Novembre 2002
1 Novembre 2002: (La Stampa) - Sagome, ombre, una immagine sfocata.
A più di tre anni dal riaffacciarsi sinistro del terrorismo, delle nuove Brigate Rosse, con l'omicidio del professore Massimo D'Antona (Roma, 20 maggio 1999), e nonostante che per quell'assassinio come pure per la morte del professore Marco Biagi (Bologna, 19 marzo 2002) ancora nessun terrorista sia stato arrestato, le indagini della polizia (e dei carabinieri) iniziano a consegnarci la fotografia di gruppo dei nuovi terroristi. L'inchiesta della Digos, che ha portato ieri a sei ordinanze di custodia cautelare, sembra decisamente puntare verso i vecchi Nuclei comunisti combattenti, Ncc, attivi agli inizi degli anni '90 a Roma e in Veneto, e che dall'omicidio D'Antona in poi avrebbero assunto la denominazione delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente. Naturalmente, l'ipotesi degli investigatori è che gli Ncc rappresentino «il nocciolo» iniziale delle nuove Br e che intorno a loro si siano aggregate altre forze. Più che per la contestazione del reato di banda armata e di associazione sovversiva ai quattro «irriducibili» detenuti nel carcere di Trani - importante perché conferma almeno un dialogo tra una parte del circuito carcerario e gli esterni - l'ipotesi degli investigatori trova un primo punto fermo di verifica nell'individuazione di due ex sospettati di appartenenza agli Ncc, Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi, come attuali componenti delle nuove Brigate Rosse. A loro, secondo quanto trapela dall'inchiesta della procura romana, gli investigatori sono arrivati attraverso una «logica deduttiva supportata da un contesto indiziario». Gli archivi dei Tribunali e degli investigatori sono abbastanza scarni sugli Ncc. Che si affacciano sulla scena il 18 ottobre del 1992, quando rivendicano un (fallito) attentato alla Confindustria di Roma. Nei giorni seguenti volantini e striscioni vengono ritrovati nei pressi di una stazione della metropolitana e lungo l'autostrada Roma-Fiumicino. Anche a Padova viene fatto trovare un loro striscione mentre telefonate di minacce contro dirigenti della Zanussi arrivano a Treviso. Gli Ncc vanno in «letargo» per due anni: il 10 gennaio del 1994, un ordigno esplode alla «Nato Defence College», a Roma. Dopo le rivendicazioni telefoniche viene fatto trovare un documento di otto pagine: «All'interno dell'attuale fase di Ritirata Strategica che connota la situazione delle forze rivoluzionarie nello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, gli Ncc collocano la propria offensiva antimperialista nel quadro della complessa ripresa dell'iniziativa rivoluzionaria e del più generale processo di ricostruzione delle forze». Il richiamo alla «Ritirata Strategica» (proclamata il 19 marzo del 1982 dalle Brigate Rosse) pone gli Ncc in continuità con quell'esperienza. Il documento contiene anche un altro importante riferimento: la rivendicazione - nell'ambito «del processo di ripresa dell'iniziativa rivoluzionaria e di ricostruzione delle forze» - di un precedente attentato, avvenuto il 3 settembre 1993, contro la base Usa di Aviano . Il 5 aprile del 1994, la polizia arresta un giovane, Anubi D'Avossa accusandolo di essere stato il telefonista che rivendicò l'attentato del 1992 alla sede della Confindustria. D'Avossa è stato poi assolto al processo e oggi è il portavoce dei Disobbedienti romani. Sempre a Roma, nel corso di un controllo della polizia, vengono fermati, il 13 febbraio del 1995, un pisano e un fiorentino: Luigi Fuccini e Fabio Matteini. I due si dichiarano «prigionieri politici» e «militanti dei Nuclei Comunisti Combattenti». A casa di Fuccini viene sequestrato il volantino degli Ncc che smentisce la responsabilità dell'organizzazione nell'attentato del 14 agosto 1994 a Firenze. E la polizia in un'auto (rubata) utilizzata dai due sequestra quattro pistole. Desdemona Lioce, 43 anni, ritenuta dalla Digos di Roma appartenente alle nuove Brigate Rosse, è stata la compagna di Fuccini. Pur non avendo pendenze giudiziarie, la donna si è resa irreperibile dal 1995, quando fu sospettata di trovarsi a Roma per partecipare con Fuccini e Matteini ad una rapina di autofinanziamento o ad un'azione degli Ncc. Nell'ordinanza del maggio del 2000 di arresto del presunto telefonista delle Br che rivendicò l'omicidio D'Antona, Alessandro Geri (il gip di Roma ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura), il gip Lupacchini si è spinto a ipotizzare che il nucleo «intorno al quale è venuta a formarsi la nuova struttura terroristica delle Br», vedrebbe, tra gli altri, sarebbe costituito, tra gli altri, da Nadia Desdemona Lioce, Carla Vendetti, Simonetta Giorgieri, queste ultime due vecchie brigatiste rifugiate e irreperibili all'estero, in Francia. L'altro personaggio, latitante, sospettato di essere militante delle nuove Brigate Rosse è il romano Mario Galesi, 36 anni. Aveva vent'anni quando fu arrestato nel luglio del 1986, con un gruppo di autonomi, tra cui Jerome Cruciani, mentre, di notte, cercava di entrare allo stadio Flaminio. Nelle abitazioni del gruppetto, di Roberto Zarra, furono trovate armi, documenti, schedari. Galesi e Cruciani tornano sulla scena nel '97, per una rapina da 120 milioni di lire nell'ufficio postale di via Radicofani, a Roma. Nel 1998, Galesi, pur dovendo scontare solo un residuo di pena, si dà latitante.
4 Novembre 2002
BUENOS AIRES - La polizia argentina ha arrestato ieri a Buenos Aires Leonardo Bertulazzi: è un brigatista della prima generazione, faceva parte della colonna genovese 28 marzo delle Brigate rosse ed è responsabile del sequestro dell'armatore Costa. Processato più volte, è stato condannato nell'87, con un cumulo di pene, a 27 anni di reclusione per associazione sovversiva e banda armata. Irreperibile Bertulazzi da circa 20 anni si era rifugiato in Salvador e da un mese si trovava in Argentina. Il brigatista è stato arrestato dalla polizia italiana e da quella argentina, coordinate dall'Ucigos, l'Interpool e la questura di Genova. L'arresto è avvenuto in un garage del quartiere di Constitucion, dove il brigatista aveva lasciato la sua moto Honda 850, con targa del San Salvador, il paese centroamericano dal quale apparentemente proveniva. Secondo fonti della polizia, il detenuto è entrato in Argentina lo scorso maggio passando dalla frontiera con il Cile (dopo essere passato anche dalla Colombia e dalla Bolivia) e, dopo avere trascorso un certo tempo viaggiando nella regione della Terra del Fuoco, nell'estremo sud del paese, attraversando la Patagonia, ha raggiunto Buenos Aires. Con lui, secondo fonti dell'Interpol si trovava «una dottoressa tedesca», che però non avrebbe nulla a che fare con i suoi trascorsi brigatisti. Bertulazzi non era armato e non ha opposto resistenza. L'uomo è stato messo a disposizione del giudice federale Claudio Bonadio, che già da tempo seguiva il caso, e recluso nell'unità carceraria della Polizia federale.
12 Novembre 2002
Il suo nome in codice era "Doctor Franz". Faceva parte di quell'armata delle ombre che, fino al 1986, ha combattuto una guerra mai dichiarata contro gli eserciti invisibili dei paesi del blocco comunista. "Doctor Franz" era infatti uno degli agenti della Gladio che operavano all'estero. Niente a che vedere con la struttura occulta rivelata da Giulio Andreotti nell'estate del 1990. Se infatti si vanno a controllare i 622 nomi di quell'organizzazione creata all'interno del servizio segreto militare, non si troverà il nome del "Doctor Franz". Come non si troveranno i nomi di Antonino Arconte, di Gaetano Giacomina, di Mario Ferraro e di Stefano Giovannone. Il primo a rompere il muro del silenzio è stato, qualche anno fa, Antonino Arconte, nome in codice G.71. È stato lui, infatti, a raccontare in un sito internet la sua vita di 007 e le sue operazioni segrete in mezzo mondo. Perché questa scelta? Perché voler riemergere dall'oblio del passato per svelare l'esistenza di un gruppo di supergenti, perfettamente addestrati, che operavano fuori dai confini nazionali? "Semplice - ha spiegato Arconte -. Perché nel 1986 siamo stati cancellati, abbandonati al nostro destino. E alcuni di noi sono morti in condizioni molto sospette. Ecco, allora l'unica scelta possibile era quella di parlare, di raccontare. Sono convinto che solo così possiamo avere una speranza di cavarcela". Arconte ha poi raccontato la sua storia ad alcuni giornalisti, facendo emergere verità scomode. Come quella di una sua missione a Beirut, nel marzo del 1978. G.71 era stato incaricato di consegnare a un altro gladiatore (il colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato morto nella sua abitazione romana nel luglio del 1995) un documento "a distruzione immediata", nel quale il vertice di Gladio attivava i suoi uomini in Medio Oriente, per aprire canali con ambienti del terrorismo islamico. Lo scopo era quello di trovare un contatto con le Brigate Rosse e favorire così la liberazione del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro. Un fatto inquietante, perché l'ordine è datato 2 marzo e Moro verrà rapito in via Fani due settimane dopo. Qualcuno, quindi, all'interno dei servizi segreti militari, sapeva che lo statista dc stava per essere sequestrato. Franz, che era stato reclutato dal capitano Antonio Labruna, venne spedito in Cecoslovacchia. Faceva il dentista come copertura e passava informazioni riservate alla struttura da oltre la cortina di ferro. Una delle fonti d'informazione più preziose era per lui una ragazza, figlia di un colonnello della Stasi, il servizio segreto della Ddr, diretto dall'abilissimo Markus Wolff. Uno dei compiti più delicati, e più rischiosi, del "Doctor Franz" era quello di spiare i movimenti dei brigatisti rossi che andavano in Cecoslovacchia per addestrarsi. "Io li seguivo oltre i confini ceki - raccontò nel marzo dello scorso anno il gladiatore al nostro giornale -, cioè in quella che era la mia zona di operazioni. Sono così arrivato fino ai cancelli e alle reti di recinzione dei campi d'addestramento, che nei cartelli venivano indicati come centri termali. Solo che là non c'erano turisti, ma terroristi che arrivavano da mezzo mondo: tedeschi della Raf, italiani delle Br, libici e palestinesi. La regia, manco a dirlo, era tutta del Kgb sovietico". Franz racconta che tutto cominciò nel 1974, con l'arresto del brigatista Alberto Franceschini. "Si scoprì infatti - disse l'ex gladiatore - che sul suo passaporto c'era il visto d'ingresso in Cecoslovacchia. Il Sid si mise in movimento e venimmo mobilitati noi di Gladio. Trovammo presto la conferma ai nostri sospetti e riuscimmo a documentare l'addestramento dei brigatisti nei campi di Karlovy Vary e di Brno. Anche se oggi, stranamente, non si trova traccia del nostro lavoro". Contrariamente ad Arconte, Franz ha accettato di parlare e farsi intervistare, ma non ha mai voluto rivelare il proprio nome. "Uno dei motivi per i quali preferisco mantenere l'anonimato - ci disse - è che le Br esistono ancora. Per me non sono mai morte. Temo quindi ritorsioni. Non ho paura per me, ma per la mia famiglia, che con tutte queste storie non c'entra niente". "Quando nel 1986 cancellarono la nostra struttura - ci raccontò ancora lo 007 - Labruna mi disse: "Sparisci, Franz, dimenticati di tutto quello che sai e di tutto quello che è successo. Pensa solo a te stesso e salvati"". E così fece. "Doctor Franz" tornò a essere un uomo normale, un dentista rispettato e stimato. Si mosse solo per aiutare i suoi amici, andando a trovare Craxi nel 1997, nel suo rifugio di Hammamet, in Tunisia. Discretamente. Raccontò all'ex leader socialista che Gladio era stata cancellata e che gli ultimi agenti si trovavano in grave difficoltà. Craxi li invitò a mantenere il segreto, ma promise che avrebbe svelato lui stesso l'esistenza della struttura, quando i tempi sarebbero stati maturi. Morì prima. Nei giorni scorsi, il "Doctor Franz" è uscito ancora una volta dall'ombra per rilasciare alcune dichiarazioni esplosive a Marco Gregoretti, un inviato del mensile GQ. L'ex gladiatore ha confermato che le Br non sono mai morte. Di più: ha detto anche di sapere qualcosa sulla morte del tecnico informatico Michele Landi, catalogato in un primo momento come suicidio e, solo successivamente, classificato come omicidio. "È da un mese e mezzo che hanno ricominciato a minacciarmi - ha detto Franz - e a farmi strani discorsetti via e-mail. Fanno così, "loro", poi bum-bum e tu sei morto. Come è successo a quei due, D'Antona e Biagi. E Landi, quella specie di hacker che aveva scoperto troppo. Suicidato, ma và.... io i miei figli voglio vederli crescere in diretta. E non dall'alto dei cieli. Non voglio fare una brutta fine ed essere consolato da un ministro che si dimette". "Io lo so per certo - ha continuato Franz -: sia D'Antona che Biagi avevano ricevuto un sacco di minacce. E tutti e due stavano indagando sulla provenienza di quei messaggi. Avevano scoperto i mittenti. Sapevano cioé chi sono i terroristi e chi li protegge. Ma sono stati fatti fuori". Ed ecco la rivelazione. Incredibile, inquietante: "Il tecnico informatico Michele Landi, trovato morto nella sua abitazione il 4 aprile scorso, poco prima di morire aveva mandato un e-mail a un mio amico che era nei servizi segreti con me. C'era scritto che aveva scoperto la provenienza delle rivendicazioni dell'omicidio Biagi: arrivavano dal computer di un ministero". Franz conclude l'esplosiva intervista dicendo di essere certo che dietro tutto questo "ci sono sempre gli stessi". E cioé coloro che un tempo erano i burattinai del Kgb, "diventati i boss della mafia russa, che oggi partecipano al gioco mondiale della destabilizzazione, finanziando e fornendo armi ai gruppi terroristi, che non possono vivere senza un potere alle spalle".
17 Novembre 2002:
PERUGIA - Giulio Andreotti è stato condannato a 24 anni per l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. La corte d'assise d'appello di Perugia ha accolto la richiesta dell'accusa e ha ribaltato la sentenza di primo grado che aveva assolto il senatore a vita "per non aver commesso il fatto. Con Andreotti è stato condannato alla stessa pena Tano Badalamenti. Confermate invece le assoluzioni per tutti gli altri imputati, compreso l'ex magistrato Claudio Vitalone.
19 novembre 2002 - (Liberazione)
- L'omicidio del direttore di "Op" , in attesa delle motivazioni della sentenza. Le parole di Buscetta e la testimonianze di due donne sconosciute al grande pubblico Pecorelli e quelle "cose politiche" Michele Gambino Per capire l'alchimia di un processo bisogna attendere le motivazioni della sentenza, o almeno conoscere i fatti del dibattimento, persino in uno strano paese come il nostro, dove i commenti sono sempre più lunghi delle notizie. A maggior ragione i fatti vanno conosciuti se il processo è indiziario, e se tra gli accusati c'è un personaggio che, nel bene e nel male, ha segnato la storia della prima Repubblica. Un personaggio che in cinquant'anni di vita politica ai vertici delle istituzioni è riuscito a seminare il suo cammino di sospetti, ma anche di simpatie trasversali all'intero arco politico e di uno stile ironico e sommesso che lo rende simpatico alla maggioranza degli italiani. Persino ieri, all'indomani della condanna, Andreotti ha reagito con un garbo e un rispetto dei ruoli sconosciuto alla maggioranza dei suoi difensori, a cominciare dal premier Silvio Berlusconi. Per questo, mentre si deposita il prevedibile polverone della solidarietà e dello sconcerto suscitato dalla condanna del senatore a vita come mandante dell'omicidio di Mino Pecorelli, si deve cercare di analizzare i fatti. A partire da quello che appare come il buco nero della sentenza: com'è possibile che la Corte D'Assise di Perugia abbia condannato il mandante del delitto e assolto presunti killer. A botta calda i due legali del senatore - e i moltissimi difensori non autorizzati - hanno puntato il dito su quest'incongruenza in maniera quasi irridente. Eppure, la spiegazione del mistero sarebbe abbastanza semplice secondo l'accusa: "La corte si è attenuta al principio di civiltà giuridica che impone di trovare riscontri alle accuse dei pentiti - spiega l'avvocato Alessandro Benedetti, uno dei difensori di parte civile della famiglia Pecorelli - È accaduto, molto semplicemente, che per due degli imputati, Andreotti e Badalamenti, il processo ha appurato dei riscontri concordanti, mentre per gli altri questo non è accaduto". Codici e morti In particolare, per quanto riguarda i due presunti assassini, le posizioni vanno distinte: contro uno di loro, Michelangelo La Barbera, vi erano le accuse di un solo pentito, il boss della Banda della Magliana Antonio Mancini. Contro il secondo, Danilo Abbruciati, le testimonianze dei pentiti erano molte e concordanti. Ma Abbruciati è morto nel 1981, ucciso in uno scontro a fuoco, e quindi la corte non ha esaminato la sua posizione. I riscontri dunque. Riscontri univoci e concordanti alle accuse lanciate per primo da Tommaso Buscetta, che nel 1984 fornì a Giovanni Falcone i codici segreti per capire la struttura della mafia e istruire il primo maxiprocesso di Palermo. Del delitto Pecorelli, Buscetta parlò ai giudici di Palermo il 6 aprile del 1993, in una località segreta della Florida, dove viveva protetto dal Fbi, ricostruendo le confidenze ricevute tra il 1980 e l'82 da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti: "In base alla coincidente versione dei due - mise a verbale il pentito -, quello di Pecorelli fu un delitto politico voluto dai cugini Salvo in quanto a loro richiesto dall'onorevole Andreotti". Buscetta fece una pausa e poi aggiunse: "Secondo quanto mi disse Badalamenti, sembra che Pecorelli stesse appurando "cose politiche" legate al sequestro Moro. Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che s'intrecciano tra loro". Da queste frasi partì l'inchiesta. Detto in soldoni, i magistrati considerarono l'ipotesi che Pecorelli potesse essere venuto in possesso di parti del memoriale scritto dal presidente della Dc Aldo Moro nella "prigione del popolo" brigatista. Quelle parti rimaste segrete nel 1978 e venute alla luce solo nel 1990. Parti che all'epoca sarebbero state occultate, perché contenenti rivelazioni di Moro - e "sgradite" ad Andreotti - sugli scandali Sindona e Italcasse. Su questa ipotesi s'inserirono le rivelazioni di alcuni pentiti della Banda della Magliana di Roma, i quali confermarono le dichiarazioni di Buscetta, fornirono i nomi dei presunti killer, Abbruciati e la Barbera, e indicarono l'andreottiano Claudio Vitalone e il mafioso Pippo Calò come i due elementi di tramite tra mandante ed esecutori. Un impianto che costituì l'atto d'accusa del primo processo, nonostante le lamentele di Buscetta, che fece sapere di non essere convinto del coinvolgimento di Calò e La Barbera. Un impianto che fu ritenuto non credibile dai giudici di primo grado, che pure riconobbero la sostanziale attendibilità di Buscetta. I giudici di secondo grado, per quello che si può intuire, hanno scelto di tornare al nucleo originario delle accuse, quelle di don Masino. E su quelle, solo su quelle, hanno considerato circostanziati e attendibili i riscontri. E qui veniamo al secondo punto delicato: quali possono essere i riscontri all'accusa di essere il mandante di un delitto, posto che non esistono intercettazioni o pezzi di carta a testimoniare l'ordine dato da Andreotti? A disposizione dei giudici vi erano molti indizi sulla effettiva conoscenza dei misteri del caso Moro da parte di Pecorelli, e ne parleremo. Ma a convincere la giuria popolare sarebbero state soprattutto le testimonianze di due donne, sconosciute al grande pubblico e probabilmente anche a molti di quelli che sono intervenuti in questi giorni in tv e sui giornali a difesa del senatore a vita. Queste donne si chiamano Chiara Zossolo e Franca Mangiavacca. La signora Zossolo è la moglie di Tony Chicchiarelli, pregiudicato ucciso in circostanze mai chiarite nel 1981. E qui, per capire, bisogna aprire una parentesi su questo personaggio, abile falsario e depositario di molti misteri del caso Moro. In sintesi, Chicchiarelli è l'uomo che per conto - forse - dei servizi segreti, confezionò il falso comunicato numero 7 del sequestro Moro, quello che indirizzò legioni di carabinieri al lago della Duchessa, in cerca del cadavere dell'uomo politico. Ma Chicchiarelli, per quello che c'interessa, è soprattutto l'uomo che qualche tempo dopo il delitto Pecorelli (avvenuto il 20 marzo del 1979) confezionò e fece trovare in un taxi romano una serie di false "schede brigatiste" a carico di personaggi pubblici, insieme a oggetti che riportavano ai misteri del sequestro Moro (come una testina rotante Ibm da macchina per scrivere, simile a quella usata per stilare i comunicati dei terroristi). Chiara Zossolo ha riferito alla Corte perugina un suo ricordo del 1981: al Senato era in corso la polemica sulla famosa cena al ristorante "la Famjia piemonteisa", nel corso del quale il senatore Vitalone e altri personaggi dell'entourage andreottiano avevano offerto soldi a Pecorelli perché cessasse di attaccare Andreotti sul suo giornale, "Op". Commentando quel fatto, Chicchiarelli spiegò di conoscere il vero motivo della morte del giornalista: "Pecorelli - disse l'uomo alla moglie - è stato ucciso perché aveva appurato delle cose sul sequestro Moro". Nel 1981, quindi, Tony Chicchiarelli è al corrente delle stesse cose che Buscetta riferirà nel 1993. Il riscontro è importante perché Chicchiarelli e Buscetta non si conoscono, e perché la Zossolo è considerata un testimone molto attendibile, non avendo alcun motivo di mentire o di inventare su circostanze che conosce a malapena. A rendere ancora più pesante questo riscontro è una seconda deposizione, resa dalla testimone Franca Mangiavacca, segretaria e ultima compagna di Pecorelli. La signora Mangiavacca ha infatti riconosciuto, in mezzo a decine di fotografie, quella di Chicchiarelli. È lui l'uomo che ha pedinato lei e Pecorelli nei giorni precedenti all'omicidio del giornalista. Riassumendo: i giudici hanno stabilito con sufficiente certezza che Chicchiarelli, poi a sua volta assassinato, partecipò alla fase di preparazione del delitto Pecorelli. Chicchiarelli dice alla moglie di conoscere il motivo per cui il giornalista è stato ucciso, e questo motivo è lo stesso indicato molti anni dopo da Buscetta: i segreti del caso Moro. Questi due indizi, naturalmente, non sono appesi al nulla, ma s'inseriscono in un contesto, lo stesso già tracciato agli albori del processo di Perugia, nelle 507 pagine della richiesta di rinvio a giudizio firmata dal pm Fausto Cardella. Quella ricostruzione parte dal ruolo di Cosa Nostra nel sequestro Moro. O meglio dal mancato ruolo: vale a dire, dalla "precisa volontà di alcuni uomini del partito (la Dc, nda) di scongiurare qualsiasi tentativo di liberazione dell'onorevole Moro". Secondo i magistrati i tentativi di Cosa Nostra di individuare la prigione di Moro vengono bloccati, dopo essere stati sollecitati, per timore delle possibili rivelazioni del presidente della Dc contro altri suoi autorevoli esponenti. Da qui si passa al caso del cosiddetto memoriale Moro nelle due versioni: quella "censurata", trovata nel 1978, e quella integrale rinvenuta soltanto nel 1990. È certo, secondo i magistrati, che il generale dalla Chiesa ha avuto tra le mani, fin dal 1978, la versione integrale. Ed è altrettanto certo che Dalla Chiesa e Pecorelli, entrambi iscritti alla P2, entrambi elementi anomali della loggia massonica, si sono incontrati almeno due volte dopo il rinvenimento del primo memoriale. Terza cosa certa è che Pecorelli sa bene che il memoriale pubblicato dai giornali è monco: "La lettura del testo del memoriale Moro - scrive su "Op" Pecorelli il 24 ottobre, due settimane dopo il ritrovamento da parte degli uomini di dalla Chiesa - ha già sollevato dubbi sulla sua integrità... Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli importanti segreti di Stato?". Articoli sgraditi La domanda sembra retorica. Anche perché nei successivi numeri di "Op" Pecorelli comincia a pubblicare notizie e documenti esclusivi proprio su quegli argomenti - scandalo Italcasse, caso Sindona, operazione Gladio - che sono contenuti nel memoriale integrale, quello che diventerà pubblico solo nel 1990. Quindi, è l'ipotesi, Dalla Chiesa avrebbe consegnato a Pecorelli la versione integrale del memoriale Moro. Andreotti lo avrebbe saputo o intuito, e avrebbe chiesto alla mafia, attraverso i cugini Salvo di Salemi (entrambi deceduti) il "favore" di eliminare Pecorelli. E qui il quadro criminale dovrebbe allargarsi al generale Dalla Chiesa - "cose che s'intrecciano tra loro", aveva detto Buscetta - l'altro depositario dei segreti del memoriale. Tra gli indizi degni di nota, secondo la corte d'Assise che ha condannato Andreotti, c'è il fatto che la mafia avesse progettato l'omicidio di dalla Chiesa già nel 1979, tre anni prima che il generale, assumendo la carica di prefetto di Palermo, diventasse un potenziale pericolo per Cosa Nostra. Questo è il nucleo di partenza dell'inchiesta. Su queste basi il pm Cardella accumula carte, cerca riscontri o smentite alle accuse dei pentiti. Nella sua stanza, dentro il piccolo e austero tribunale di Perugia, si svolgono a partire dal 1995 interrogatori sempre più drammatici: c'è il freddo Andreotti che a tratti annaspa o fa finta di annaspare, inguaia Vitalone che ha forsennatamente negato di conoscere i cugini Salvo, poi ritratta penosamente. C'è Vitalone che scarica tutto su un altro andreottiano, Franco Evangelisti, che è morto e non si può difendere. Ci sono testimoni che mentono e quando sono smascherati raccontano di aver ricevuto pressioni per farlo. Ci sono imputati marginali, come l'agente del Sisde Giancarlo Paoletti, che s'incartano e ricorrono alla metafisica: "Non ricordo, però preciso: non ricordare non vuol dire escludere o rinnegare". Cardella vede sfilare quel pezzo d'umanità dolente e arrogante, compila verbali, legge i rapporti di Ros e Dia, incastra i pezzi e alla fine si convince: le dichiarazioni dei pentiti reggono il peso della verità. Sei anni dopo il tribunale gli dà ragione, in attesa dell'ultimo verdetto, quello della Cassazione.
21 Novembre 2002 - (La Stampa)
DOPPI E TRIPLI GIOCHI DI GIORGIO CONFORTO, AGENTE DEL KGB IN ITALIA: UN VOLUME NE RACCONTA LA VITA La SPIA
- Che cosa spinge un uomo a farsi volpe, talpa, lupo, sorcio, falco, serpente e colomba? Perché tutto questo è stato Giorgio Conforto, "il miglior agente sovietico in Italia di tutti i tempi", secondo l'impegnativa definizione di Cristopher Andrew, lo storico britannico che ha curato la pubblicazione del dossier Mitrokhin. Quando nell'autunno del 1999 uscirono fuori le carte su cui è oggi al lavoro una Commissione Parlamentare d'Inchiesta, Francesco Grignetti fu tra i primi a intuire e poi a confermarsi, scoperta dopo scoperta, la straordinaria risorsa narrativa del personaggio Conforto. La sua aderenza biografica a molti degli snodi storici e tribolatissimi del Novecento italiano, dal fascismo al caso Moro. E a comprendere l'enigma, insieme oscuro e rilucente, dell'agente "Dario" e della sua solitudine nel paese dei furbi. La Guerra Fredda nella porta accanto, i mazzi di chiavi che cambiavano spesso di mano, le serrature guaste. In Inghilterra, si sa, il modello non solo letterario della spia sovietica evoca intellettuali raffinati e amanti del cricket, aristocratici a fine razza, spesso debosciati, non di rado omosessuali. Ecco: l'italianissimo Conforto, discendente da una famiglia romana di grande tradizione risorgimentale e prima ancora anti-papalina, si presenta invece come un impiegato del ministero dell'Agricoltura e Foreste, certo colto e poliglotta, ma dall'aspetto del tutto anonimo. Un agente travet, si direbbe, pacato e coscienzioso, senza grilli per la testa. Come tale tiene anche famiglia, ma poi si scopre che anche la moglie lavora (e anche lei bene) per il Kgb; e che nell'appartamento della figlia - guarda come le consuetudini dello spionaggio s'intrecciano al familismo nazionale - trovano ospitalità i brigatisti "movimentisti" Morucci e la Faranda, in fuga dall'ala militarista delle Br, con la famosa mitraglietta Skorpion con cui è stato ucciso Moro. Dopo che la polizia ha fatto irruzione, nel clima concitato di quei momenti, ecco che nel palazzo arriva un omino con gli occhi azzurri, vestito all'antica, attraversa la folla degli agenti, sale in ascensore, prende con sé i nipotini e se ne va. È il nonno, del resto. Nessuno lo nota, nessuno fa collegamenti. Eppure lo si dovrebbe conoscere, eccome. Su di lui esiste una pila di sospetti e documenti che la metà già bastava. A quel punto della sua vita, Conforto lavora per i sovietici - caso rarissimo - ormai da quasi mezzo secolo. Non solo, ma nella sua ricca pubblicistica arde talmente di passione filo-sovietica da suscitare qualche dubbio, forse anche negli stessi sovietici; e magari a beneficio dei nemici dei sovietici. O magari no. Chi fa la spia non è figlio di Maria, ma soprattuto non va dal notaio a certificare le proprie relazioni, i propri passaggi transitori di campo, le ridislocazioni, le tentazioni, i compromessi, i cedimenti, le derive, i capricci, le paure. In questo suo primo libro appassionante, intitolato Professione spia, sottotitolo "Dal fascismo agli anni di piombo cinquant'anni al servizio del KGB" (Marsilio, 221 pagine, 13,50 euro), Grignetti passa al setaccio vita, pensieri, parole e opere di Giorgio Conforto. Sia pure in modo piatto e sommario, anche il rapporto Impedian (l'altro nome delle carte Mitrokhin) rivendica a suo modo l'eccezionalità del personaggio: la cospirazione giovanile comunista, gli arresti, il finto pentimento, l'infiltrazione nei ranghi del fascismo, il reclutamento delle prime tre dattilografe - ne seguiranno altre, sarà la sua fantastica specialità dell'agente "Dario". Quindi la guerra, la deportazione in Germania, il travagliato impegno nel psi, dove i sospetti di doppiogioco con gli apparati del fascismo lo portano all'espulsione, mentre s'intensifica il lavoro per l'Urss che un giorno addirittura lo premia con l'Ordine della Stella Rossa. E gli passa perfino la pensione. Tutto insomma sembra tornare al suo posto. Ma fino a un certo punto, perché più Grignetti scava e approfondisce senza pregiudizio quella materia magmatica, quella vita incredibile, e più tutto si rivela intricato, equivoco, anche caotico; a tratti s'intuisce come il gioco di Conforto si sia fatto probabilmente individuale, doppio, triplo, arcano; e seppur animato da una fredda passione per tutto ciò che è sovietico, comunque "Dario" finisce a presidiare una zona grigia ai confini tra la necessaria ideologia e l'indispensabile doppiezza, uno spazio contraddittorio e senza tempo dove tutto sfuma quasi inavvertitamente nel suo contrario. In questa sorta di metafisica dello spionaggio, Conforto resta senz'altro un agente bolscevico. Ma via via è anche tesserato del Pnf, raccomandato dal Duce in persona, animatore di un centro studi anti-comunista, certamente a contatto con l'Ovra, individuato dalla Cia fin dal 1946, ben conosciuto dall'Ufficio Affari Riservati del Viminale. Strana figura di materialista storico in odore di esoterismo magico, comunista e massone, animatore dell'associazione anticlericale "Giordano Bruno", imperturbabile e a volte incomprensibile agli occhi dei suoi stessi familiari. Una biografia che, tanto più in tempi di semplificazione e appiattimento, rende la complessità della storia e degli uomini. Un libro raro e prezioso, un modello di ispirazione anti-dietrologica. E non era facile.
24 Novembre 2002: (Il Piccolo)
GORIZIA «A condannare a morte Aldo Moro è stato il gruppo terroristico che nel 1986 ha ucciso il primo ministro svedese Olaf Palme e che sarebbe da ricondurre al leader curdo del Pkk Ocalan. Me l'ha confidato la figlia di Moro, Maria Fida». La sensazionale rivelazione è stata fatta ieri a Gorizia dal presidente del Consiglio regionale Antonio Martini. L'esponente della Margherita ha parlato ad un incontro pubblico di ex democristiani - ora confluiti soprattutto nel Centrodestra - che si sono riuniti per manifestare solidarietà e vicinanza al senatore a vita Giulio Andreotti. La rivelazione di Martini ha suscitato in sala notevole sconcerto per la gravità dell'affermazione che si aggiunge alla già infinita «letteratura» di tesi e ipotesi sorte attorno all'uccisione dello statista democristiano, reato che la giustizia italiana ha attribuito alle Brigate rosse. Raggiunto in serata telefonicamente per un ulteriore precisazione della dichiarazione pubblica resa a Gorizia, il consigliere Martini ha aggiunto. «Confermo quanto detto in mattinata. Anzi, ho saputo di questa storia appena qualche settimana fa a Udine, dove la signora Maria Fida Moro (ex parlamentare in più schieramenti ndr) di cui sono buon amico era giunta per sostenere un corso all'Università. A cena, mi ha rivelato di essere certa che l'uccisione del padre è da attribuire ad un'organizzazione terroristica internazionale, con radici in Medio oriente. Secondo lei l'eliminazione del padre è da mettere in relazione ad un non meglio precisato traffico internazionale di armi. E sarebbe anche per questo motivo che dieci anni dopo Moro hanno ammazzato Olaf Palme. Nella confessione di Maria Fida ho colto quasi un senso di liberazione: la consapevolezza cioè che ad ammazzare il padre non siano stati, come mandanti, gli amici del partito». Ma perché non denunciare alla magistratura tale tesi? «Maria Fida Moro mi ha parlato della questione - ha risposto Martini - dandomi l'impressione che fosse cosa nota ai più. E comunque non è compito mio denunciare un tale fatto».