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Roberto bartali.it

Marzo 2002

4 Marzo 2002:

Un mondo di spie e informatori, capaci d'ogni intrallazzo e contenitori arcigni dei molti, troppi misteri che si sono affollati nella storia recente nostro Paese. C'è di tutto nel bellissimo saggio di Gianni Cipriani edito da Sperling & Kupfer, "Lo Stato invisibile". E sicuramente domani in occasione della presentazione alla Sala del Cenacolo alla Camera dei Deputati verranno ripetute quelle rivelazioni che in questi giorni dal giorno della recente pubblicazione hanno già fatto conoscere il libro a un numero incredibile di persone. Desiderose di capire come mai non si riesca ad avere un dato certo su nessuno dei molti casi oscuri che si sono verificati in Italia negli ultimi cinquantanni. A far compagnia all'autore per la presentazione, il giudice Carlo Mastelloni, Gianni Minà, il vicepresidente della Camera Fabio Mussi, Valter Bielli della Commissione Stragi, e Giovanni Pellegrino, già presidente dello stesso organismo. Il percorso trasversale, lungo le vicende dello spionaggio e dei suoi protagonisti che vogliono passare per comparse, passa da alcuni luogi storici come via Mote Nevoso, con il relativo memoriale Moro durante la prigionia delle Brigate rosse. Per arrivare a fatti che sono e forse saranno sempre interpretati per lo strano connubio tra la legge e la malavita, come il caso Dozier e lo studio di quella autentica costellazione che era l'estremismo di destra. Leggendo solo le carte delle molti commissioni d'inchiesta che si sono sovrapposte e che hanno prodotto montagne di documenti, "verità ufficiali nella confusione" come disse Giovanni Pellegrino (che sarà anche ospite alla presentazione), Cipriani scova Claudio Martelli come agente dei servizi segreti, ritorna su alcuni buchi neri come la strage di piazza Fontana, a Milano e piazza della Loggia, a Brescia. Dalla lettura non si esce scoraggiati e convinti di aver trovato il bandolo della matassa, attraverso un consolatorio e forse anche inutile j'accuse generale verso chi ha avuto incarichi di governo, ma con le idee sicuramente più chiare. Perché troppo spesso il rischio è che le informazioni si sovrappongano senza produrre nulla. "Per capire la Bibbia - scrisse Giovanni Paolo II, in una famosa enciclica riferendosi alla confessioni che troppe volte la citano a memoria e a sproposito - serve un indirizzo, un senso per il peso delle cose". L'opportunità che offre Cipriani è quella di redistibuire i pesi rendendo esplicito il meccanismo dello spionaggio. Il rifiuto dello scandalo per lo scandalo, del caso truculento è di per sè una certezza, una garanzia di come ci si dovrebbe comportare sempre, quando si ha che fare con elementi che spesso sono macchiati di sangue. freccia rossa che punta in alto

31 Gennaio 2002

Lo scorso lunedì è morto a Roma il prefetto Umberto Improta. Direttore del servizio antiterrorismo della polizia di prevenzione nell'87, questore di Milano nell'88 e di Roma nell'89, prefetto di Napoli nel '91 e infine ispettore generale di amministrazione nel '96, Improta ha passato tutta la sua vita al servizio dello Stato, ricoprendo incarichi di prestigio e di grande responsabilità. «Nella sua lunga carriera - ha detto Carlo Azeglio Ciampi - ha dato prova di grande capacità nella lotta alla criminalità e al terrorismo: il suo forte e appassionato impegno ha accresciuto la sicurezza dei cittadini». Questo, riga più riga meno, è quello che abbiamo letto sui giornali. Qualche messaggio di cordoglio alla famiglia. Un po' di date e di qualifiche. Stringati cenni biografici. Ma Improta non era un semplice ed oscuro funzionario. Tutt'altro. Durante gli anni passati all'Ucigos e nelle questure di Roma e Milano, Improta si dedicò alla lotta al terrorismo e all'analisi dei fenomeni eversivi. Fornendo preziosi contributi alle indagini sul «partito armato». Primo fra tutti quello sui collegamenti internazionali delle Brigate rosse, di cui Improta si era occupato fin dal 1981 quando condusse le operazioni sul sequestro Dozier ed individuò lo zampino dei servizi bulgari. La storia recente del prefetto resta legata ad un appunto inviato il 5 dicembre del 1990 al capo della Polizia. Nel dossier, spuntato fuori dagli archivi della commissione Stragi nell'inverno del 1999, Improta dimostra, verbali e documenti alla mano, i numerosi contatti tra le Br e i servizi segreti dell'Est. Tra questi, c'è quello esplosivo dell'agente Dario, al secolo Giorgio Conforto, con i due «postini» del sequestro Moro, Adriana Faranda e Valerio Morucci. Conforto, uomo di punta del Kgb in Italia negli anni della guerra fredda, era il papà di Giuliana, vicina all'Autonomia operaia di Franco Piperno e Lanfranco Pace, che nel giugno del 1979 ospitò nella sua casa di via Giulio Cesare a Roma i due brigatisti in fuga. Nell'abitazione fu trovato un vero e proprio arsenale, compresa la mitraglietta Skorpion con cui era stato ucciso Aldo Moro. Ma l'identità di Giorgio Conforto, benché conosciuta dai nostri servizi e comunicata «verbalmente» al capo del tribunale di Roma, non entrò mai nelle indagini dei giudici romani Imposimato e Priore. Risultato: lui e sua figlia se la cavarono senza neanche un'accusa di favoreggiamento. L'appunto di Improta, rimasto senza seguito per oltre nove anni, è oggi considerato una delle principali testimonianze sull'autenticità del dossier Mitrokhin (che dedica diverse pagine all'agente Dario) e sull'attività di infiltrazione del Kgb nel mondo dell'eversione rossa. Tutto sommato, il fatto che nessuno abbia ricordato il lavoro del prefetto sulle relazioni «pericolose» tra l'ex Unione sovietica e la più feroce banda armata degli anni di piombo non stupisce più di tanto. freccia rossa che punta in alto

20 Marzo 2002

"Siamo le Brigate Rosse. Rivendichiamo l'attentato al professor Biagi. Seguirà comunicato". È il contenuto di una telefonata giunta alle 16.28 di oggi al centralino del "Resto del Carlino". A chiamare, a quanto si è appreso, un uomo dalla voce priva di inflessioni dialettali. Per ora nessun commento da parte della Digos sull'attendibilità della chiamata. Si tratta comunque della prima rivendicazione, giunta una ventina di ore dopo l'omicidio dell'economista Marco Biagi. Le indagini, intanto, proseguono per accertare la dinamica dell'attentato. Biagi potrebbe essere stato colpito da più di due sicari, un commando all'interno del quale i componenti erano in parte in moto e in parte a piedi. Per una operazione del genere, ad ogni modo, è facile prevedere che "abbia agito una organizzazione più articolata". Questa l'ipotesi del procuratore aggiunto di Bologna, Luigi Persico, che ha parlato a una folla di cronisti dopo il vertice di oggi con tutti gli inquirenti. Biagi è stato colpito da almeno tre proiettili mentre stava appoggiando la bicicletta al muro, pochi minuti dopo le otto di ieri sera. Gli attentatori hanno usato una calibro 9, lo stesso tipo d'arma impiegato contro Massimo D'Antona. Lo ha detto oggi il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, nei suoi interventi alla Camera e al Senato. Gli investigatori hanno scoperto una stella a cinque punte sul portone di casa Biagi. Il simbolo delle Br, di 10-15 centimetri, inciso malamente e contornato da un cerchio assai più grande, è stato notato verso le quattro del mattino dai cronisti quando si è allentato il blocco delle forze dell'ordine. La stella è stata incisa con un oggetto appuntito nel legno marrone scuro del portone. Poco più in alto il foro di un proiettile, numerato dagli investigatori. E sempre sul muro del portico che sta davanti al numero civico 14 di via Valdonica, gli investigatori hanno trovato due piccoli timbri, di pochi centimetri, raffiguranti due frecce la cui punta è sul centro di un bersaglio di cerchi concentrici, con la scritta "obiettivo centrato". Un particolare che gli investigatori definiscono "interessante" anche perché, secondo le prime informazioni, il muro era stato riverniciato da poco tempo e sembra che nessuno abbia notato i due timbri nei giorni precedenti l'omicidio. Anche se altri testimoni dicono che le scritte sono presenti da diverso tempo. Poco a poco gli inquirenti stanno costruendo le fasi del delitto. Il vertice in Procura tra gli investigatori e i magistrati che si occupano delle indagini sull'omicidio è terminato poco dopo l'una. Poco prima di entrare nel suo ufficio, il dottor Persico ha detto che "per adesso è troppo presto per sbilanciarsi sugli sviluppi dell'indagine". Ma concluso il vertice, ha riferito che Marco Biagi aveva ricevuto una serie di minacce almeno fino a settembre 2001. "Tutta una serie di minacce, frasi e telefonate - ha spiegato - che vanno interpretate. La procura di Bologna dispose subito le indagini appropriate, ma come spesso accade per questi fatti gli accertamenti non hanno portato a incriminare qualcuno". Di più gli inquirenti non hanno detto. Ma secondo le prime ricostruzioni l'allarme per l'omicidio è stato dato da una telefonate arrivata al 113 intorno alle 20.10. A darlo è stata una signora anziana, abitante nella zona e rimasta anonima, che ha detto alla polizia di avere sentito dei colpi. Gli inquirenti visioneranno le immagini registrate dagli impianti video a circuito chiuso presenti in tutta Bologna, e non solo quelle della stazione ferroviaria e dell'ex ghetto ebraico dove è avvenuto l'omicidio. "I filmati? Li stiamo analizzando tutti", ha detto Persico. Un video registrato dall'impianto a circuito chiuso della stazione ferroviaria potrebbe addirittura svelare il volto del basista, la persona che con una telefonata avrebbe avvisato i killer che il treno di Biagi era arrivato e che il consulente del ministro del Lavoro stava per giungere a casa in via Valdonica. L'attenzione degli inquirenti si è concentrata particolarmente su uno spezzone: "Si vede una persona che non necessariamente sta telefonando", ha spiegato un inquirente. A tarda notte i carabinieri del Ris hanno simulato la possibile dinamica dell'omicidio, studiando con particolare attenzione le probabili traiettorie dei proiettili - due, alla nuca - che hanno ucciso Marco Biagi. La scena del delitto, a pochi metri dal portone del numero civico 14, è stata illuminata da potenti luci e la simulazione è stata diretta dallo stesso comandante del Ris, il tenente colonnello Luciano Garofano. Un carabiniere, sempre con la tuta bianca e i copriscarpe, ha simulato la posizione della vittima, mentre un altro militare, in piedi fra due colonne del portico, a distanza di qualche passo, ha mimato uno dei killer, impugnando una pistola. La simulazione è stata ripresa con diversi scatti fotografici dai militari, e da diverse angolazioni. La ricostruzione della scena del crimine è stata fatta seguendo alcuni fori di proiettili, nel muro e nel portone, le macchie di sangue della vittima, ben visibili sul pavimento del portico, e la posizione di Marco Biagi, dopo essere stato colpito a morte. I carabinieri del Ris hanno poi ultimato altri rilievi all'interno dello stabile, per poi caricare tutta l'attrezzatura sulle auto e lasciare via Valdonica intorno alle 4. Biagi, è stato osservato, da abitudinario manteneva sempre gli stessi orari e le stesse abitudini. È probabile quindi che vengano controllate le immagini riprese dalle telecamere in stazione. Altre telecamere che sicuramente sono state e saranno controllate sono quelle piazzate vicino all'ingresso del museo ebraico, a poche decine di metri dall'abitazione di Biagi, puntate però verso la parte opposta al punto in cui è avvenuto l'omicidio. Il ministro Claudio Scajola, dopo aver riferito alla Camera, ha parlato in Senato. freccia rossa che punta in alto

21 Marzo 2002

Rivendicato via e-mail l'omicidio di Marco Biagi. Questo il testo integrale della rivendicazione. freccia rossa che punta in alto

22 Marzo 2002

Prima delle Brigate rosse, gli autori dell'omicidio di Marco Biagi, quelli dei Nuclei territoriali antimperialisti hanno fatto trovare un loro documento in cui attribuiscono l'assassinio alle Br e affermano di condividerlo. Lo hanno lasciato giovedì sera in una cabina telefonica nel centro storico di Verona, a pochi passi dalla casa dove abitava e fu rapito il generale Usa James Lee Dozier. Sono quattro pagine dattiloscritte che probablimente gli Nta volevano far trovare a un giornalista, ma c'è ancora chi - anche se ormai sono pochi - usa gli apparecchi pubblici e così un semplice passante che aveva bisogno del telefono è entrato nella cabina, ha trovato il messaggio e, anticipando la chiamata dei terroristi, ha avvisato la Polizia. Ora, anche quel documento, è nelle mani degli investigatori bolognesi, oltre che in quelle del procuratore di Verona Guido Papalia. La Digos veronese ritiene che si tratti di un documento autentico per contenuti, impostazione grafica e sigla (c'è la stella a cinque punti con accanto il nome per esteso dell'organizzazione). Fino ad ora è l'unico esemplare fatto trovare dagli Nta, non si conosce il suo contenuto anche se conterrebbe un'analisi della situazione politica, economica e sociale con la rivendicazione dell'omicidio di Bologna. Nella città scaligera, nel lontano 1981, le Brigate rosse di Moretti e Savasta sequestrarono il generale Usa Dozier, liberato pochi giorni dopo a Padova dai Nocs: l'ufficiale americano abitava a poche centinaia di metri da via Colombo, dov'è la cabina dentro la quale gli Nta hanno lasciato il documento. E gli stessi Nuclei a Verona hanno compiuto due attentati contro altrettante sedi dei Ds. Su questi attentati sta indagando il procuratore Papalia, che ieri ha spiegato di ritenere che gli Nta siano collegati con le Br-er la costruzione del partito comunista combattente «quantomeno a livello di vertice, il che - ha aggiunto - comporta una unicità di strategie se non una identità di comportamenti e di azioni». Secondo il magistrato, nelle risoluzioni strategiche fatte trovare in questi anni dagli Nta, «è la valenza dei documenti, l'ispirazione alle vecchie ideologie brigatiste» che deve preoccupare. Per Papalia anche la ripropozione che gli Nta fanno delle assi «classe-Stato», «imperialismo -antimplerialismo» dimostra come abbiano «ben assimilato la dottrina leninista, ribadendo che la lotta armata è necessaria per la dittatura del proletariato». freccia rossa che punta in alto

(Panorama)

G. Pellegrino: Un mese fa, il 18 febbraio, aveva previsto che in Italia il terrorismo, dopo cinque mesi di stasi, avrebbe rialzato la testa: «Si stava allentando la forte pressione investigativa seguita, in tutto il mondo, agli attacchi kamikaze dell'11 settembre». Ora, dell'attentato contro Marco Biagi, individua con sicurezza il brodo di coltura: «Chi lo ha assassinato conosce molto bene, e dall'interno, il mondo del sindacato e del ministero del Welfare». Giovanni Pellegrino, ex presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi ed ex senatore dei Ds, è uno dei politici più consapevoli in materia di terrorismo. Ed è il primo che punta il dito contro il palazzone bianco di via Flavia: «È probabilmente in quello stesso ambiente» dice a Panorama «che in passato sono stati decisi anche gli omicidi di Ezio Tarantelli e di Massimo D'Antona». Non è nuovo ad analisi di questo tipo Pellegrino. Quando nel maggio 1999 i sicari delle Brigate rosse-Partito comunista combattente uccisero D'Antona, Pellegrino dichiarò, sicuro, che tra di loro c'era chi aveva già commesso altri omicidi: «Era mancata» spiega oggi «la tipica escalation preventiva, rapimento-gambizzazione, di un gruppo terroristico ai primi passi. E quei killer non sono mai stati presi». L'ipotesi più credibile, quindi, è, secondo Pellegrino, che ci sia una continuità diretta fra i delitti. Nel caso degli ultimi due, non è da escludere che siano stati eseguiti addirittura da un medesimo gruppo di fuoco. L'alternativa, più debole ma forse più preoccupante: quella di una «cellula terroristica imitativa, probabilmente di ambito universitario o contigua alle frange del sindacalismo estremo, attrezzata per condurre un'inchiesta approfondita su un obiettivo da abbattere e tanto determinata da compiere un delitto». Pellegrino è convinto comunque che non sia stato il acutizzarsi del conflitto sociale sulla riforma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ad aver armato la mano dei terroristi: «Hanno ucciso un uomo che per cultura puntava agli accordi, alle intese, non al conflitto. Avrebbero colpito comunque». Quanto all'allarme sul terrorismo lanciato dai servizi segreti proprio pochi giorni prima dell'omicidio (vedere «Panorama» n. 12), con l'individuazione di un potenziale obiettivo che sembrava ricalcato sul ruolo coperto da Biagi, Pellegrino è critico: «Quelle previsioni erano tragicamente esatte» commenta «ma anche ai limiti dell'ovvio». Il problema vero, adesso, è quello delle indagini. E anche su questo punto Pellegrino va controcorrente: «La procura di Bologna non ha consuetudine con questo tipo di eventi. Una volta di più si rende evidente che servirebbe una centralizzazione delle indagini sul terrorismo. E a livello politico servirebbe una nuova commissione d'inchiesta: sul passato non c'è stata possibilità di intesa, tra destra e sinistra. Ma sul presente sì». freccia rossa che punta in alto

24 Marzo 2002
(G. Pellegrino): dal supercarcere di Trani i contributi per l'ideologia brigatista

LELLO PARISE - «Chi ha ucciso non può che continuare ad uccidere. Fra un mese o fra un anno, non lo so. Ma pensarlo non è un evento del tutto imprevedibile. Non lo era dopo l'omicidio di D'Antona, nel 1999, e non lo è dopo l'assassinio di Biagi». Parola di Giovanni Pellegrino, ex senatore diesse ed ex presidente della commissione Stragi. Già a febbraio di quest'anno aveva previsto che i terroristi sarebbero tornati a colpire: «Si allentava la pressione degli investigatori seguita, in tutto il mondo, agli attacchi kamikaze dell'11 settembre». Per combattere i brigatisti dell'ultima ora basta leggere nella palla di vetro? «No, bisogna evitare di spezzettare le indagini». Cioè? «La Procura di Bologna suo malgrado, ha un deficit di conoscenza enorme a proposito delle bande armate. Tant'è che ha ragione da vendere Giuseppe D'Avanzo quando ieri, su Repubblica, scrive di un'inchiesta partita male. Come si fa a dire al di là d'ogni ragionevole dubbio, che la pistola che ha ammazzato D'Antona è la stessa usata per Biagi? Semplicemente, non è vero. Sì, gli inquirenti hanno cominciato a camminare col piede sbagliato». In un altro Ufficio del pubblico ministero le indagini andrebbero avanti diversamente e percorrerebbero l'unica strada possibile per sconfiggere il terrorismo: quella di arrestare i terroristi? «Bisogna centralizzarle, le indagini». D'accordo, ma chi dovrebbe averne la titolarità? «La Direzione nazionale antimafia. Visti e considerati anche i confini ormai sempre di più labili fra criminalità organizzata e terrorismo. Dal delitto D'Antona ad oggi, abbiamo una massa enorme d'informazioni sul conto di gruppi più o meno consistenti dell'eversione. Ma, ripeto, sono spezzettate e quindi non si riesce mai ad avere un quadro completo di quello che succede». Appunto, che cosa succede? «Ho l'impressione che i terroristi siano più efficienti rispetto a tre anni fa, quando giustiziarono D'Antona». All'epoca lei presiedeva la commissione Stragi, che si occupò di quell'omicidio...
«Ancora oggi mi rimprovero di avere sottovalutato l'audizione del prefetto Carlo Ferrigno, direttore centrale della Polizia di prevenzione». Perché? «Era un'audizione del dicembre 1996. In pratica, tre anni prima che le Br tornassero ad uccidere un rischio di questo tipo fu offerto senza giri di parole alla riflessione della Commissione. Ascoltando Ferrigno apparve chiaro che al di sotto delle ceneri della disfatta delle Brigate rosse covassero ancora braci e che quindi fosse reale il pericolo, nel caso in cui le vicende interne avessero determinato un innalzamento della tensione sociale, di un riaccendersi di nuove fiammate». Il prefetto fece nomi e cognomi? «Il riferimento fu al riorganizzarsi, fin dalla prima metà del decennio, di gruppuscoli che si richiamavano esplicitamente all'esperienza finale dell'ex ala militarista delle Br, utilizzando sigle diverse: Nuclei territoriali antimperialisti, Nuclei comunisti combattenti...». Richiami generici o vere e proprie intese con i brigatisti in galera (150, 81 dei quali sono irriducibili) o latitanti (48, di cui 29 si trovano in Francia)? «Lo stesso Ferrigno affermò che, anche se in numero limitato, protagonisti della stagione eversiva degli anni Settanta e Ottanta stavano rivestendo un ruolo importante nella riorganizzazione di questi gruppuscoli». Compresi, quindi, i terroristi rinchiusi nel supercarcere di Trani? «Non c'è dubbio. Credo che forniscano un contributo per l'elaborazione ideologica di un programma che è politico e, insieme, militare. Ma non dimentichi i "non identificati"...». Chi sono? «Quei militanti sconosciuti quanto per forza di cose, impuniti. Magari erano impegnati in ruoli marginali, ma sono riusciti a sfuggire alla cattura e in seguito non hanno voluto rassegnarsi all'estinzione dell'organizzazione. Così, si sono resi protagonisti di fenomeni riorganizzativi». freccia rossa che punta in alto

26 Marzo 2002

Alberto Franceschini: Se mai ha avuto dubbi, ora li ha cancellati. Dice: «Sono convinto, leggendo lo pseudocomunicato e riflettendo sulle modalità operative sia da un punto di vista militare sia politico, che queste che si definiscono Brigate rosse, con la storia delle Br non c´entrano neppure un po´». Alberto Franceschini, 55, in un´organizzazione di tutti uguali era fra i più uguali: un capo, il «pubblico ministero» che interrogò il magistrato genovese Mario Sossi il cui sequestro, nel 1974, avrebbe dovuto essere, nel progetto «rivoluzionario», il primo «attacco al cuore dello Stato». Diciotto anni dietro alle sbarre e, nel 1992, la scarcerazione per fine pena; oggi lavora in una cooperativa che si occupa, per l´Arci, di progettazione. Perché gli assassini di Biagi dovrebbero essere estranei alle bierre? «C´è una riflessione da fare, da un punto di vista prima di tutto politico. Le nostre azioni erano sempre pensate in rapporto al movimento delle masse. Pure nella rivendicazione dell´assassinio D´Antona emergeva un ragionamento che, anche se ritenuto delirante, traeva però riflesso dalla situazione: guerra in Bosnia, bombardamenti cui partecipavano gli italiani, cortei dei pacifisti. In qualche modo tutto questo è il marchio di fabbrica delle Brigate rosse, sempre attente al loro operare militare in funzione dello sviluppo dei movimenti. Anche l´omicidio politico, perché nessuno ha mai pensato che ammazzando della gente si facesse la rivoluzione. Cosa che, secondo me, è il punto di partenza, il codice genetico delle Br. Nel documento su Bologna non esistono analisi di questo tipo, nessun accenno a Genova, ai no global... ». Però analizza la situazione italiana: allora? «Il documento in sostanza dice: "Non ci importa un accidente dei movimenti, ci interessa solo il gioco interno al potere".
Ha il sapore forte di un´analisi fatta dal punto di vista del potere. Questo tipo di ragionamento riportato nella situazione odierna, l´azione compiuta a tre giorni da quella che avrebbe dovuto essere, e che poi è stata, la grande manifestazione della Cgil, ci pone davanti a due interpretazioni: o si ha a che fare con persone stupide, incapaci di rendersi conto che tutto ciò che fanno andrà contro le iniziative di della Cgil e delle forze che, in qualche modo, combattono il governo e la Confindustria: il che è improbabile; oppure, questa è un´azione di potere, tutta interna al potere». Ma chi avrebbe mandato gli assassini? «Quello che so, perché detto e ripetuto sui giornali e in tv, è che si è trattato di un omicidio annunciato. E forse atteso. Riflettiamo. In questi mesi le grandi lamentele di Maroni e del governo sull´articolo 18 erano sul fatto che avessero "perso la battaglia della comunicazione, finora vinta da Cofferati e dalla Cgil". Allora, qual è l´obiettivo principale di questo delitto? Mettere in crisi le capacità comunicative del sindacato e ridar fiato a quelle di governo e Confindustria: cosa successa. Berlusconi e Maroni hanno cercato di utilizzare in tutti i modi l´attentato, come Zorro hanno aspettato che il cavallo passasse sotto la finestra per balzarci sopra. È l´ipotesi più favorevole al governo che possa fare». E la meno? «Non vorrei che qualcuno fosse tornato alla strategia un tempo chiamata "della tensione", che ha sempre mirato alla sconfitta degli operai, della Cgil e della sinistra, utilizzando anche gli strumenti del terrorismo. Vedo terribili analogie con piazza Fontana, che non fu una strage isolata ma, purtroppo, l´inizio di una stagione. Allora resuscitarono un cadavere chiamato anarchia per scoprire, dopo anni, che gli anarchici non c´entravano; oggi viene ripescato un altro cadavere che: si chiama Brigate rosse o partito comunista combattente, utilizzato per terrorizzare chi lotta e viene assimilato alla sinistra. Non dimentichiamo che Berlusconi ha sempre attaccato la sinistra dicendo: "Siete dei comunisti". Adesso il gioco è molto più complesso e raffinato, e se è così, i prossimi saranno anni terribili» Qualcuno sostiene che Luciano Lama e il sindacato avessero deciso la caccia al terrorista soltanto perché si sentivano fragili: è così? «Questa è una balla. Certo, esisteva una debolezza relativa del sindacato rispetto non tanto al terrorismo ma al movimento operaio. Però esisteva una profonda cultura democratica: noi siamo stati sconfitti dal sindacato e dal pc,sia dal punto di vista politico sia da quello poliziesco, e loro hanno collaborato a farci arrestare non per un discorso strumentale ma perché convinti che fossimo nemici della democrazia. Il che era vero. Cofferati non è Lama, anche come cultura. Quando alla manifestazione dice "questa è la mia gente", l´impressione che ne trai è che sia brava gente. Una volta c´era la teoria per cui la Cgil viveva degli imput dal partito, adesso il gioco si rovescia: la cinghia di trasmissione va dalla Cgil ai ds». Se gli assassini non sono brigatisti, allora chi sono? «Gente mandata. Bologna mi ricorda la azioni camorristiche o mafiose, con ragazzini sul "vespino" che ammazzano uno davanti al bar. Ed è inquietante che neppure 24 ore dopo, il ministro dell´interno si sbilanci dicendo che la pistola è la stessa che ha ucciso D´Antona, perché è impossibile dimostrarlo così in fretta. E se lo dici ed è vero, è perché lo sai». freccia rossa che punta in alto

La Stampa

Continuano le perquisizioni. Dopo le prime trenta a Bologna e Firenze, i Ros dei carabinieri sono in azione a Roma, Napoli, Milano e nelle carceri degli irriducibili. «Sono perquisizioni mirate, non andiamo a caso», spiegano gli investigatori, che nel mirino hanno quelle aree sospettate di essere vicine alle Brigate rosse e ai Nuclei di Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria, quelli dell´attentato dinamitardo allo Iai di via Brunetti a Roma, quelli della prima rivendicazione elettronica via e-mail, adottata con le stesse modalità dalle BR-PCC, che hanno firmato l´omicidio di Marco Biagi a Bologna. Nei siti Internet del movimento fa sapere di essere stato perquisito il Centro Azione Ricerca Comunista di Napoli. Altre perquisizioni colpiscono militanti di Iniziativa comunista, il gruppo già finito nelle indagini dopo l´omicidio di Massimo D´Antona. I carabinieri cercano chi ha fatto il salto di qualità passando alla lotta armata, chi ha dato supporto logistico al commando entrato in azione in via Valdonica e chi ha fornito il know-how per inviare la rivendicazione via Internet, cercando di scomparire poi nella rete. «Sono persone che hanno un bagaglio di conoscenze tecnologiche ed informatiche altamente sofisticate», ammettono gli investigatori che stanno stendendo la relazione tecnica destinata alla scrivania del pubblico ministero romano Saviotti e al pool di magistrati di Bologna che però, formalmente si occupa solo della dinamica dell´omicidio. Solo di quello che è successo in via Valdonica martedì sera, dei giorni precedenti nella stessa strada quando c´era in azione più di un basista, e dei minuti successivi, quando il commando si è dato alla fuga in scooter scomparendo nel dedalo di viette del ghetto di Bologna. Ancora una volta i carabinieri cercano di ricostruire nei dettagli gli ultimi minuti di Marco Biagi. Che esce dall´università di Modena e si avvia alla stazione ed è già seguito. Che arriva a Bologna alle 19 e 37, con qualche minuto di ritardo sul previsto e si attarda in biglietteria prima di andare alla bicicletta e pedalare verso casa. Sempre seguito da una coppia di persone, come si vede dalle telecamere a circuito chiuso in stazione. Le stesse che avvisano il commando armato di pistola calibro 9 corto, che aspetta in via Valdonica il collaboratore del ministro del lavoro, da mesi senza scorta e tutela. Al lavoro ci sono anche i tecnici della polizia che stanno cercando di dare un volto agli assassini e al basista, almeno sotto forma di identikit. Un lavoro complesso perché ci sono molti testimoni e le loro versioni non sono concordi. Lo conferma anche il procuratore reggente Luigi Persico: «L´ipotesi di un supertestimone è azzardata e infondata». Alla ricostruzione partecipa anche Francesco Biagi, il figlio maggiore del professore assassinato, che era rientrato a casa pochi minuti prima del padre, quando il commando era forse già appostato. Tutti dicono che i killer avevano caschi integrali. Solo uno giura di averne visto almeno uno in faccia mentre si abbassa la visiera, anche se per pochissini secondi. freccia rossa che punta in alto

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