno, leader di Potere Operaio, e Mario Moretti, capo delle Brigate Rosse. Un colloquio ''politico'', come lo definisce Piperno, che allora fece da tramite tra il Psi di Craxi e l'ala trattativista delle Br, rappresentata da Valerio Morucci e Adriana Faranda. Un'attivita' di negoziazione nel tentativo di imprimere una svolta positiva al rapimento dello statista. ''Fu Moretti a volermi vedere -spiega l'ex ideologo di Potere operaio- e per quanto mi riguarda ero interessato a sapere come era andata effettivamente e come si fosse giunti a quella tragica conclusione. Avevo nutrito la speranza di una fine diversa, ed ero convinto si potesse in qualche modo inceppare la macchina partitica italiana che appariva del tutto impazzita''. Piperno si dice certo che, allora, ''un certo numero di brigatisti volesse risparmiare la vita a Moro'' e del fatto che quella del capo delle Br fosse stata ''una decisione precipitosa''. Mario Moretti, da parte sua, confida il professore di Fisica, ''temeva una concorrenza sul suo stesso piano. Avevano avuto molte fuoriuscite dalle file delle Br, anche al Nord, e pensava che cio' fosse accaduto su nostra indicazionÈ'. ''Moretti mi confesso' che aveva sfiducia nella trattativa con lo Stato e non credeva vi fossero margini per cui si potesse evitare quella tragedia.
Spiego' che aveva prolungato i termini dell'esecuzione di Moro per scrupolo. Io penso -osserva Franco Piperno- che quella scelta era anche dovuta alla volonta' di una parte dell'organizzazione di salvare Moro''. ''Egli disse che aveva accettato l'ultimo tentativo, ma aggiunse che dopo la risposta della Dc ritenne non ci fosse piu' nulla da fare. Inoltre, si volevano sganciare perchÈ temevano di essere catturati. Per quanto mi riguarda -nota Piperno- mi rafforzai nell'idea che si fosse trattato di un errore politico. Sapevo inoltre che se la sarebbero presa con noi, come effettivamente accadde di li' a poco''. Quando si formo' il fronte della trattativa, Piperno avvio' gli incontri con l'esponente del Psi, Claudio Signorile: ''ci vedemmo una decina di volte. Gli spiegai quali fossero le possibilita' di interloquire con le Br. Avevamo puntato sulla chiusura del carcere speciale dell'Asinara. Questo non garantiva nulla, ma intanto apriva un rapporto Dc-Br cui le Brigate Rosse, in virtu' della teoria sullo Stato partito, tenevano molto''. 'La cosa successivamente si allargo'. Un generale amico del presidente della Repubblica ci garanti' una certa liberta' di manovra. Fanfani si diede molto da fare per tentare qualcosa di istituzionalmente accettabile. Ho prova del fatto che quella famosa mattina egli doveva intervenire personalmente per dichiarare la disponibilita' della Dc su alcuni aspetti. Invece, la risposta di Bartolomei fu quanto di piu' debole si potesse immaginare. Cio' non toglie -aggiunge l'ex leader di Potere operaio- che la responsabilita' dell'omicidio ricada interamente sulle Br''. Dopo il 9 maggio, Piperno vide anche Craxi tramite il senatore Antonio Landolfi, manciniano, allora vicesegretario del Psi. ''Mi disse che attraverso suoi canali aveva saputo che la campagna di primavera delle Br era stata organizzata a Praga. Successivamente, ho saputo da Signorile che Craxi muto' atteggiamento nei nostri confronti in conseguenza delle pressioni del generale Dalla Chiesa, secondo il quale le Brigate Rosse dipendevano dai regimi dell'Est''. L'ex fondatore di 'Metropoli', confessa di essere rimasto allibito quando ha saputo che il padre di Giuliana Conforto, la collega di Fisica che ospitava Morucci e Faranda in viale Giulio Cesare quando vennero arrestati, era un agente del Kgb. "Persino mia madre mi ha chiesto come fosse possibile. Allora pensammo che Morucci e Faranda fossero stati catturati perchÈ poco avveduti. Ora, questo potrebbe far leggere le cose in un altro modo".
La perizia favorevole ad Arconte: Gladio sapeva del sequestro Moro
ROMA - È un abisso oscuro che nasconde ancora molti terribili segreti. Dopo venticinque anni il sequestro e la morte del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro si porta infatti dietro una pesante eredità di ombre: dubbi, sospetti e tragiche bugie. Ma anche provocazioni e depistaggi dei quali spesso sfugge l'origine e la logica. Non sono bastati cinque processi e il lavoro di tre commissioni parlamentari per scardinare resistenze occulte e arrivare alla verità. E questa tragedia umana e politica è popolata di uomini di Stato, di politici di seconda schiera, di uomini che solo successivamente si scoprirà appartenevano alla loggia segreta P2. E ancora: personaggi dei servizi segreti, consulenti del dipartimento di Stato Usa, falsari e malavitosi. Una cornice fosca intorno al colpo portato al cuore dello Stato dalle Brigate Rosse, il 16 marzo del 1978. Una data che segna anche la fine di un progetto politico pensato e voluto da Aldo Moro e dall'allora segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer. Ma qualcosa di nuovo sta fermentando. C'è infatti una testimonianza che potrebbe riaprire antiche ferite e consentire una rilettura del sequestro e della morte di Moro. È quella di un agente del Supersid, Antonino Arconte. Nome in codice: G.71. Arconte ha raccontato di aver fatto parte di una struttura segreta all'interno dei servizi di informazione militari che operava soprattutto all'estero. Secondo lui, la vera Gladio era questa e non quella rivelata da Andreotti nell'estate del 1990. Arconte, dopo avere affidato all'oceano telematico di Internet la sua storia di 007 abbandonato dal suo Paese nel 1986 - quando la struttura venne cancellata - ha anche scritto un libro, "L'Ultima Missione". Per puntellare le sue incredibili rivelazioni, l'agente G.71 ha presentato una serie di documenti. In quelle carte c'è la sua storia di giovanissimo volontario nella scuola allievi sottufficiali dell'Esercito, a Viterbo, il suo reclutamento nei servizi segreti, il suo addestramento alla Maddalena e alla Spezia e il suo inserimento nella Gladio. Tra quei documenti ce n'è uno che lega la storia di Arconte alla tragedia Moro. Un documento che dimostra che ambienti dei servizi segreti erano a conoscenza del fatto che le Brigate Rosse stavano preparando il rapimento di Aldo Moro. Bufala o documento autentico? Quando lo scorso anno si diffuse la notizia dell'esistenza di quel foglio di carta azzurrina nel quale, due settimane di via Fani, viene ordinato alla stazione del Sid di Beirut di attivare contatti con il terrorismo palestinese per favorire la liberazione del presidente della Dc, scoppiò un finimondo. Una fiammata, per dire la verità. Nel senso che quel brivido si esaurì presto. Poi, tutto tornò a tacere. Giulio Andreotti, che era l'inquilino di Palazzo Chigi nei giorni del sequestro Moro, il 9 maggio 2002 presentò un'interrogazione al ministro della Difesa Antonio Martino. Finora non c'è stata alcuna risposta. Ma alcuni giornalisti di Famiglia Cristiana, di Liberazione e di Rai3 hanno chiesto ad Arconte di effettuare una perizia su quel documento che dimostrava la mobilitazione di Gladio, prima ancora che il commando delle Br il 16 marzo 1978 entrasse in azione in via Fani. G.71 ha accettato e messo a disposizione quella nota. La perizia è stata affidata alla dottoressa Maria Gabella, che viene considerata un'autorità in materia. È lei, infatti, la procura di Roma chiese di studiare e valutare molti documenti trovati nei covi romani delle Br nel 1978. E sempre a lei fa riferimento la procura di Torino per i lavori più delicati e i casi più difficili. Proprio in questi giorni è arrivata la risposta: «Il documento di Arconte è compatibile». Cosa significa questa espressione? Vuol dire semplicemente che potrebbe essere autentico. Non che il contenuto sia vero, è ovvio, ma che è verosimile che quella nota risalga al 1978. «Il documento è compatibile con l'epoca dei documenti di raffronto» ha dichiarato la dottoressa Gabella. Che ha aggiunto: «Non è un documento recente, nel senso che ha almeno tre anni e mezzo. Il che, ovviamente, non esclude che sia ancora più "antico"». Il giudizio è chiaro: «Non è un manufatto dozzinale. Anche se per ipotesi fosse un falso, è opera di persone esperte». Ma vediamo gli aspetti tecnici della perizia. Prima di tutto la carta. Si tratta di una carta speciale, prodotta con una pasta nella quale sono contenuti metalli pregiati. Probabilmente perché deve avere una funzione identificativa. Per l'esame della datazione è stato utilizzato un microscopio a scansione ed è stato poi adottato il metodo "Max Frey" sulla lievitazione del solco per capire il tipo di macchina per scrivere utilizzata. Insomma: se si tratta di un falso, è un falso raffinatissimo. Certo, c'è da chiedersi che interesse avrebbe Arconte a creare un falso ben 25 anni dopo i fatti.
A questo punto sarebbe molto interessante anche una perizia sulle lettere che l'ex presidente del consiglio Bettino Craxi scrisse dal suo esilio di Hammamet ad Antonino Arconte e ad altri due gladiatori (Doctor Franz e Tano Giacomina). Craxi esprimeva la sua solidarietà agli ex agenti del Supersid, ma chiedeva loro di tacere per non mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. La perizia, pur prudente, segna comunque una discriminante. Dice infatti che non si è davanti a un bufala. Il racconto di Arconte deve essere perciò ripreso in seria considerazione e valutato con molta attenzione. Può infatti provare che Gladio era un'organizzazione molto diversa da quella che è stata poi rivelata ufficialmente da Andreotti. Ma soprattutto, può riscrivere molte pagine del sequestro e del rapimento di Aldo Moro. Il commento dell'ex gladiatore è asciutto, ma fa trasparire una certa soddisfazione: «Io ero tranquillo. Ho infatti sempre detto la verità e ora posso dire di avere adempiuto alla mia ultima missione». Quale? Arconte lo aveva già spiegato: era l'ordine ricevuto dal suo ex numero uno, il generale Miceli (l'ex comandante dei servizi segreti militari, il Sid): se l'organizzazione fosse stata smantellata e i gladiatori abbandonati, loro dovevano raccontare cosa era successo. Dovevano raccontare che loro appartenevano a una struttura militare segreta che ubbidiva a una logica atlantica. È comunque utile, a questo punto, ricordare il racconto di Arconte sul documento che potrebbe riscrivere la storia del sequestro Moro. Antonino Arconte aveva visto per la prima volta quell nota il 13 marzo del 1978. E l'aveva perfino fotografata. Il foglio in carta azzurrina, intestato "Ministero della Difesa, direzione generale S.B" era dentro il plico consegnatogli dal grande capo. Cioè, il generale Vito Miceli. L'ordine era di portarlo a Beirut e metterlo nelle mani del gladiatore G-219. Arconte non sapeva cosa contenesse quella busta. Lo scoprì solo il 13 marzo, quando il mercantile Jumbo Emme, sul quale era imbarcato come macchinista navale, arrivò nella capitale libanese. G-219, un uomo alto e robusto, salì a bordo della Jumbo Emme la mattina del 13 marzo. I due gladiatori non si conoscevano. Sapevano solo di appartenere alla stessa organizzazione supersegreta. La consegna del documento avvenne nel piccolo alloggio di Arconte. G-219 aprì il plico sigillato: dentro, oltre ai cinque passaporti, c'era quel foglio di carta azzurrino. Per qualche minuto, il gladiatore di Oristano rimase da solo nella cabina. Fu allora che tirò fuori dalla sua sacca una piccola macchina fotografica e fece alcuni scatti al documento, in fondo al quale era scritto, a stampatello: «A distruzione immediata». Insomma, non doveva restare alcuna traccia dell'ordine di «attivare contatti con gruppi del terrorismo mediorientale, al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell'onorevole Aldo Moro». Un ordine strano, stranissimo, visto che era stato scritto ben due settimane prima del rapimento del presidente della Democrazia cristiana in via Fani. Quel documento non è stato distrutto. E ora, dopo oltre vent'anni, riemerge dalle nebbie del passato. Si badi bene: non la fotoriproduzione fatta da Arconte, ma proprio l'originale. Questo significa solo una cosa: l'agente G-219 non ubbidì all'ordine di distruggere la nota diramata, tra l'altro, da un servizio segreto del quale si è finora ignorata perfino l'esistenza. Cioé il Simm, il Servizio Informazioni della Marina militare. Niente a che vedere con il Sios Marina. Anche il destinatario finale del documento, l'agente G-216, evidentemente, preferì disubbidire. Lui era un uomo che contava all'interno della struttura dei servizi segreti militari. Era il colonnello Stefano Giovannone, responsabile dell'intelligence italiana per tutto il Medio Oriente. Giovannone, che nel mondo delle "barbe finte" era conosciuto come "Stefano d'Arabia" o come "Il maestro", era, guarda caso, un uomo fidatissimo di Aldo Moro, del quale condivideva pienamente la linea filopalestinese. Era tanto vicino al presidente della Dc, che Moro, dalla prigione delle Br, chiese il suo aiuto. Scrisse infatti a Flaminio Piccoli (allora presidente dei deputati democristiani) di «far intervenire il colonnello Giovannone, che Cossiga stima». Poi, nella missiva indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Erminio Pennacchini, Moro ribadì: «Vorrei comunque che Giovannone fosse su piazza». Ma come ha fatto quel documento - l'originale si intende - a ritornare da Beirut nelle mani di Arconte? È lo stesso G-71 a dirlo: «L'ho avuto dal mio collega G-219, alias Mario Ferraro, nella tarda primavera del 1995. Poco più di un mese prima della sua strana morte». «Nel 1985 noi gladiatori - dice Arconte - venimmo abbandonati, "cancellati". Molti di noi morirono, altri preferirono sparire. A Ferraro andò diversamente. Lui, infatti, passò al Sismi, mantenendo grado e stipendio». «Ma nel febbraio del 1986 - continua Arconte -, G-219 ricevette un ordine che giudicò "molto strano". Si trattava di una missione a Beirut, dove lui aveva lavorato per anni con Giovannone. Mi raccontò che il suo istinto gli diceva che, se fosse partito, sarebbe "tornato con le gambe davanti". Cioé morto. E non partì».
Racconta il gladiatore di Oristano: «Alla fine della primavera del 1995, Ferraro era molto preoccupato. Mi disse che aveva subìto delle minacce, ma non mi spiegò perché. Mi chiese un incontro, perché voleva consegnarmi qualcosa. Concordammo di incontrarci a Olbia. E lì mi diede il documento che io gli avevo consegnato nel 1978». Mario Ferraro venne trovato impiccato a casa sua, a Roma, un mese dopo questo incontro. Pochi hanno creduto a un suicidio.
Moro: 25 anni, dall'omicidio che cambiò il Paese. Un quarto di secolo fa il ritrovamento del corpo dell'ex presidente Dc chiudeva i 55 giorni più bui della nostra storia, e apriva "l'affaire Moro" una storia non ancora conclusa. Ecco la ricostruzione di quei giorni. (di V. Tessandori)
"ODISSEA MORO", 25 ANNI DI MISTERI
MILANO - Un quarto di secolo fa, il 16 marzo: le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il giorno, si sosterrà in seguito, solo casualmente è lo stesso in cui deve ricevere la fiducia il nuovo governo Andreotti, per la prima volta appoggiato all'esterno dai comunisti. In quelle stesse ore, a Torino è in corso il processo ai componenti del così detto gruppo storico delle bierre. Un dibattimento tormentato, sospeso l'anno avanti per l'uccisione dell'avvocato Fulvio Croce, presidente dell'Ordine, che aveva rimpiazzato i difensori di fiducia ricusati dai brigatisti. Ora è ricominciato, fra mille timori, e il 10 marzo, sotto casa, è stato assassinato il maresciallo di polizia Rosario Berardi: un galantuomo, purtroppo utile ai terroristi per «dare un segnale» a quelli in gabbia. I quali lo valutarono flebile. Fatto è che le Brigate rosse da mesi avevano progettato un colpo assai più rumoroso e sei giorni dopo passarono alla fase operativa. A Roma si sono spostati anche alcuni delle colonne di Milano e Torino, perché il piano prevede uno scontro campale.
Scatta "l'operazione Frtiz": L'agguato - Alle 8,55 di quel terzo giovedì del mese l'onorevole Moro esce da casa, in via del Forte Trionfale 79. Si sistema sul sedile posteriore di una Fiat 130 blu guidata dall'appuntato Domenico Ricci, al fianco il caposcorta, maresciallo Oreste Leonardi; dietro, un'Alfetta bianca col brigadiere Francesco Zizzi, che proprio quel giorno ha sostituito un collega, e gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il piccolo convoglio piega in via Trionfale dove si trova davanti una 128 bianca. È cominciata l'«operazione Fritz», Il «gruppo di fuoco» è composto da nove. Forse. Al volante dell'utilitaria, «una persona» con i capelli lunghi e biondi: pare una donna, è Mario Moretti, il capo, fra tutti uguali; accanto, un uomo. Da giorni l'auto, con falsa targa diplomatica, sostava poco lontano dalla casa del presidente democristiano, ma nessuno l'aveva notata. Le auto tagliano piazza Monte Gaudio, superano un edificio su cui spicca la scritta: «Signor Padrone, domani ti sparo». E girano in via Fani. Rapide, fino all'incrocio con via Stresa, dove scatta la trappola. La 128 inchioda, ma le luci degli «stop» non si accendono. Inevitabile il tamponamento della 130. Ricostruirà la perizia: «Gli sportelli anteriori della 128 si aprono ed escono i due occupanti i quali, ciascuno dal proprio lato, si avvicinano alla 130 e, da brevissima distanza, aprono il fuoco incrociato contro l'appuntato Ricci e il maresciallo Leonardi. La traiettoria dei proiettili è studiata alla perfezzione in modo da non intercettare il corpo di Moro». Anche l'Alfetta viene investita da due raffiche sparate dal lato sinistro. A portata di mano dei tre agenti la sola Beretta d'ordinanza M92S, matricola X00098Z, di Jozzino; un'altra pistola è in un borsello e non c'è tempo per impugnarla. Avrebbero dovuto avere anche un mitra, si dirà che, forse, era nel bagagliaio: non fu ritrovato. Jozzino balza a terra, spara due volte ed è abbattuto; pure Zizzi scende: è disarmato, tre proiettili lo raggiungono alle spalle; dieci colpiscono Rivera, che si accascia sul volante, l'auto si arresta contro il paraurti posteriore della 130. A terra, 93 bossoli ma i colpi sparati furono assai più numerosi. Moro è illeso. Trenta secondi, «un'azione da manuale», riconoscono gli esperti, e Franco Piperno commenta la «geometrica potenza spiegata in via Fani». La fuga: Quattro di coloro che hanno teso l'agguato ai bordi della strada e che hanno fatto fuoco all'arrivo delle auto, diranno i testimoni, indossavano divise blu e, forse, qualcuno parlava tedesco, o in un'altra lingua. Un uomo in motocicletta, col mitra, blocca la strada. Moro non oppone resistenza. «Non è un energumeno e neppure uno sciocco. Sebbene confuso e sotto schock si è reso conto di quel che è successo, ha visto che la scorta è stata eliminata: cinque uomini colpiti da raffiche di mitra sono una scena terribile», racconterà Moretti in un lungo colloquio con Carla Mosca e Rossana Rossanda che ne faranno un libro. Moro viene sollevato e spinto nel vano fra i sedili di una 132 blu metallizzato guidata da Buno Seghetti e sulla quale sale anche Moretti. Prese anche due borse delle cinque che aveva a fianco. Qualcuno tenta un inseguimento, ma rapitori e ostaggio evaporano nel nulla. E dov'è, dove cercarlo, il nulla? In piazza Madonna del Cenacolo, dove i terroristi trasbordano Moro in un furgone, dopo averlo cacciato in una cassa: ma nessuno li nota. Lo portano in via Montalcini 8 interno 1. «Rimarrà sempre lì», sostiene Moretti. L'appartamento, intestato ad Anna Laura Braghetti, è stato acquistato con il parte del riscatto per la liberazione dell'armatore genovese Pietro Costa. Lei ci abita con Germano Maccari, nome in codice «Gulliver», uno che riesce a non farsi mai notare, si fà chiamare Altobelli, «lo scialbo ingegner Luigi Altobelli» il «quarto uomo». L'inferno della prigionia: La cella di Moro
- Al momento di chiudere il prigioniero in quella cella larga novanta centimetri e lunga due metri, il «capo», volto coperto dal passamontagna, domanda: «Presidente, ha capito chi siamo?» «Ho capito chi siete». È l'inizio di uno psicodramma che segna a fondo il Paese, rischia di travolgerlo. Per ricostruire il mosaico non bastano sei processi che vedono scorrere i nomi di molti protagonisti e, forse, altrettanti neppure li sfiora. I suoi carcerieri - C'è Moretti, carceriere, «inquisitore» e boia; e ci sono Prospero Gallinari, Braghetti, Barbara Balzerani, che, fra l'altro, raccoglierà sulla spiaggia la sabbia trovata nel risvolto dei
pantaloni di Moro; Maccari, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore; Adriana Faranda e Valerio Morucci, ex Potere Operaio, i «postini» a Roma; Seghetti. E Dio solo sa se l'elenco è completo. Il memoriale del presidente - Arrivano urla dal silenzio di quella cella. Moro scrive: alla moglie, al Papa, a Kurt Waldheim, segretario delle Nazioni Unite, agli amici, ai compagni di partito, a tutti coloro che potrebbero qualcosa per salvargli la vita e che, si rende conto, non faranno niente: almeno 29 lettere; un «memoriale», 412 pagine fotocopiate di appunti trovate da polizia e carabinieri in due perquisizioni, l'ultima nel '90, in una base brigatista in via Monte Nevoso a Milano. Gli interrogatori - Anche Moretti ha il suo daffare: gli interrogatori, che sono estenuanti perché Moro è abile e sa come dire le cose, la redazione di nove comunicati che rivendicano il sequestro, scandiscono i tempi del «processo proletario», ne annunciano la tragica conclusione. Gli assassini uccideranno Moro con una raffica al petto. Su «La Stampa» del 22 marzo col racconto del sequestro dell'ex presidente generale Pedro Eugenio Aramburu da parte dei Montoneros argentini, nel 1970, anticipai quella fine purtroppo «obbligata». «"Generale, il tribunale la condanna a morte. Lei sarà giustiziato tra mezz'ora". Aramburu rispose: "Procedete". Gli spararono al petto, poi alla testa». Caccia ai brigatisti - Senza quartiere la caccia alle Brigate rosse, agli assassini, ai carcerieri, al postino, al telefonista. Mobilitati polizia, carabinieri, finanzieri. E non solo: spie, sentitivi, di tutto un po'. Per avere lumi si frugano gli schedari, il terminale che dovrebbe conservare ogni segreto conosciuto su Brigate rosse & affini, si spremono confidenti che paiono aver poco da confidare. Uno sforzo titanico e, ben presto, ci si rende conto di quanto sia più complicato trovare l'ostaggio che quell'introvabile ago nel pagliaio. Del resto, sono gli altri, i terroristi, a dirigere il gioco. I comunicati delle Br - «Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali , è stata completamente annientata. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di quel regime democristiano che da trent'anni opprime il popolo italiano». È il «Comunicato numero 1», un redattore del «Messaggero» lo raccoglie nel sottopassaggio di largo Argentina, quarantott'ore dopo la strage, nella busta, pure la foto dell'ostaggio davanti a un drappo con la stella nel cerchio. A Torino, il 20, i brigatisti processati urlano: «Moro è nelle nostre mani». Ma il comunicato che vorrebbero leggere viene sequestrato e, del resto, conteneva la prova che del rapimento loro erano all'oscuro. Altri 5 giorni e le bierre diffondono sette copie del «Comunicato numero 2», diviso in due capitoli: «Il processo ad Aldo Moro», «Il terrorismo imperialista e l'internazionalismo proletario»: una sintesi delle «colpe» attribuite dai terroristi al prigioniero e al potere, soprattutto democristiano. Trattare o non trattare?
L'appello a Cossiga - Ma è una lettera di Moro a Francesco Cossiga, ministro dell'Interno, resa pubblica il 30, a gettare il panico. Dice fra l'altro: «Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della Dc nel suo insieme, nella sua gestione della sua linea politica. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa, ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusae di cui devo rispondere.
Nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato , che sono in questo stato avendo tutta la conoscenza e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni». S'ipotizzasse uno scambio, lo si faccia. «Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz. E non si dica che lo Stato perde la faccia perché esso non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un'alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato». Una bomba. E la prima difesa del potere è un catenaccio ostinato: è proprio Moro l'autore? Ogni parola viene osservata controluce, soppesata, valutata da psichiatri e analisti. Il Paese, meglio, la sua classe politica si spacca: da un lato il così detto fronte della fermezza con coloro, soprattutto i democristiani e i comunisti, che sostengono come non sia lecito cedere; dall'altro, in prima fila i socialisti, quelli che non respingono l'ipotesi di una trattativa. I comunicati si susseguono, sovente accompagnati dalle lettere del prigioniero. La prima a Benigno Zaccagnini, segretario del partito, resa pubblica il 5 aprile, è destabilizzante: «Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga, ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tu ti vorrai assumere le responsabilità che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzi tutto della Dc, alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzi tutto la Dc, la quale deve muoversi qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri». Lo "strappo"con la Dc - E dice anche di più: «Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi. Si discute qui non in atsratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell'opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l'unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando l'attenzione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo qua, ma anche politicamente utile». Ma agli occhi del potere «politicamente scorretta»: per questo si rinnova il rifiuto a credere che l'autore sia Moro. Anzi, è lui, ma scrive così perché costretto; non è in possesso delle sue facoltà. «Tenevamo in pugno uno degli uomini-chiave di quella fase politica, e i suoi soci si comportavano come se fosse stato un campione senza valore», osserva Anna Laura Braghetti ne «Il prigioniero», scritto con Paola Tavella. La lettera a Zaccagnini accompagna il «Comunicato numero 4» e una corposa «Risoluzione della Direzione strategica»: il documento è uscito da una tipografia di via Pio Foà, strada dove abita Giancarlo Pajetta. Solo più avanti la polizia individuerà il laboratorio e catturerà tre brigatisti, compreso il tipografo Enrico Triaca. Moro verso la morte: Il "miglio verde" - Sabato 15 aprile, le 19,30. Col «Comunicato numero 6» le bierre informano che «l'interrogatorio al prigioniero è terminato». E per Moro comincia il miglio verde. Noi, racconta Braghetti, «scrutammo alla televisione il volto terreo di Zaccagnini, guardammo quelli che si dicevano amici di Moro - Lettieri, Forlani, Anselmi - uscire dalle auto blu senza voltarsi verso le telcamere, e varcare in fretta, sotto la pioggia, il portone di casa sua». Depistaggi ed errori La Duchessa - La notizia dell'«esecuzione mediante "suicidio"» arriva il 18, col «Comunicato numero 7» nel quale si precisa che «la salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi del lago della Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (Ri) zona confinante tra Abruzzo e Lazio. È soltanto l'inizio di una lunga serie di "suicidi": il "suicidio" non deve essere soltanto una prerogativa del gruppo Baader Meinhof». Un martedì infernale: dozzine di uomini tentano di scandagliare il lago in mezzo ai monti. Ma di quel documento non esiste originale, c'è solo una fotocopia: insomma, è un falso. Al quale troppi credono o dicono di credere, proseguendo così in un gioco sempre più torbido. Via Gradoli - Quello stesso giorno la «controguerriglia» sfiora un successo clamoroso, forse senza rendersene conto. Pare per un'infiltrazione d'acqua, viene scoperta una base Br in via Gradoli 96, interno 11. Non una qualunque: nell'appartamento, affittato da tale «ingegner Maurizio Borghi», hanno passato la notte precedente Moretti e Balzarani. In precedenza era stata una sede di pot.op., potere operaio: fatto è che più volte polizia e carabinieri avevano bussato, invano, a quella porta. E ancora oggi Giovanni Moro, figlio dell'ex presidente democristiano, osserva col tono di chi accusa: «Uno degli aspetti più vili di questa vicenda è che, da una parte si dichiarava che lo Stato non avrebbe trattato, dall'altra nessuno realmente cercava il prigioniero». Estremismo al setaccio - Sia come sia, la caccia prosegue con retate che colpiscono simpatizzanti e militanti della sinistra più radicale, ma la prova che si procede a tentoni arriva quando in un solo giorno vengono perquisite 237 abitazioni, 100 persone sono fermate e 40 arrestate. Malgrado ciò, nel resto del Paese si susseguono gli agguati mortali, le gambizzazioni. La sensazione è che il tempo scorra troppo rapido. Con il «Comunicato numero 7», autentico, giovedì 20 le bierre avvertono che «il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione dei prigionieri comunisti. La Dc dia una risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre possibili». L'ultimo appello di Moro... - Ma non s'intravedono margini di trattativa, e neppure una nuova lettera a Zaccagnini cambia la situazione. «Mi rivolgo a te ed intendo con ciò rivolgermi nel modo più formale e, in un certo modo, solenne all'intera Democrazia Cristiana, alla quale mi permetto d'indirizzarmi ancora nella mia qualità di Presidente del partito. È un'ora drammatica. Vi sono certamente problemi per il Paese che io non voglio disconoscere, ma che possono trovare una soluzione equilibrata anche in termini di sicurezza, rispettando però quella ispirazione umanitaria, cristiana e democratica, alla quale si sono dimostrati sensibili Stati civilissimi in circostanze analoghe, di fronte al problema della salvaguardia della vita umana innocente. Ed infatti, di fronte a quelli del Paese ci sono i problemi che riguardano la mia persona e la mia famiglia». .e quello di Paolo VI - L'indomani Paolo VI, Papa Montini, fa udire la sua voce: «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua Famiglia, alla vita civile l'onorevole Aldo Moro». Aggiunge: «Vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni». «L'ennesimo appello umanitario», ricorda Braghetti. «Per noi lasciava il tempo che trovava». Come lo lasciò quello di Kurt Walheim, segretario generale dell'Onu, il 25. E come, in buona sostanza, lo lasciarono i nuovi, disperati appelli del prigioniero ai familiari, ancora a Zaccagnini. L'ultimatum dei carcerieri - Ma quello stesso giorno il «Comunicato numero 8» taglia corto: la vita di Moro contro la liberazione di Sante Notarnicola, Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Domenico Delli Veneri, Pasquale Abatangelo, Giorgio Panizzari, Maurizio Ferrari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Robero Ognibene, Paola Besuschio, Cristoforo Piancone, «proletari comunisti rinchiusi nei lager di regime». Poi , il 2 maggio, Moro indica un'altra possibile soluzione: la sua liberazione contro quella di Besuschio e del nappista Alberto Buonoconto, entrambi malati. Ma l'indomani il governo, per voce di Andreotti, respinge qualsiasi ipotesi di trattativa: che avrebbe il significato di un riconoscimento delle Brigate rosse. «Siamo, credo, al momento conclusivo», scrive due giorni più tardi l'ostaggio nell'ultima lettera alla moglie. Ore di convulsi incontri fra politici, militanti del movimento, dell'Autonomia, fiancheggiatori. Ma gli occhi di tutti sono su quella clessidra ormai vuota. L'esecuzione: Due raffiche al petto - Martedì 9 maggio, ore 6. Moretti e Maccari avvertono il prigioniero di entrare dentro a una cesta di vimini. «Dobbiamo andare», dice il «capo» «Mi saluti i suoi colleghi», risponde Moro. Poi i terroristi trasportano la cesta nel garage seminterrato, dicono al prigioniero di sistemarsi nel baule di una Renault R4. Si tolgono i passamontagna, per la prima volta lui li vede in volto. E capisce. Si raggomitola nell'auto. Gli sparano una raffica, al petto eppoi un'altra, più breve. La Renault rossa- I due brigatisti parcheggiano la Renault con il loro carico tragico in via Michelangelo Caetani, a pochi passi da Botteghe Oscure, la casa del partito comunista, e piazza del Gesù, sede della Dc. Il telefonista avverte che in quell'auto rossa c'è il corpo del presidente della democrazia cristiana. Sono le 13,15. La televisione ci regala in diretta uno «spettacolo» irripetibile. Il delitto Moro si è chiuso ma si apre l'«affaire Moro». Un quarto di secolo fa. Moro: storia italiana, tragedia di tutti. Negli anni dell'omicidio Moro si combatte una guerra che interessa l'intero vecchio Continente: gruppi armati, metropolitani, sono i protagonisti di una rivoluzione tentata, e persa nel sangue. (di Vincenzo Tessandori) - MILANO - "Tutti sanno che il presente diventerà un giorno storia", ha detto l'economista marxista americano Paul Sweezy. Chissà se dopo un quarto di secolo la tragedia di Aldo Moro è già storia o rimane tenacemente intrecciata a una cronaca che fatica a dissolversi: del resto, sei processi si lasciano dietro un incerto retrogusto di verità. Chissà se, con quell'azione, le Brigate rosse sul serio fossero convinte di aver colpito al cuore, e a morte, lo Stato. Chissà se l'idea di un "processo proletario e la condanna a morte" del mandarino più potente della prima Repubblica fosse venuta loro, o a qualcun altro. Chissà se quell'idea suggestiva di un "grande vecchio" capace di muovere le pedine della "rivoluzione" fosse soltanto "suggestiva". Rimane il fatto che i 55 giorni fra il sequestro e l'uccisione del presidente della democrazia cristiana furono i più difficili per l'Italia investita da furibondi venti da resa dei conti e da caccia al potere, peggiori di questi che pure vedono una guerra alle porte. Anche i brigatisti asserivano di trovarsi in guerra. Nessuno l'aveva dichiarata, ma loro si dicevano certi di combattere contro un irriducibile nemico: lo "Stato imperialista delle multinazionali".
Nella risoluzione della direzione strategica del febbraio '78, scrivono: "Certo, siamo noi a volere la guerra! Siamo anche consapevoli del fatto che la pratica della violenza rivoluzionaria spinge il nemico ad affrontarla, lo costringe a muoversi, a vivere sul terreno della guerra; anzi, ci proponiamo di far emergere, di stanare la controrivoluzione imperialista dalle pieghe della società "democratica" dove in tempi migliori se ne stava comodamente nascosta. Ma, detto questo, è necessario far chiarezza su un punto: non siamo noi a "creare" la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l'imperialismo nel suo divenire: non è un aspetto, ma la sua sostanza. L'imperialismo è controrivoluzione. Far emergere attraverso la pratica della guerriglia questa fondamentale verità è il presupposto necessario della guerra di classe rivoluzionaria nella metropoli". Contesto opaco, dunque, complesso, di lettura difficile. Il progetto, meglio, l'utopia rivoluzionaria correva rapida attraverso gran parte del continente in quegli anni definiti "di piombo" dal titolo dell'aspro film di Margarethe von Trotta. Gli irlandesi dell'Ira e i baschi dell'Eta non davano tregua. I francesi di Action Directe imitavano i gruppi "rivoluzionari", o sovversivi, di altri Paesi. Nella Germania Occidentale la Rote Armee Fraktion, la Raf, seminava terrore e lutti. Peter Lorenz, leader del partito democratico-cristiano di Berlino era stato sequestrato il 27 marzo '74, per la liberazione si pretendeva il rilascio di sei militanti: e per la prima volta lo Stato aveva ceduto. Se non è una guerra, quella che vive parte dell'Europa, le somiglia assai. Ulrike Meinhof, ideologa e, con Andreas Baader, capo del gruppo, viene trovata impiccata in cella il 9 maggio 1976. Il livello di scontro s'impenna. Il procuratore generale di Karlsruhe è ucciso in un'imboscata il 7 aprile '77 e il 5 settembre rapiscono Hans Martin Schleyer, presidente dell'associazione industriali tedeschi. Nell'agguato sono uccise quattro guardie del corpo. Per il rilascio, la Raf pretende la scarcerazione di undici "compagni detenuti". Stavolta lo Stato non cede e così ha inizio un braccio di ferro senza regole. Il 13 ottobre i terroristi dirottano un aereo della Lufthansa che, percorso in lungo e in largo il Mediterraneo, il 17 atterra a Mogadiscio dove ad attenderlo trova le "teste di cuoio", al loro esordio operativo: ufficialmente son guidate dal colonnello Ulrich Wagener, in realtà da un ufficiale britannico. L'indomani nel carcere di Stammheim muoiono Andreas Baader, Gudrum Enslin e Jan-Carl Raspe: da allora suicidarsi è diventato un verbo transitivo; e quartantott'ore più tardi il cadavere di Schleyer, crivellato di colpi al petto, viene fatto trovare su un'auto. Pochi mesi dopo, a Roma nel sequestro Moro le bierre paiono seguire nei dettagli quel copione. Tupamaros uruguaiani e palestinesi di Al Fatah rimanevano i modelli. La rivoluzione passava attraverso attentati, ferimenti, omicidi, sequestri ed "espropri proletari", che poi erano rapine per autofinanziamento. Ma perché Moro? Perché, per esempio, non Giulio Andreotti, mente sottile della democrazia cristiana, incarnazione del potere, "Belzebù", come lo chiameranno; oppure Amintore Fanfani, il "rieccolo": aveva firmato quattro governi e per lustri era stato nel cuore del potere; o Enrico Berlinguer, capo dei "picisti" che loro, le bierre, consideravano non più comunisti ma trafficoni impegnati a fornicare, politicamente parlando, con la Dc, tanto da garantire al governo, per la prima volta, l'appoggio esterno. Oppure Ugo La Malfa, o Giancarlo Pajetta. Mario Moretti, un ex operaio della Sit Siemens di Milano, spiegò in un'intervista divenuta libro: "Volevamo attaccare la Dc, lui era il suo presidente ed era stato al governo per quarant'anni. Ed è successo che la prima volta lo individuassimo per puro caso. Va così. Bonisoli abita in via Gradoli, sulla Cassia nuova, per andare in centro può fare corso Francia e il viadotto oppure la Cassia vecchia. Nel secondo caso traversa per forza la piazza dei Giochi Delfici, dove c'è la chiesa di Santa Chiara. Una mattina Bonisoli vi scorge davanti un'auto blu con una scorta numerosa. A queste cose siamo attentissimi. Si incuriosisce, invece che tirar diritto si ferma e di lì a poco vede uscire Aldo Moro. Semplicemente. E verifica che c'è quasi tutte le mattine. Ce lo racconta alla prima riunione, al momento la cosa era stata archiviata nella nostra testa". Accantonata l'ipotesi Andreotti perché troppo rischiosa, trascurati altri possibili obiettivi, fu Moro, ci hanno detto. D'altra parte va riconosciuto che poteva essere lo scacco matto. È "l'operazione più importante delle Brigate rosse", osserva Luigi Bonanate, che precisa: "Al tempo stesso segna anche un'inversione nella loro parabola, a dimostrazione di uno dei "teoremi" del terrorismo, valido dai tempi dell'attentato allo zar Alessandro II: se l'avversario regge al colpo più forte che il terrorismo possa infliggere, il successo del terrorismo non è più possibile". A la volta di Moro, sia pure a un prezzo ferocemente elevato, lo Stato ha retto. D'altra parte, Moro non era "uno dei tanti". In politica estera la sua posizione sull'atteggiamento dell'Italia verso i Paesi arabi era precisa e parecchi ne apparivano preoccupati: meno passiva disponibilità al canovaccio statunitense e israeliano e maggiore, per esempio, verso la Palestina prossima ventura. Inoltre aveva lavorato a lungo per portare il partito comunista nell'area di governo e il Parlamento avrebbe dovuto codificare il patto giovedì 16 marzo 1978. Su tutti questi punti politologi e dietrologi si sono affrontati con ferocia alla ricerca di quella verità che, forse, aveva trovato Leonardo Sciascia quando, per il suo "L'affaire Moro", scelse il distico: "La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto "al momento giusto". Elias Canetti, "La provincia dell'uomo". Poteva finire in un altro modo? La situazone politica, le esigenze della "rivoluzione", il destino: tanti, troppi motivi, ma nessuno convince. Moretti risponde che no, che non poteva esserci altra fine. "Molti di noi, dirà, si consideravano come chirurghi che tagliano un braccio". E il segretario del partito di Moro, il "caro Zaccagnini" come lo chiama l'ostaggoio nelle sue lettere, che pure aveva lasciato intendere come, forse, Dc avesse individuato uno strumento per sciogliere il nodo gordiano, il 6 maggio, è stato chiaro: "La Democrazia cristiana è ferita. Ma non cederà mai". Del resto, Winston S. Churchill non disse che "in tempo di guerra la verità è così preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie"? Ma quale guerra? Quella delle bierre contro lo Stato e il mondo o l'altra, per il potere politico, scoppiata assai prima di quel giorno di marzo e, ancor oggi, in corso? Forse, non rimane che rassegnarsi: non sapremo mai chi abbia mentito e chi detto il vero? Certo, dopo 25 anni, si avverte ancora l'aspro retrogusto che lascia la menzogna. A metà pomeriggio dello stesso giorno in cui fu ucciso il presidente della Dc, i familiari diffondono un comunicato: "La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia". Una tragedia italiana, dunque, che ha ispirato dozzine di libri: cronache, analisi, biografie e autobiografie. E talora accade che lo scopo non sia quello d'informare, semplicemente. Per dire, quando a Buenos Aires, alla fine di quel maggio, esce "Aldo Moro martir de la democracia del mundo", sorge il sospetto che l'autore, Oswaldo Monterrey, abbia voluto regalare un alibi al regime dei generali per quella sporca guerra pagata dagli argentini con morti, detenuti e almeno 30 mila "desaparecidos": vedete, è il filo conduttore del racconto, di che cosa sono capaci i sovversivi di tutto il mondo? Eppoi, gli sceneggiati televisivi, i film, memorabile ne "I giorni dell'ira" del regista Giuseppe Ferrara, l'interpretazione di Gianmaria Volontè. Ecco, almeno nella finzione cinematografica "tutti sanno che il presente diventerà un giorno storia".
Aldo Moro, 25 anni dopo
Il 13 marzo, a Roma, viene presentato Odissea nel Caso Moro dello scrittore Vladimiro Satta, approfondita rilettura di tutti gli episodi contestati del sequestro Moro.
ROMA - È il 16 marzo del 1978, 25 anni fa: un commando di almeno dieci brigatisti rossi trucida i cinque agenti di scorta e sequestra il presidente della DC Aldo Moro. Il 9 maggio successivo il corpo di Moro viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault parcheggiata in via Castani a Roma, a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI. A 25 anni distanza, ancora non esiste versione accertata sugli eventi di quei 54, drammatici, giorni. Esiste una "verità giudiziaria", a cui però nessuno sembra credere, che vede la condanna delle Brigate Rosse, come unici ideatori ed esecutori del sequestro, senza mandanti o manovratori occulti. Le contestazioni della ricostruzione processuale cominciano fin dai primissimi momenti dell'agguato brigatista. Troppa efficienza. Mischiati alle Br si trovavano forse dei professionisti assoldati dai servizi segreti? Poi l'incertezza sul luogo, o suoi luoghi, della detenzione di Moro; la misteriosa scoperta del covo brigatista in via Gradoli; la grave, pesante, accusa che i vertici istituzionali non avrebbero fatto tutto il possibile per salvare Moro, utilizzando di fatto le Br per sbarazzarsi dello scomodo statista. Con gli anni ipotesi e controipotesi invece di diradarsi si sono moltiplicate, dando vita ad una lunga serie di pubblicazioni sulle cosiddette verità parallele del sequestro Moro. L'ultimo arrivato in libreria è però in totale controtendenza. Si tratta di Odissea nel Caso Moro, di Vladimiro Satta, appena pubblicato dalla Edup. L'autore è stato per dodici anni documentarista alla Commissione Stragi, attiva dal '78 al 1983, che produsse oltre 130 volumi di atti sul sequestro brigatista, senza però arrivare ad una relazione conclusiva. Intento dichiarato di Satta è un salutare ritorno ai fatti documentati dopo tanto clamore e tanta dietrologia. Molte delle ipotesi complottiste infatti troverebbero scarsi riscontri fattuali. Secondo. Satta le ipotesi investigative alternative sono state contestate da una minoranza di anti-complottisti solo sulla base della loro verosimiglianza, dando per scontati gli indizi e le prove che di volta in volta venivano presentati. Alcuni episodi sono stati, col tempo, ingigantiti o distorti. Altri fatti, del tutto inesistenti, sono diventati verità alla stesso modo di leggende urbane che passano di bocca in bocca senza che nessuno si preoccupi di verificarne l'esistenza presso la fonte originaria. Come, ad esempio, la famosa doccia del covo Br di via Gradoli. Il covo fu scoperto il 18 aprile in maniera apparentemente casuale. I vicini segnalarono una perdita d'acqua e i pompieri, forzando l'appartamento, scoprirono gli opuscoli delle Br. Ma fu veramente un caso? Sembra che la cornetta della doccia si trovasse in una strana posizione: appoggiata su di una scopa in modo da indirizzarne il getto d'acqua su una fessura del muro. Allora non si trattato di un errore. Qualcuno voleva che il covo fosse scoperto. Ma chi? I servizi segreti per mandare un avvertimento alle Br? Le Br per mandare un avvertimento ai servizi segreti? Alcune Br per mandare un avvertimento ad altre Br? Da questo episodio sono scaturite una miriade di congetture, tutti dando per acquisito la strana posizione della doccia. Satta però riesuma dall'archivio della commissione due foto del bagno di via Gradoli. C'è una scopa, ma la doccia è fissata regolarmente al muro; il getto d'acqua scorre lungo la parete, raggiungendo anche la famosa crepa. Si scopre che il sospetto di un killer professionista che avrebbe aiutato i Br il giorno dell'agguato non ha riscontro oggettivo ma solo l'impressione di devastante efficienza nella dinamica dell'azione. Il fatto che, secondo un testimone, uno degli assalitori tenesse una mano sopra la canna del mitra, è veramente una prova inconfutabile di una presunta professionalità? Solo uomini del KGB o della Cia sono capaci di non mancare il bersaglio sparando con un mitra a distanza ravvicinata? Sono impressioni soggettive che ricordano quanti dissero, dopo l'11 settembre, che solo e soltanto esperti piloti con addestramento militare avrebbero potuto centrare le due Torri. Eppure queste impressioni, a volte, hanno finito con il diventare prove, spesso andando a confondere piuttosto che a rivelare. Magari interponendosi con piste altrettanto "dietrologhe" ma dotate di più fondamento. Questi sono solo due esempi del modo di procedere di Satta, che rilegge allo stesso modo tutti gli episodi contestati del sequestro Moro. La conclusione finale è un tentativo di riabilitazione dei risultati processuali, secondo Satta ingiustamente sottovalutati e, anzi, sostanzialmente corretti. Non sappiamo, anzi dubitiamo, che metterà a tacere i complottisti: tra i molti che non credono alla solitudine delle Brigate Rosse e che hanno percepito l'ambiguità e le reticenze delle istituzioni nel gestire questa pagina scura della Storia italiana. Ma Satta rende un servizio utile soprattutto a loro. Invece di creare nuove tracce, nuovi scenari, l'autore è andato a verificare la fondatezza documentale di quanto detto e scritto finora. Non tutti i dubbi sono stati cancellati, ma proprio questa sfoltitura potrebbe rilevarsi preziosa a quanti, 25 anni dopo, ancora cercano la verità "Odissea nel Caso Moro" sarà presentato giovedì 13 marzo, alle ore 17.00, presso l'Archivio di Stato in Corso Rinascimento a Roma. Caso Moro, a 25 anni da via Fani si infittiscono i misteri - Alla vigilia del venticinquesimo anniversario della strage di via Fani, impossibile una commemorazione "rituale" per un fatto che dovrebbe essere ormai storico. Sul rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e l'uccisione della sua scorta permangono troppi elementi che non tornano, troppi misteri insoluti, troppe domande aperte. Anzi, la trama, lungi dall'essere chiara, si infittisce. Dopo le rivelazioni pubblicate ieri da "Liberazione", "Famiglia cristiana" e Tg3 "Primo piano" su un documento di Gladio che parlava del rapimento 14 giorni prima che fosse avvenuto, "Avvenimenti" manda domani in edicola un articolo di Nicola Biondo, secondo cui una nuova indagine è in corso da parte della procura di Roma a carico di un cittadino francese di origine italiana, Innocente Salvoni legato al centro culturale Hyperion, crocevia di rapporti tra Br e servizi segreti dell'Est e dell'Ovest. Tra gli oggetti dell'indagine, secondo "Avvenimenti", le dichiarazioni del capitano Antonio La Bruna, ufficiale del Sid scomparso nel febbraio 2000, a proposito del covo di via Gradoli prima che questo fosse scoperto. Tra il marzo e l'aprile del '78, a sequestro in corso, un oscuro uomo d'affari legato a opere missionarie africane, Benito Puccinelli, segnalò a La Bruna «via Gradoli come la strada dove si trovava il covo dei massimi responsabili del sequestro, aggiungendo che questi si avvalevano di una potente antenna radio. «Tutte circostanze che si sono rivelate esatte», scrive "Avvenimenti"; «La Bruna passò l'informazione ad un ufficiale di polizia legato all'Ufficio Affari Riservati del Viminale, ma rimase priva di riscontri».
13 Marzo 2003:
Il sequestro Moro fu un incontro di convenienze&»
Guerzoni: «Le Br non sarebbero riuscite a fare tutto da sole, ma la politica
rinunciò a salvarlo»
L'uccisione e il sequestro di Aldo Moro furono un «incontro di convenienze, che assunse la forma dell'appalto». Corrado Guerzoni (che poi fu anche giornalista e vicedirettore generale della Rai) è stato per vent'anni (dal 1959 al 1978) il più stretto collaboratore dello statista democristiano rapito e ucciso dalle Brigate rosse nel 1978. E oggi, 25 anni dopo, racconta la sua verità. Spiegando come e perché, in quei tragici 55 giorni, furono in tanti a pensare che Moro rappresentasse più un problema che una risorsa. E in fondo a condannarlo a morte, sia pure in nome della ragion di Stato, prima ancora delle Br che, spiega Guerzoni, «non potevano, da sole, rapire Moro e gestire il sequestro per 55 giorni. Prova ne sia che dopo quei fatti caddero quasi avessero fatto qualcosa di più grande di loro». Cosa ricorda di quel 16 marzo 1978? «Più che un nome, un luogo, un volto, mi torna in mente una sensazione. Quella di essere rimasto senza un punto di riferimento. Rimasi disorientato per un evento tanto drammatico quanto imprevisto, anche se forse non imprevedibile. E con un grande complesso di colpa dovuto al fatto che non avevamo avuto la sensibilità, o più ancora la capacità, di capire che sarebbe potuto accadere».
Quel complesso di colpa che, in fondo, da 25 anni accompagna tutta l'Italia. Si fece davvero tutto il possibile per salvare Moro? «No. Anzi, il mondo politico (Camere, governo, la stessa Dc) rinunciò a priori alle sue prerogative, cioè a cercare una via d'uscita anche nella situazione più complessa e tragica. Ma in fondo nessuno aveva l'obbligo di fare qualcosa, visto che decisero di seguire la linea della fermezza. La cosa grave fu dire che non si sarebbe lasciato nulla di intentato, visto che non era vero. Come fu grave, nei confronti di Moro, mettere in dubbio la sua autenticità, la sua credibilità nelle lettere dalla prigionia. La Dc aveva le mani legate dall'alleanza con il Pci. Che prese per primo la radicale decisione di non fare nulla: salvare Moro avrebbe significato riconoscere la forza che l'aveva rapito, ma il Pci sapeva bene da dove nascevano certe spinte, e aveva bisogno di tagliare netto. Berlinguer andò a casa della signora Moro e glielo disse chiaro. Quando si decise di andare a Londra per coinvolgere Amnesty international, fu proprio il Pci a stoppare tutto: era un caso politico, dissero, e non quello di un prigioniero isolato come lo statuto dell'associazione prevedeva. Quando invece ci si rivolse all'avvocato ginevrino che già aveva fatto da intermediario con i terroristi che in Germania avevano sequestrato il presidente della confindustria tedesca, fu il ministro dell'Interno Cossiga a chiamare il suo omologo svizzero dicendogli che l'Italia avrebbe considerato in maniera molto negativa se questo avvocato si fosse mosso. Così, tutto quello che la Dc fece si risolse nel mettere una linea della Caritas per ricevere eventuali telefonate». E prima del sequestro? «Qui purtroppo ci si scontra con i limiti cronici del sistema informativo del Paese. Che era quello che era, e tale è rimasto, basta vedere i casi D'Antona e Biagi». A proposito di servizi segreti. Quale fu il ruolo della Cia nella vicenda Moro? «Le fu richiesto un aiuto e mandò un personaggio a Roma. Si disse per trattare. Questo personaggio definì un identikit del rapitore, si fermò un po', poi capì che non si voleva né trattare, né salvare Moro. E se ne tornò a casa. Anni dopo fu chiamato in Italia per testimoniare davanti alla Commissione stragi, e chiese che gli fossero corrisposte prima le spese. Segno che la volta precedente era stato "toccato" sotto questo aspetto. Il che la dice lunga sulla nobiltà degli ideali del personaggio, ma anche su come la cosa fosse stata gestita "all'Italiana". Ma il comportamento della Cia fu molto strano sotto un altro aspetto. Dichiarò che non poteva intervenire perché una norma del Congresso le consentiva l'intervento solo nel caso in cui fossero stato messo in pericolo l'interesse del popolo o dello Stato Usa. Ora, è curioso che in un'Italia in cui ogni soffio d'aria disturbava Washington (sempre attenta a evitare che l'Italia non si spostasse troppo perché c'erano i comunisti sulla porta) improvvisamente le Br, il rapimento di un ex presidente del Consiglio e in quel momento presidente del del partito di maggioranza relativa nel Paese non fossero motivo sufficiente per intervenire». La politica di solidarietà nazionale di Moro dava molto fastidio agli Usa. Ma non solo a loro. «E questo risponde a una delle domande più ricorrenti di questi 25 anni: perché Moro? È stato detto che per le Br rapire Moro, Fanfani o Andreotti sarebbe stata la stessa cosa. Invece no. Sarebbe stato ugualmente grave dal punto di vista umano, ma non da quello politico. Solo togliendo di mezzo Moro le cose sarebbero cambiate». Come in effetti cambiarono. E la linea politica della Dc riprese la direzione più gradita all'alleato Usa. Che, soprattutto attraverso Henry Kissinger, non aveva mai fatto mistero della sua avversione per Moro e la sua politica. «Lì c'era qualcosa di personale. È stato detto che fosse perché non tollerava la lungaggine di Moro, è stato detto che fosse perché una volta Moro, che aveva dovuto prendere dei medicinali perché in quell'occasione aveva problemi di salute, si era assopito durante un incontro con Kissinger. La realtà è che Kissinger, ogni volta che Moro prendeva la parola, dava segni di totale insofferenza. E c'è anche da aggiungere che non tutte le traduzioni di Moro erano innocentemente non idonee. Nel 1974, a New York, Kissinger minacciò apertamente Moro: se la situazione italiana dal punto di vista politico fosse continuata a essere quella che era, disse, l'Italia si sarebbe potuta scordare aiuti economici americani. E due anni dopo, al G7 di Portorico, anche il cancelliere tedesco Schmidt confermò quella posizione, e Moro fu messo nella condizione di dover capire che la sua presenza non era gradita. E restò solo ad aspettare la fine della riunione». Proprio da Kissinger arrivò la «bordata» dello scandalo Lockheed. Moro fu assolto dall'accusa di essere «Antelope Cobbler», ossia il destinatario italiano delle bustarelle Usa, 13 giorni prima di via Fani. «Dagli atti della Consulta risulta che Moro fu indicato come "Antelope Cobbler" dalle deposizioni di ambienti vicini a Kissinger. Anche se non c'era riscontro. Kissinger arrivò a dire: "Moro non è corrotto, ma tollera la corruzione perché questo gli consente di manovrare la Dc verso i suoi obiettivi"». Un altro punto particolarmente oscuro di quei 55 giorni fu l'inciso «senza condizioni» nella lettera scritta da Papa Paolo VI alle Br. Lei da 25 anni sostiene che fu fatta inserire dal governo. «Perché assistetti a una telefonata in cui così disse un alto esponente del Vaticano che cercava di convincere la signora Moro a partecipare ai funerali di Stato. Se le cose andarono così, chi lo fece si porta dietro un pesante carico umano: quello di aver strumentalizzato un Papa debole, malato (sarebbe morto pochi mesi dopo) e disperato per Moro, che era un suo vero amico». Venticinque anni dopo, cosa resta di Aldo Moro? «Resta soprattutto la sua straordinaria capacità di vedere oltre. Nel '68 si muoveva in continuazione per andare a vedere i fenomeni sociali che nascevano. Aveva capito che la Dc avrebbe avuto bisogno dell'inserimento di forze vitali, che però non andavano recepite acriticamente, ma mediate. Aveva questa capacità di antevedere, non come indovino, ma come scienziato della politica. Che non è un mestiere, ma un'arte».
14 marzo 2003
A più riprese si è parlato di infiltrati delle forze dell' ordine tra i terroristi, all' epoca del rapimento Moro, ma, come è forse giusto in casi delicati come questi, non si è riusciti a chiarire i dubbi. Non sembra comunque che, se c'erano, abbiano dato i risultati sperati, a meno di voler riprendere una tesi dell' ex presidente della commissione Stragi Pellegrino, quella del "doppio ostaggio" (Moro e le carte) e che il problema più urgente fosse quello di recuperare carte pericolose. Agli atti delle commissioni Moro e P2 c'è un appunto di Marcello Coppetti, ex giornalista dell' Ansa morto recentemente. Coppetti, esperto di servizi segreti, aveva scritto che, durante un incontro a villa Wanda, Licio Gelli disse a lui e a Umberto Nobili, ufficiale del Sios aeronautica, che "il caso Moro non è finito: Dalla Chiesa aveva un infiltrato, un carabiniere giovanissimo, nelle Brigate rosse. Così sapeva che le Br che avevano sequestrato Moro avevano anche materiale compromettente di Moro... Dalla Chiesa andò da Andreotti e gli disse che il materiale poteva essere recuperato se gli dava carta bianca. Siccome Andreotti temeva le carte di Moro (le valige scomparse ?) nominò Dalla Chiesa. Costui recuperò ciò che doveva. Così il memoriale Moro è incompleto. Anche quello in mano alla magistratura perché è segreto di Stato". Di Patrizio Peci, il primo importante terrorista pentito, si è spesso avanzato il sospetto che fosse un infiltrato fin dall' inizio della sua militanza, facendo leva sul fatto che Peci era stato in passato un sottufficiale dell' Arma dei carabinieri. L'ex questore Arrigo Molinari (il nome era nelle liste P2) ha detto in commissione stragi che a settembre 1978 la questura di Genova aveva inviato al ministro dell' Interno Rognoni un rapporto per segnalare elementi e riscontri che facevano ritenere Giovanni Senzani un infiltrato all' interno delle Br. Anche di uno degli uomini del commando di via Fani, Alessio Casimirri, l'unico mai catturato che ora gestisce un ristorante in Nicaragua, si è parlato come di un infiltrato. Nell'aprile 1998 un quotidiano riportò una dichiarazione attribuita al pm Antonio Marini, secondo cui, dopo un fermo casuale di Casimirri, il gen. Delfino si sarebbe reso conto che si trattava di un brigatista e "riuscì a sapere che stava organizzando non un comune sequestro ma il rapimento del presidente della Dc e allora lo passò al Sismi. Il Sismi gli avrebbe fatto fare l'operazione, lo avrebbe avuto come infiltrato, avrebbe saputo tutto quel che voleva sapere su via Fani e sulla prigione di Moro e poi lo avrebbe fatto fuggire all'estero". Nel 1979 Paolo Santini, informatore del colonnello dei carabinieri Cornacchia, infiltrato in uno dei gruppi minori con diretti contatti con le Br, operativo al tempo del sequestro Moro, sarebbe stato arrestato perché denunciato a sua volta da un altro infiltrato che lavorava per la Digos. Ma sospetti ci sono stati addirittura sul capo supremo delle Br del dopo-Curcio, Mario Moretti, che gli altri membri del Comitato esecutivo sottoposero, a sua insaputa, ad un' inchiesta interna. E lo stesso Moretti fu arrestato, anni dopo, grazie all' infiltrato Renato Longo. Ernesto Viglione, giornalista che abita in via Fani e che per questa vicenda sarà condannato a 3 anni e 6 mesi in primo grado e poi assolto in appello, dirà di essere entrato in contatto con il terrorista dissidente 'Francesco', che gli aveva proposto addirittura un'intervista con Moro nel 'carcere del popolo'. Era maggio e Moro fu ucciso prima che Viglione potesse verificare le proposte di 'Francesco', un uomo dal forte accento lucano o calabrese. Il contatto proseguì. 'Francesco' sosteneva che il rapimento Moro era stato organizzato da un gruppo guidato da alti prelati ed esponenti politici e in via Fani, mascherati da brigatisti, c'erano due sottufficiali e un ufficiale dei carabinieri. Nel vertice delle Br ci sarebbe stato anche un importante magistrato. La strage della scorta era avvenuta perché i "carabinieri" temevano che Leonardi li riconoscesse. Sempre secondo lui, i brigatisti non avevano intenzione di uccidere Moro, e il presidente della DC era stato vittima di una congiura che si sarebbe servita delle Br come copertura. Viglione informò Cervone, Piccoli e Scalfaro e ne parlo anche con i generali Ferrara e Dalla Chiesa. 'Francesco' promise anche di far catturare il vertice delle Br in una riunione a Salice Terme, ma anche di ciò non si fece nulla. Risultò poi che la fonte era Pasquale Frezza, uno strano personaggio con precedenti penali che riuscì ad ottenere anche una somma di denaro dall' on. Egidio Carenini (Dc) il cui nome era nelle liste P2. Sembra però che per un certo tempo Viglione abbia pensato che la sua fonte fosse Giustino De Vuono e che Frezza abbia sostenuto poi di aver accettato la parte per coprire l' identità del vero brigatista. Anche Pecorelli, su OP, scrisse di 'carabinieri' tra virgolette:"Moro, secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario? I 'carabinieri' (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciarlo andare via con la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, perché si voleva comunque l'anticomunista Moro morto e le Br avrebbero ucciso il presidente della Dc in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che un'operazione del genere comporta". Pecorelli scrisse anche che "I rapitori di Aldo Moro non hanno nulla a che spartire con le Brigate rosse comunemente note. Curcio e compagni non hanno nulla a che fare con il grande fatto politico-tecnicistico del sequestro Moro.....Curcio e Franceschini in questa fase debbono fornire a quelli che ritengono occasionali alleati una credibile copertura agli occhi delle masse italiane. In cambio otterranno trattamenti di favore. Quando la pacificazione nazionale sarà un fatto compiuto e una grande amnistia verrà a tutto lavare".
16 Marzo 2003
«C'è una responsabilità grave della magistratura romana che era competente sulla vicenda Moro: quella di non avere ritenuto necessario quasi nessun approfondimento su alcuni argomenti se non altro per dirci: "no, queste ipotesi, queste informazioni, non rispondono a verità" o "le cose non sono andate così". Invece i dubbi sono via via aumentati».
Giovanni Moro, il figlio dello statista democristiano rapito e ucciso 25 anni fa dalle Brigate Rosse, critica la magistratura romana: «Man mano che gli anni sono passati su questa vicenda - ha sottolineato - i dubbi sono aumentati invece che diminuire. Sono convinto che ci siano molte persone che di questa vicenda ne sanno più di quanto hanno detto fino a questo momento. Mentre posso capire che ci fosse questo ritegno e questo riserbo, per non usare termini meno nobili, cinque, dieci, quindici anni dopo gli eventi, sinceramente mi riesce un po' difficile pensare che questo stesso riserbo ci sia 25 anni dopo gli eventi. Credo che sarebbe saggio ed utile per il Paese, e lo dico più da cittadino che da vittima, che noi chiudessimo con serenità questo conto in sospeso con il passato, come ce ne sono altri in Italia, perché se non si chiudono questi conti è difficile che ce ne liberiamo; è difficile costruire il futuro senza aver chiuso i conti, non con la rimozione e con il silenzio, con un passato che può essere scomodo quando si voglia, ma che fa parte della nostra storia». Moro distingue poi diversi livelli della verità: «C'è una verità storica, una verità politica ed una giudiziaria. Ognuna di queste verità ha delle sue necessità, delle sue caratteristiche, dei suoi attori. La verità politica riguarda i comportamenti dello Stato e delle forze politiche; quella storica riguarda più il contesto, il sistema di "grandi cause" ed effetti cui è collegata questa vicenda così piccola, eppure importante nello scenario anche internazionale e nel lungo periodo in Italia, perché si può dire che nel '78 l'Italia ha fatto una svolta; la verità giudiziaria è legata al fatto che tante cose sono rimaste non chiarite, in primo luogo nei comportamenti dei terroristi». In una lettera indirizzata a Francesco Rutelli, nella quale ha spiegato, ieri, le ragioni della sua assenza alla cerimonia di commemorazioni per il 25° anniversario della morte di Aldo Moro, organizzata dall'Ulivo, Giovanni Moro si sofferma invece sull'atteggiamento del mondo politico: «Provo disagio per la mancanza di una seria riflessione del mondo politico su quei fatti. La classe politica italiana - afferma Giovanni Moro nella lettera letta da Rutelli dal palco - ha un conto aperto con Moro e fatica ad ammetterlo. Ha permesso che la vicenda del suo assassinio fosse usata come un campo di battaglia e l'Italia è ancora oggi inseguita da un fantasma ed anche per questo non riesce ad essere un Paese normale». Giovanni Moro denuncia quindi «il periodico riemergere di un estremismo politico in grado di lasciare la sua scia di sangue». E aggiunge: «Restano domande di grande importanza che attendono risposta. Ne cito alcune: perché fu rapito proprio Aldo Moro? E come mai, dopo il rapimento, un uomo che era il punto di equilibrio della Repubblica italiana subì un linciaggio, finendo per essere reietto da chi lo avrebbe eletto alla più alta carica dello stato? Perché si usarono due pesi e due misure nelle trattative in altri casi?».
(Vincenzo Tessandori - La Stampa)
- CONOSCERETE la verità, e la verità vi farà liberi», Giovanni, 8.32. Quelli della Cia ne hanno fatto il loro credo, adattandolo alle circostanze: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà incazzare». Ma anche le menzogne mandano fuori dai gangheri, e lo sanno bene loro, così attenti alle cose anche italiane. Per questo un quarto di secolo dopo, chissà chi fra coloro che han dovuto occuparsi dell´«affaire Moro» può dirsi libero. Troppi interrogativi ancora ostinatamente irrisolti dopo sei inchieste che non sono approdate almeno a quella che chiamano «verità processuale». Perché le Brigate rosse rapirono Aldo Moro? Per «colpire il cuore dello Stato», la spiegazione. E nel «comunicato numero 6» con cui informavano che «l´interrogatorio al prigioniero è terminato», promettevano: «Tutto sarà reso noto al popolo, le informazioni in nostro possesso verranno diffuse attraverso la stampa e i mezzi di divulgazione clandestini delle Organizzazioni Combattenti, e soprattutto verranno utilizzate per proseguire con altre battaglie il processo al regime e allo Stato». Fatto è che non rendono pubblico un solo documento, così evapora l´idea stessa di un grande progetto politico e il procuratore Gian Carlo Caselli parla ora del «clamoroso fallimento "politico" dell´operazione Moro». Ancora: perché assassinare il prigioniero quando dalle sue lettere appariva fin troppo chiaro che la liberazione avrebbe rappresentato un rischio politico enorme? Ecco, le lettere del prigioniero, il nocciolo di un dramma non solo personale. Eppoi il «Memoriale» che si trascina dietro un cono d´ombra ancor oggi intatto. Lo trovano i carabinieri, nel `78, a Milano, in in covo in via Monte Nevoso: è un´edizione incompleta. Dodici anni più tardi, da un pannello di quell´appartamento, saltano fuori 300 pagine, consegnate in fotocopia al generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Sapremo mai come andò? Il dubbio e il sospetto scandiscono il tempo, nel sequestro Moro. L´appartamento di via Gradoli. Lo usano Mario Moretti e Barbara Balzerani: viene scoperto per una perdita d´acqua della doccia il giorno dopo che se ne sono andati. Il «comunicato numero 7» del 18 aprile: informa che il corpo è nel lago della Duchessa, quota 1800 sulle montagne del Reatino. Falso, diffuso in fotocopia, ha tuttavia l´effetto di un´atomica. Lo hanno mandato le Br o i servizi? E in questo caso i nostri, magari deviati, forse legati a Gladio, o quelli degli altri? La «prigione del popolo». Le bierre sostengono che sia sempre stata in via Montalcini. Nessuna certezza, naturalmente. Per decidere la morte del prigioniero, dove si riunirono i capi delle Brigate rosse? In quell´appartamento di via Barbieri Firenze, come sospetta Giovanni Pellegrino, già presidente della commissione stragi? E quale fu la parte del celebre musicista Igor Markevic? Ancora, perché lasciare il corpo del presidente della Democrazia cristiana in via Caetani? È credibile perché, come dicono le Br, si trova a metà fra la sede della Dc e quella del Pci, quindi, un simbolo? E quel documento su carta del ministero datato 2 marzo `78 col quale si autorizza la ricerca di «collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell´on. Aldo Moro da parte di gruppi mediorientali» è vero o falso? E come dev´esser letto? Troppi misteri per credere alla promessa: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi».
(ANSA)
- Patrizio Peci, il primo grande pentito delle Br, arrestato il 19 febbraio 1980 a Torino, aveva nella sua disponibilità alcuni scritti autografi di Aldo Moro provenienti dalla "prigione del popolo" e almeno uno dei dossier che il presidente della Dc portava nella borsa la mattina del rapimento, il 16 marzo 1978, in via Fani, a Roma. Questa apparente e incredibile novità è tuttavia riportata nella prima sentenza del processo Moro e non è mai stata evidenziata nei molti saggi e nelle ricostruzioni della vicenda essendo pacifico che le carte di Moro erano state trovate dagli uomini di Dalla Chiesa solo nella base di Milano, di via Monte Nevoso, solo nell'ottobre 1978, dopo il blitz che portò all'arresto di diversi brigatisti e dietro un pannello dello stesso covo, dopo un ritrovamento del tutto accidentale, nel 1990. Il superpentito, che oggi si è ricostruito una vita e dovrebbe vivere in una regione del nord grazie ad una attività commerciale, è stato il primo a parlare di Firenze come luogo da cui si "dirigeva" il sequestro del presidente della Dc dato che il comitato esecutivo delle Br, rivelò per primo, si riuniva "in una villa appena fuori Firenze". Nell'aprile del 1980 i giornali, citando fonti ufficiali, attribuivano a Peci dichiarazioni sull' esistenza di un vertice occulto delle Br, composto di pochi uomini, uno-due, che guidavano le campagne della stella a cinque punte. Unico tramite tra la strutture militare e quella pensante era Mario Moretti. Nella prima sentenza vi è un diretto riferimento riguardante non meglio precisate carte scritte da Moro e dossier provenienti dalla borsa, la stessa che il presidente della Dc chiedeva, in una lettera mai arrivata ai destinatari perché occultata dietro il pannello mobile della base di Via Monte Nevoso, se fosse stata recuperata. La stessa borsa dalla quale - è stato ricordato da molti testimoni della vicenda - il presidente della Dc non si separava mai. A pagina 350 della prima sentenza Moro, dopo avere descritto tutta la carriera di Peci nelle Br, la sua attività e le modalità del suo pentimento si scrive: "Al termine della intera 'operazionÈ in possesso dei brigatisti di Torino erano rimasti alcuni documenti scritti nel periodo del sequestro dall' onorevole Moro, nonché MATERIALE RINVENUTO NELLE BORSE TRAFUGATE IN VIA FANI, TRA CUI UN PROGRAMMA SULL' ORDINE PUBBLICO E SUL COORDINAMENTO TRA POLIZIA CARABINIERI, custodito in copia probabilmente da Di Carlo Salvatore nell' appartamento di Via Sansovino 25, dove lo stesso Peci aveva trovato ospitalità allorché era stato costretto ad abbandonare l'alloggio di corso Lecce e quello di Michelino. Nel volume autobiografico "Io, l' infame", Peci afferma di avere avuto delle carte di Moro ma sostiene di averle bruciate trattenendo un solo documento. "A noi della colonna di Torino - scrive nel volume edito anni fa da Mondadori - furono dati da conservare alcuni documenti di Moro, perché avevamo una base sicura a Biella. C'era un programma sull'ordine pubblico e sull'ordinamento carabinieri-pubblica sicurezza che conservammo. Bruciammo invece alcune pagine autobiografiche scritte da Moro durante la prigionia, perché non avevamo alcuna importanza politica; una specie di testamento al quale regalava alcuni piccoli oggetti: una penna da regalare alla nipotina, eccetera. Ripensandoci fu brutto bruciarli. Avremmo potuto essere meno brutali e mandarli alla famiglia". Il 22 maggio del 2000 il colonnello Umberto Bonaventura (deceduto pochi mesi fa), collaboratore del gen. Dalla Chiesa, rivelò durante una audizione davanti la commissione stragi, confermando i molti dubbi che erano stati sollevati sulla questione, che i documenti di Moro rinvenuti nella base delle Br di via Monte Nevoso nel 1978 furono portati fuori dal covo prima che li vedesse il magistrato, Ferdinando Pomarici. Furono copiati e inviati a dalla Chiesa e poi riportati nell' appartamento. Dopodiché venne redatto il verbale. Questa novità nella dinamica della gestione delle carte ritrovate innescò una dura polemica. Pomarici disse che nessuno avrebbe avuto interesse a "manipolare la documentazione Moro perché trattandosi di copie l'originale sarebbe potuta saltare fuori e c'erano altre copie in possesso delle colonne Br di Roma, Napoli e Torino". L'allora presidente della commissione parlamentare d'inchiesta per le Stragi e il Terrorismo, Giovanni Pellegrino, smentì però che vi fossero altre copie delle carte di Moro trovate in possesso di altre colonne Br. Vi fu anche un riscontro documentale che si giovò del parere della Procura di Roma. "Agli atti - disse - non è mai risultato un ritrovamento di questo genere". Nessuno ha mai chiarito fino in fondo quali siano i documenti di Moro che Peci portò "in dote" al momento del suo arresto o che vennero ritrovati grazie alle sue rivelazioni che falcidiarono, in tutta Italia, il gruppo terroristico nella primavera del 1980.
Il 9 maggio 1978, Fulvio Martini, che era il dirigente dell' ufficio RS che curava i rapporti internazionali, di fatto il numero 2 del servizio segreto militare italiano, si alzò molto presto. Alle 4 di mattina, partì da solo, non armato, con la propria macchina da Venezia: destinazione la Jugoslavia. A cavallo fra aprile e maggio era maturata, anche su sollecitazione iniziale della famiglia Moro, la 'pista jugoslava che aveva il suo cardine nel maresciallo Tito e sulla sua possibilità di essere "cerniera" tra Est ed Ovest (oltre che punto di passaggio di molti gruppi terroristici all'epoca) e di cui parlano ampiamente la relazione finale della commissione Moro, Giulio Andreotti e la stessa famiglia Moro. Martini aveva buoni rapporti con il capo dei servizi segreti dell'epoca Janash. "Aveva più volte cercato di accopparmi. - ha raccontato Martini diversi mesi prima di morire - Dopo la caduta del muro l'ho più volte aiutato perchÈ rischiava di morire di fame". "Alle 12 - ha rivelato l'ammiraglio rispondendo ad una richiesta di notizie per un libro sulla vicenda Moro - qualcuno mi fermò dietro un muro: era un uomo del servizio segreto militare. Il mio compito, quel giorno, era andare a prelevare i 3 della Raf che erano in mano a Tito, due uomini e una donna. Uomini della Raf che dissero di aver avuto rapporti con le Br a Milano. Mi portarono a Porto Rose e cominciammo a discutere. Gli jugoslavi avevano ipotizzato di scambiarli con i tedeschi chiedendo in cambio dei terroristi ustascia che erano stati arrestati a Bonn dopo un omicidio. Alle 16 arrivò la notizia del ritrovamento del cadavere di Moro, proprio mentre stavamo per discutere della situazione e delle notizie che avevamo raccolto. Chiamo subito Roma e mi dicono di rientrare immediatamente". Questo racconto Martini lo ha ripetuto, successivamente, all'ex deputato di Forza Italia Umberto Giovine. La rivelazione sulla missione jugoslava da parte dell'ex direttore del Sismi era nata anche da una osservazione fatta a proposito di un indecifrabile messaggio audio che si inserì, sulle onde della rete2 della Radio diretta da Corrado Guerzoni (capo di gabinetto di Moro quando questi era presidente del Consiglio e collaboratore della famiglia durante i 55 giorni). Il 24 aprile 1978, alle 18,35, i radioascoltatori sentirono distintamente questa frase:"Il conte si sta dirigendo in Jugoslavia: la famiglia prenda contatto". Una vicenda, quella della pista jugoslava e dei terroristi della Raf in mano a Tito, mai chiarita completamente e che È ai margini della ricostruzione ufficiale del caso Moro anche se i riferimenti,come detto, non mancano. Il 6 maggio 1978 fonti diplomatiche jugoslave rivelano che sono state arrestate ed espulse dalla Jugoslavia 3 tedesche che hanno gli stessi cognomi della banda Baader-Meinhof. Le donne hanno dato le generalità di Baader, Ensslin e Meinhof, morti suicidi nel carcere di Stammheim. Il 29 maggio la Germania chiede l'estradizione per 4 terroristi che sono Brigitte Mohnhaupt, Rolf Clemens Wagner, Peter Boock e Sieglinde Hoffmann che secondo i tedeschi sono stati arrestati il 20 di maggio in Jugoslavia. I 4 rappresentano di fatto lo stato maggiore del gruppo terroristico tedesco, legato a Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, 'lo Sciacallo', il terrorista internazionale oggi in prigione a Parigi. Il 30 maggio Belgrado conferma l'arresto dei terroristi tedeschi che erano in Jugoslavia - si sostiene - per organizzare un congresso della Raf. Il governo jugoslavo È disposto ad estradare i 4 terroristi e chiede sua volta l'estradizione dalla Repubblica Federale Tedesca di 8 ustascia. Il 17 novembre 1978 la Jugoslavia rimette i 4 terroristi in libertà e li espelle dal suo territorio. È forte l'irritazione a Bonn. Il 20 dicembre 1978 il ministro degli interni di Bonn afferma che i 4 terroristi della Raf non si trovano in Libia e che la Mohnhaupt È sospettata di essere implicata nel rapimento di Aldo Moro. Il 2 settembre 1979 fonti vicine ai servizi di sicurezza tedeschi apprendono che i 4 si troverebbero a Baghdad in residenza sorvegliata. Fin qui la storia di una "missione impossibile" da parte di uno dei più rispettati agenti segreti italiani ( "Umberto Federico D'Amato È stato il più grande poliziotto di sicurezza, io il più grande spione"), resa tale soprattutto dal ritrovamento della R4 rossa trovata in via Caetani con il cadavere di Aldo Moro proprio mentre Martini sta trattando con gli jugoslavi. Un riferimento importante per contestualizzare e probabilmente "leggere" la vicenda lo ha dato proprio Carlos nel marzo 2000 quando intervistato da "Il Messaggero" disse:"C'erano patrioti anti-Nato, inclusi alcuni generali, che erano partiti per aspettare il rilascio dei prigionieri e per salvare la vita a Moro e l' indipendenza dell' Italia. Invece questi patrioti, inclusi alcuni generali, sono stati dimessi e costretti ad andare in pensione".(Martini in agosto abbandonò il servizio e i giornali parlarono apertamente di "epurazioni nei servizi segreti", ndr). Afferma ancora Carlos in quella intervista: "a Milano avvenne questo fatto. Che rivoluzionari stranieri mentre stavano recandosi ad una riunione decisiva, per stabilire un contatto con un rappresentante dello stato, sono sfuggiti per un soffio all'arresto della polizia. Gli agenti stavano cercando di intercettare i loro principali ospiti stranieri di cui possedevano, nelle loro mani, foto e dettagli sulla loro identità". A conferma di questa sua 'lettura' della trattativa, Carlos fa una rivelazione, forse importante: "All' aeroporto di Beirut un jet Executive dei servizi segreti italiani rimase in attesa a lungo aspettando un contatto con le Br attraverso gente estranea alla resistenza palestinese. Non c'erano uomini di Al Fatah". Sui giornali stranieri, dopo il blitz del generale Dalla Chiesa a via Monte Nevoso, nell'ottobre del 1978, si tornò a parlare della pista tedesca e di una nota riservatissima dei servizi di sicurezza jugoslavi. In particolare i terroristi della Raf avrebbero confessato di aver partecipato, a Milano, ad una riunione clandestina con "responsabili" delle Br. Tema dell'incontro: come chiudere il caso Moro, uccidere l'ostaggio o rilasciarlo dopo averlo processato. A chi l'interrogava la donna della Raf in mano agli jugoslavi avrebbe raccontato che la discussione sul "che fare di Moro" prese una drammatica piega perché all' interno della "direzione strategica" dopo un acceso dibattito prevalse la tesi che la "condanna a morte del prigioniero " andava eseguita. Ma nessuno, oltre Martini, a detto mai nulla sulla missione del 'marinaio" quel 9 di maggio del 1978.
ÔÔÔori con diretti contatti con le Br, operativo al tempo del sequestro Moro, sarebbe stato arrestato perchÈ denunciato a sua volta da un altro infiltrato che lavorava per la Digos. Ma sospetti ci sono stati addirittura sul capo supremo delle Br del dopo-Curcio, Mario Moretti, che gli altri membri del Comitato esecutivo sottoposero, a sua insaputa, ad un' inchiesta interna. E lo stesso Moretti fu arrestato, anni dopo, grazie all' infiltrato Renato Longo. Ernesto Viglione, giornalista che abita in via Fani e che per questa vicenda sara' condannato a 3 anni e 6 mesi in primo grado e poi assolto in appello, dira' di essere entrato in contatto con il terrorista dissidente 'Francesco', che gli aveva proposto addirittura un'intervista con Moro nel 'carcere del popolo'. Era maggio e Moro fu ucciso prima che Viglione potesse verificare le proposte di 'Francesco', un uomo dal forte accento lucano o calabrese. Il contatto prosegui'. 'Francesco' sosteneva che il rapimento Moro era stato organizzato da un gruppo guidato da alti prelati ed esponenti politici e in via Fani, mascherati da brigatisti, c'erano due sottufficiali e un ufficiale dei carabinieri. Nel vertice delle Br ci sarebbe stato anche un importante magistrato. La strage della scorta era avvenuta perchÈ i "carabinieri" temevano che Leonardi li riconoscesse. Sempre secondo lui, i brigatisti non avevano intenzione di uccidere Moro, e il presidente della DC era stato vittima di una congiura che si sarebbe servita delle Br come copertura. Viglione informo' Cervone, Piccoli e Scalfaro e ne parlo anche con i generali Ferrara e Dalla Chiesa. 'Francesco' promise anche di far catturare il vertice delle Br in una riunione a Salice Terme, ma anche di cio' non si fece nulla. Risulto' poi che la fonte era Pasquale Frezza, uno strano personaggio con precedenti penali che riusci' ad ottenere anche una somma di denaro dall' on. Egidio Carenini (Dc) il cui nome era nelle liste P2. Sembra pero' che per un certo tempo Viglione abbia pensato che la sua fonte fosse Giustino De Vuono e che Frezza abbia sostenuto poi di aver accettato la parte per coprire l' identita' del vero brigatista. Anche Pecorelli, su OP, scrisse di 'carabinieri' tra virgolette:"Moro, secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario? I 'carabinieri' (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciarlo andare via con la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, perchÈ si voleva comunque l'anticomunista Moro morto e le Br avrebbero ucciso il presidente della Dc in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che un'operazione del genere comporta". Pecorelli scrisse anche che "I rapitori di Aldo Moro non hanno nulla a che spartire con le Brigate rosse comunemente note. Curcio e compagni non hanno nulla a che fare con il grande fatto politico-tecnicistico del sequestro Moro.....Curcio e Franceschini in questa fase debbono fornire a quelli che ritengono occasionali alleati una credibile copertura agli occhi delle masse italiane. In cambio otterranno trattamenti di favore. Quando la pacificazione nazionale sara' un fatto compiuto e una grande amnistia verra' a tutto lavare".
18 Marzo 2003- intervista
Parla il senatore leccese che guidò la Commissione Stragi: «Le Brigate Rosse hanno mentito»
Pellegrino: ancora non conosciamo la verità sugli ultimi giorni di Moro
Ci sono ancora punti oscuri nel caso Moro? «Le Br hanno mentito e ancora non conosciamo la verità sugli ultimi giorni del presidente della Dc nella prigione del popolo». Il senatore Pellegrino, leccese, dei Ds, per sette alla guida della commissione Stragi, è convinto che «ci fu un patto di silenzio delle Brigate Rosse con qualcuno, o parte della società civile, o del potere politico o degli apparati. Nella ricostruzione giudiziaria della vicenda, che si basa sulle dichiarazioni dei terroristi, ci sono una serie di contraddizioni». Ma perché i brigatisti non avrebbero detto tutta la verità? «Perchè in parte vogliono coprire qualche altro compagno che non è stato individuato ma più probabilmente non vogliono parlare dell'area della contiguità che resta un campo inesplorato. Non hanno mai voluto riferire di una serie di trattative che ci sono state per salvare Moro e che sicuramente hanno attraversato l'area del fiancheggiamento delle Br. Moretti, Maccari, Gallinari e la Braghetti hanno detto che a Moro fu annunciata l'esecuzione. Questa è una menzogna perchè ci sono autografi del presidente, la lettera alla moglie del 5 maggio, un bigliettino senza data e infine la telefonata al professor Tritto del 9 maggio in cui si capisce che il presidente aveva dato istruzioni su come la famiglia dovesse essere avvertita. Non solo nessuno in questi giorni ha ricordato un altro fatto inspiegabile». Quale? «C'è un documento di Moro, che a torto viene considerato l'ultima parte del memoriale, dove ringrazia le Br di averlo liberato». Ma non è venuto fuori? «No, è uno dei fatti più importanti perchè queste due pagine sembrano scritte in un momento in cui la trattattiva sembra essere andata in porto, Moro non è più prigioniero delle Br ma è in mano a qualcuno altro. Da tutto questo nasce la mia convinzione che Moro non è morto in via Montalcini e che le Br mentiscono sugli ultimi giorni 5- 6 giorni. L'ordine di ammazzarlo partì da Firenze il 3-4 maggio, fu ucciso il 9 maggio. Che cosa è successo in quei cinque giorni? Secondo lei, l'assassinio è solo opera delle Br o c'è anche qualche forza convergente? «Una convergenza ci può essere stata nel fare fallire la trattattiva. Ma non nel dare il mandato del rapimento. Non ho trovato nulla che mi possa autorizzare a dire che il sequestro è stato effettuato su mandato occidentale o orientale. Mentre ci sono una serie di segni per cui, a trattativa quasi conclusa, avviene qualcosa che non la fa funzionare. Aggiungo che l'interesse degli apparati di sicurezza da un certo momento puntava, oltre che alla sorte di Moro, soprattutto sul tentativo di capire cosa aveva raccontato alle Br» Chi aveva interesse ad uccidere Moro? «Le Br avevano un loro interesse. Moro era il vertice della Dc, il partito in cui individuavano il potere italiano. Ma era l'uomo che aveva spinto il Pci a quella posizione che per le Br era un tradimento della classe operaia. C'è da dire anche che la figura di Moro era letale per l'equilibrio di Yalta, cioè non piaceva né agli uni, né agli altri». Moro è stato lasciato solo durante i 55 giorni ed anche dopo? Lei cosa ne pensa? «Uno Stato forte avrebbe avuto la capacità di trattare ma la situazione di allora era tale che la Dc ed il Pci erano inchiodati alla linea della fermezza. La maggior parte della Dc si rendeva conto che non c'era uno spazio politico per trattare e, nello stesso tempo, il Pci sapeva benissino che le Br avevano lo stesso album di famiglia, e quindi non poteva non assumere quella posizione. Detto ciò, i modi per liberare un ostaggio sono tantissimi, c'è stata una attività sotterranea che ad un certo punto si è fermata. Bene, ci possono essere state convergenze di diverso tipo e forse anche di tipo opposto». E dopo? «C'è un problema che lentamente sta affiorando e che non è stato mai esplorato. In realtà si è voluto tentare di mantenere nascosto quanto le Br fossero inserite nella società italiana. Maccari disse in commissione Stragi: "resterete meravigliati come l'alta borgesia faceva a gara ad avere a cena il capo guerrigliero". Secondo me la rimozione è quella, c'è un sacco di gente che magari ha posti importanti nella nostra società ed ha un passato personale che vuole dimenticare, per una sorta di senso di colpa, o di comprensibile difesa». Castagnetti ha proposto di riaprire la commissione Stragi. Sarebbe utile? «Meglio estendere le competenze dell'Antimafia ai problemi del terrorismo. Manca un luogo in Parlamento che possa monitorare il fenomeno del terrorismo».