Maggio 2002
9 Maggio 2002 - (Liberazione) Quei gladiatori sulle tracce di Moro
A ventiquattro anni dal sequestro e dall'assassinio di Aldo Moro, la vicenda legata alla tragica scomparsa dell'ex presidente della Dc si arricchisce di nuovi quanto inquietanti particolari. In un documento (numero di repertorio 122627), autenticato dal notaio Pietro Angozzi, di Oristano, si legge che il 2 marzo 1978 e cioé 14 giorni prima del rapimento dell'onorevole Aldo Moro e dell'uccisione della scorta, la X divisione S. B. (Stay Behind) della direzione del personale del ministero della Marina, a firma del capitano di Vascello, capo della divisione stessa, inviava un "gladiatore" (G-71) - ed effettivamente partito da La Spezia il 6 marzo sulla motonave Jumbo M - a Beirut. Oggetto: consegnare documenti all'agente G-219 (presumibilmente identificabile nel colonnello Ferraro, rimasto vittima nel 1995 di uno strano suicidio), lì dislocato e dipendente dal capocentro G-216 (il colonnello Stefano Giovannone), affinché prendesse contatti con i movimenti di liberazione del Medio Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Aldo Moro. A portare materialmente il plico a Beirut è Antonino Arconte (sigla G-71) ed è grazie a questo "gladiatore" che tutti i documenti a «distruzione immediata» sono invece rimasti arrivati ai nostri giorni. Se a tutto ciò si aggiunge poi il fatto che Aldo Moro sarebbe stato colui il quale impartiva gli ordini al comandante di Gladio, i contorni della vicenda acquistano una connotazione ancora più sconvolgente. Arconte riferisce questi fatti in un memoriale dal titolo "La vera storia di Gladio" (htpp://www. geocities. com/pentagon/4031), spiegando che questo rappresenta una sorta di assicurazione sulla vita: alcuni suoi commilitoni sono rimasti uccisi in missione o sono stati successivamente "suicidati" ed egli stesso è riuscito a sfuggire ad un "tentato suicidio" nel '93. Aquile, Lupi e Colombe Ma procediamo con ordine. Gladio è il nome dato in Italia ad una struttura segreta, collegata con la Nato e istituita nel dopoguerra con la denominazione "Stay Behind" (stare indietro), che aveva il compito di attivare una resistenza armata in caso di invasione sovietica. L'esistenza di questa struttura segreta venne scoperta nel 1990 e successivamente confermata pubblicamente, nel febbraio del 1991, dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Secondo quanto riferito in quell'anno dall'ex primo ministro italiano, la Gladio "Stay Behind" sarebbe stata composta da 622 membri civili i quali avevano il compito di svolgere operazioni dentro il territorio nazionale riguardanti attività informative a carattere difensivo e sotto le direttive della Nato. Quella che racconta Antonino Arconte nel suo memoriale, invece, è tutta un'altra storia. Accanto alla cosiddetta Gladio "civile", infatti, sarebbe stata istituita nel nostro Paese una struttura armata dei servizi segreti militari, tenuta per 50 anni nascosta, che avrebbe operato al di là dei confini italiani attraverso un attività regolata da direttive nazionali e non dalla Nato. Nel memoriale, Arconte spiega che Gladio era in realtà divisa in tre centurie. «La Prima Centuria era chiamata Aquile, erano cioé aviatori, alcuni paracadutisti della Folgore - scrive Arconte - La Seconda Centuria era chiamata Lupi, io appartenevo a questa, composta da quelli provenienti dalla Marina e dall'esercito. Poi c'era la Terza Centuria detta Colombe. Non era composta da militari ma da civili, anche donne, che dovevano fare da supporto per le informazioni». Per conto dello Stato italiano, il "gladiatore" G-71 avrebbe partecipato a diverse operazioni estere: dalle repubbliche dell'Est comunista al Nord Africa, dal Sahara spagnolo al Vietnam. Arconte rivela, tra l'altro, del ruolo svolto dai nostri agenti segreti armati in Maghreb per la destituzione del presidente Burghiba. G-71 racconta anche di aver ricevuto un riconoscimento formale da parte di Bettino Craxi il quale lo avrebbe invitato, come si evincerebbe da documenti, a tacere per il bene del Paese. L'attività di questa Gladio si svolgeva presso il ministero della Difesa, direzione generale Stay Behind-personale militare della Marina e la mobilitazione dei gladiatori avveniva tramite Consubin (comando subaquei incursori di La Spezia). Un'attività segreta così come quella degli Ossi (operatori speciali servizio informazioni, alle dipendenze di Gladio) che operavano armati e i cui compiti due pronunciamenti della magistratura hanno ritenuto essere eversivi dell'ordine costituzionale. -- Interrogativi inquietanti -- Gli interrogativi che si aprono con questo documento che dà ordini ad agenti di Gladio - 14 giorni prima che si verificasse la strage di Via Fani, dove sono morti 5 agenti: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi - sono altamente inquietanti. Cominciamo dal primo e più evidente: la strage poteva essere evitata e che cosa c'entrava Gladio? Perché solo oggi, a 24 anni di distanza veniamo a sapere che c'era stato un preavvertimento? E da quale fonte proveniva questo preavvertimento? Chi non ha agito in conseguenza per evitare la strage? E tutto questo era veramente così sconosciuto o c'era chi sapeva qualcosa? Non abbiamo già letto 10 anni fa su l'Observer qualcosa che ci riconduce alle riflessioni di oggi? E Gladio, cosa era veramente? Era solo una rete anti-invasione contro il nemico esterno o era anche qualche cosa d'altro? Aveva compiti di contatto con terroristi medio-orientali, cioè quei terroristi presso cui si addestravano in parte le Br? E questa Gladio (o parte di Gladio) operava presso il ministero Difesa Marina e dava ordini in nome del Ministero con tanto di carta intestata alla 10ª Divisione S/B (Stay Behind)? E il reclutamento/mobilitazione dei gladiatori avveniva attraverso il comando subacquei incursori (Comsubin) di La Spezia, la segretissima sede che era stata la culla della 10ª Mas? Chi ha affidato a Comsubin compiti certamente non previsti dall'ordinamento militare della difesa? E questa Gladio si avvaleva di un servizio informazioni, praticamente clandestino, finora sconosciuto, il Simm (Servizio Informazioni Marina Militare) e chi gestiva questo servizio? E quali erano i compiti della 10ª divisione Stay Behid e delle tre sezioni su cui operava? E da chi prendeva ordini il capo della 10ª Divisione S/B di Maripers dipendente dal Ministero della Difesa? A Gladio erano anche affidati compiti di destabilizzazione all'estero, di guerriglia, cioè di guerra non ortodossa, mentre come è noto le operazioni di guerriglia e controguerriglia sono oggetto di varie "serie dottrinali" dell'esercito a partire dalla 300 del 1950 per poi passare alla 600 del 1956, alla 700 del 1963 e alla più recente, la 900? A che titolo Maripers emanava disposizioni operative a militari, compresi tenenti e capitani, con ordini che dovevano rimanere nascosti, cioè "a distruzione immediata". L'esistenza di questa componente delle forze armate veniva resa nota ai presidenti della Repubblica che per la Costituzione hanno il comando delle forze armate? Certe problematiche di questo tipo sono già emerse a proposito della operazione Delfino del 1966 in cui erano state pianificate azioni terroristiche sulla carta e sono emerse anche a proposito del reparto Ossi, (reparto delle operazioni speciali di sicurezza e informazione) che due sentenze della Magistratura hanno dichiarato eversive dell'ordine costituzionale? Forse a questo si riferiva l'allora ministro delle Finanze Rino Formica ("La Repubblica", 5 dicembre 1990) quando affermò «nell'Italia repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento. Uno Stato democratico può certamente avere dei piani segreti, è suo dovere, ma non può assolutamente avere una milizia clandestina». Dicevamo che gli interrogativi che ci siamo dovuti porre sono ovviamente molto inquietanti, ma diventano ancor più inquietanti se riflettiamo su quanto leggemmo dieci anni fa su l'Observer del 7 giugno 1992 (riportato dal quotidiano La Stampa dell'8 giugno 1992) secondo cui Gladio non fu estraneo al rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse: «La più grande accusa contro Gladio è che vi ha operato o almeno non ha fatto nulla per prevenirlo». È proprio ciò che emerge dalle carte venute alla luce ultimamente. In Inghilterra era noto quanto non era noto in Italia? Questo è un ulteriore interrogativo che richiede risposta.
10 Maggio 2002: (Liberazione) Moro i dubbi di Andreotti
Giuseppe D'Agata: «Il senatore Martino faccia luce sul ruolo di Gladio»
«Nessuna copertura interna o estera sarebbe tollerabile, mentre in caso di falsità dovrebbero adottarsi le conseguenti misure». Anche a Giulio Andreotti deve essere venuto qualche dubbio sulla tragica fine dell'onorevole Aldo Moro e sul misterioso ruolo di Gladio. Il senatore a vita, preso atto dei documenti pubblicati ieri da Liberazione, ha presentato una interrogazione in cui chiede al ministro Martino di fare piena luce sulla vicenda. Del resto, se le note del ministero della Difesa - direzione generale Stay Behind venissero ritenute autentiche, andrebbe sicuramente riscritta la storia di questo paese. Una storia che vede Giulio Andreotti nominato presidente del consiglio quel 16 marzo 1978, con Francesco Cossiga al ministero degli Interni. Al gladiatore Antonino Arconte, infatti, numero di codice G-71, viene dato l'incarico di consegnare ai suoi superiori di Beirut un'autorizzazione a prendere contatto con i movimenti di liberazione del Medioriente, per ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione di Aldo Moro. Tutto normale, quasi scontato per un corpo segreto, se non fosse per il fatto che la data in calce al testo, con dicitura "documento a distruzione immediata", non fosse il 2 marzo 1978. E cioé ben quattordici giorni prima del rapimento del presidente della Dc. A riprova vi è anche un altro documento che segnala l'imbarco da La Spezia di G-71 con destinazione Beirut: datato 6 marzo 1978. «Credo sia indispensabile che il ministero della Difesa si esprima in proposito - afferma ora il senatore a vita in una nota alle agenzie di stampa - perché chi ha vissuto la tragedia del 1978 non può consentire equivoci al riguardo». Domande ancora senza risposta anche per Rifondazione comunista. «È vero che "Gladiatori" erano sulle tracce di Moro?» si chiede Gigi Malabarba, capogruppo senatori del Prc, con una interrogazione al presidente del Consiglio per conoscere «se i Servizi sapevano in anticipo del rapimento Moro e perché questo fatto non sia mai stato reso noto fino ad ora». Malabarba chiede inoltre di sapere «se esisteva un'altra Gladio o una componente della Gladio che operava alle dipendenze del ministero della Marina, Direzione del Personale, X Divisione S. B. (Stay Behind) e se Comsubin, comando subacqueo incursori della Marina, provvedeva alla mobilitazione dei gladiatori che operavano all'estero». Richieste per nulla peregrine alla luce dei documenti resi noti da Arconte, secondo i quali l'attività di questa Gladio veniva coordinata presso il ministero della Difesa ed indirizzata ad operazioni sul suolo italiano ed estero. «Ci troviamo di fronte all'ennesimo tentativo di intossicazione e depistaggio dell'opinione pubblica» replica Francesco Gironda, già portavoce dell'associazione italiana Stay Behind. Ma intanto già l'attività coperta degli Ossi (gli operatori speciali servizio informazioni, alle dipendenze di Gladio) è stata ritenuta eversiva dell'ordine costituzionale da due pronunciamenti della magistratura. Un ordine costituzionale quindi forse in pericolo anche per l'azione dei gladiatori: almeno se sarà provato che la struttura Stay Behind, pur essendo a conoscenza delle intenzioni delle Brigate Rosse di rapire Moro, non abbia avvertito gli organismi competenti. A cominciare dalla stessa presidenza del Consiglio. E senza dimenticare il tributo di sangue versato anche dai cinque agenti della scorta: che sarebbero stati mandati allo sbaraglio. Una vita sacrificata come quella del presidente della Dc, al quale fino all'ultimo venne rifiutata l'auto blindata. Un pericoloso precedente se facciamo riferimento alle polemiche sulla scorta negata al professor Biagi.
(Il Nuovo) Moro, Accame: Stay behind era stata avvertita
Nell'anniversario della morte dello statista Dc l'ex presidente della commissione Difesa cita documenti che starebbero per essere pubblicati negli Usa.
MILANO - "Il 2 marzo del 1978, Stay behind già sapeva del rapimento di Aldo Moro che sarebbe avvenuto solo due settimane più tardi. Lo dimostra il fatto che quel giorno inviò un suo agente a Beirut affinché i movimenti di liberazione in Medio oriente intervenissero sulle Brigate rosse ai fini della liberazione dello stesso Moro". Nel giorno del ventiquattresimo anniversario dell'uccisione dello statista democristiano, si riaccende la polemica sul suo sequestro per una clamorosa dichiarazione di Falco Accame, ex presidente della commissione Difesa della Camera. Che cita in proposito "nuovi documenti che stanno per essere pubblicati negli Usa".
- Giovanni Pellegrino, presidente di quella che fu la commissione parlamentari sulle stragi, è realista. È verosimile che i nostri servizi segreti sapessero del progetto di rapire Moro? "È ormai sicuro che la preparazione del rapimento dell'on. Aldo Moro fosse stata percepita anche fuori dei confini nazionali. E dunque non è affatto da scartare che ai nostri servizi segreti sia giunta qualche informazione ben prima dell'agguato di via Fani". Fu fatto il possibile per impedire il rapimento? "Non escludo che qualche segnale premonitore sia stato sottovalutato". Lei dunque non è sorpreso delle rivelazioni di Arconte? "Moro percepiva che attraverso contatti con organizzazioni terroristiche mediorientali si sarebbe potuto stabilire un contatto con gli uomini delle Br che lo tenevano prigioniero. Ed è provato che a tal riguardo abbia pensato al colonnello Giovannone, che aveva lavorato al suo fianco e che era il nostro referente a Beirut". Moro si fidava di Giovannone? "Sì, Moro si fidava di Giovannone. Era un uomo che, per intenderci, non avrebbe mai scritto il comunicato depistatore del lago della Duchessa". E del coinvolgimento di Gladio nella vicenda cosa ne pensa? "Se ne è parlato a più riprese. Un elemento di contatto mi sembra possa essere trovato nella fine di Argo 16. Per anni abbiamo sospettato i servizi segreti israeliani per la nota vicenda dell'attentato di Fiumicino. Ma con il passare del tempo questa pista ha perso consistenza. Forse la spiegazione è un'altra e da ricercare nell'uso che Gladio faceva di quell'aereo".
(La Stampa) RIVELAZIONI SU TRAME EVERSIVE, STRAGI E MISTERI DELLA PRIMA REPUBBLICA NEI DIARI DEL LEADER DC, DA LUNEDÌ NELLE LIBRERIE. LI ABBIAMO LETTI IN ANTEPRIMA - "TAVIANI i giorni dell´Italia in nero".
IL 27 giugno dello scorso anno, su ordine della Procura di Brescia, il reparto Antieversione dei Ros si presentò nella sede del Mulino, a Bologna, per sequestrare una copia dei diari di Paolo Emilio Taviani, morto nove giorni prima. Il senatore a vita - lo nominò Cossiga nel 1991 - aveva più e più volte, in diverse sedi, promesso rivelazioni sui misteri della Repubblica. Ne aveva in verità qualche titolo essendo stato grande capo partigiano, segretario della Dc, ras di corrente, ministro della Difesa e dell'Interno varie volte, nell'arco di un periodo cruciale, dagli anni cinquanta alla metà degli anni settanta. Ricevuta la visita dei Ros, il responsabile della sezione Storia del Mulino, Ugo Berti, dichiarò in ogni caso all'Ansa: "La pubblicazione procede regolarmente secondo i programmi. Nei prossimi mesi dell'anno prossimo il volume sarà in libreria". Eccolo, dunque: Politica a memoria d'uomo (445 pagine, 20 euro). In una delle ultime pagine, nel tirare le somme, Taviani scrive: "Fu guerra, calda o fredda, ma sempre guerra (...). Non sono sicuro di aver mai sbagliato. Per un uomo politico è già un successo salvarsi l'anima". Anche per mezzo dei diari. Per cui ecco subito quanto probabilmente interessava a magistrati e carabinieri. Taviani l'ha racchiuso in una quarantina di pagine. Piazza Fontana - di cui si occupò tornato al Viminale nel 1973 insieme con i vertici dell'Antiterrorismo (Santillo) e degli Affari Riservati (D'Amato) - offre la prima sorpresa. "La responsabilità della strage è interamente dell'estrema destra e in particolare di Ordine nuovo: uomini tecnicamente seri, collegati con settori deviati dei servizi segreti". La Cia non c'entra nulla, ma l'esplosivo, venne fornito a uomini di On da un "agente nordamericano" che proveniva dalla centrale tedesca e apparteneva al servizio segreto dell'esercito: "Assai più efficiente della Cia". In Italia qualcuno seppe e anzi cercò di evitare. Taviani racconta di un certo avvocato Fusco, con frequenti legami con il Sid, che la sera del 12 dicembre doveva andare a Milano per "recare il contrordine sugli attentati previsti". Ma a Fiumicino seppe della bomba. Poco dopo la strage, da Padova, un ufficiale del Sid raggiunse Milano "per sostenere il depistaggio sulla sinistra". La bomba non doveva, secondo Taviani, causare morti, come accadde a Roma. Lo deduce dal fatto che, "una volta verificato che nel crimine erano implicati anche alcuni uomini delle istituzioni, non è supponibile che essi cinicamente pensassero di uccidere tanti innocenti". A meno che gli esecutori abbiano poi "disatteso gli ordini ricevuti". A questa ricostruzione Rumor, Fanfani e Moro non vollero mai credere. Taviani al contrario, come "atto politico" e sulla base della sentenza ottenuta dal pm Occorsio, decretò lo scioglimento di Ordine nuovo. La fine della teoria degli "opposti estremismi" ebbe sanguinose conseguenze. Tornato al Viminale liquidò anche alcuni agenti e confidenti arruolati dal precedente ministro (Restivo); "servizi paralleli", si disse in seguito, erroneamente identificandoli con Gladio. Tali spezzoni divennero "schegge impazzite". Mario Tuti ne fu il tipico esponente. A questo ambiente para-golpista, Taviani imputa la strage dell'Italicus. Era il 1974. Ma pure sull'attentato di Bertoli il ministro ebbe il dubbio che l'"anarchico" venuto da Israele potesse essere stato aiutato dal Sid del generale Maletti, di cui ricorda che era "filo-israeliano" (mentre il generale Miceli era filo-arabo). Anche la strage di Brescia è collegata a On: "i carabinieri vi avevano infiltrato un informatore". La bomba era in realtà destinata all'Arma, per vendetta, ma per la pioggia i militi si erano spostati dall'area prescelta per l'esplosione. Il padre di Gladio Taviani si assume in pieno la responsabilità di aver fatto iniziare le indagini su Edgardo Sogno; e sostiene anche di aver duramente pagato la sua convinzione che le stragi fossero state "sicuramente ed esclusivamente di destra". Quando cadde il governo venne sostituito - e si riporta un vivace resoconto di come il sinedrio Dc, riunito a piazza del Gesù, distribuisse gli incarichi, con offerte, battute crudeli e sbattimenti di porta. Nel novembre del 1974 finirebbe in realtà il potere governativo di Taviani, l'uomo che in nome dell'atlantismo mise in piedi Gladio. Ma la sua influenza politica continua. Del tutto ingiustificata, la campagna contro l'organizzazione Stay Behind, a suo giudizio, venne aperta con l'obiettivo di contrastare Cossiga che aveva buone speranze di conquistarsi a picconate un secondo mandato presidenziale. In più - ed è una rivelazione - i comunisti sapevano non solo di Gladio, ma anche della base di Capo Marargiu: e questo perché l'aveva detto lui, Taviani, all'allora segretario Longo. Sulle Br, oltre a numerosi sospetti sui collegamenti con i seguaci di Secchia, è annotata una confidenza del generale Dalla Chiesa secondo cui nel 1977, e cioè pochi mesi prima del sequestro Moro, l'evasione di Prospero Gallinari "venne favorita con lo scopo di scovare Moretti". Sui servizi segreti esteri c'è un'abbondante aneddotica. Dall'idea di utilizzare la Stasi in funzione anti-Tito al Mossad che Taviani considera responsabile dell'attentato all'aereo Argo 16; dall'"ottusità" anticomunista della Cia all'"abilità" del Kgb, di cui pure nega che sia riuscito - come scritto nel dossier Mitrokhin - a mettergli una segretaria alle calcagna. Entrambi i servizi delle grandi potenze della guerra fredda, comunque, "convergevano a un medesimo risultato: mantenere l'Italia in tensione". Questo dunque - con inevitabile sintesi e conseguenti forzature di chi gli ha riservato una prima lettura - contengono più o meno le pagine più scabrose delle memorie tavianee. Un autentico tesoro per gli appassionati di trame e misteri. Ma i diari dei potenti, per fortuna, interessano anche gli storici e i normali lettori. E infatti sarebbe ingiusto ridurre questo volume, tra i più interessanti nella memorialistica della Prima Repubblica, a una sequela un po' paranoica di verità, sospetti, cospirazioni. Taviani si salva l'anima, infatti, anche raccontando in profondità il suo lungo tempo di leader e capocorrente democristiano. Gli anni avventurosi, ma indimenticabili della Resistenza, quelli che un giorno spingeranno Fidel Castro a rivolgerglisi come "colega en la experiencia guerrillera". Affrancarsi dal Vaticano Come pure l'austerità della Costituente, quel pasto di "pane, mele e un bicchiere di vino bianco" al primo congresso Dc. Le ramanzine di Sturzo, le "manovre" di Gedda, in sostanza la dura lotta sotterranea per liberarsi dalla tutela vaticana, la lettura tra le righe dell'Osservatore romano, il timore degli effetti che un certo discorso avrebbe suscitato sull'"Uomo Bianco", cioè il Papa. Timori a loro modo giustificati, e fino all'ultimo, se è vero che da Oltretevere non gli perdonarono di essere andato lui, come ministro dell'Interno, ad annunciare in tv i risultati del referendum sul divorzio. In più viene fuori il personaggio: gastronomo, amante della famiglia, celebre studioso di Colombo. Come ogni grande democristiano, è al tempo stesso spregiudicato e spirituale, per cui fa cose assai discutibili, le fa a fin di bene e le racconta pure. La volta che, da ministro, per far dimettere sul serio il tentennantissimo De Nicola da presidente della Corte costituzionale chiede ad alcuni suoi amici ex partigiani di appendere dei manifesti contro di lui nel quartiere di Napoli dove abita. Oppure la volta che per aggirare le difficoltà, si fa costruire dall'esercito un aeroporto a Lampedusa. O acquista - in Senegal! - un pacco di lettere (poi rivelatesi false) in cui Pio XII si rivolge chiaramente a una specie di fidanzata. Sfila nel diario tutto un mondo. De Gasperi pensoso, Dossetti irrequieto, La Pira ardente, Fanfani volitivo. E Nenni, e i comunisti. Ecco: a distanza di anni, davvero colpisce nei diari tavianei l'intensità con cui la Dc cerca a tutti i costi - e trova, non c'è dubbio - un rapporto di convivenza con il Pci. E di nuovo occorre tornare ai segreti rivelati se nel gennaio del 1955, in piena Guerra Fredda, i servizi italiani scoprono che l'Urss ha appena finanziato il pci con un cifra che corrisponde a 40 miliardi di oggi. Ebbene, in una riunione con Scelba e Martino, si decide di far finta di niente: "Abbiamo sempre detto che il Pci è pagato da Mosca. Ma dare pubblicità alle carte di quel finanziamento comporterebbe necessariamente mettere al bando il Pci. Dunque la guerra civile". Taviani arriva a corteggiare apertamente il Pci a metà anni settanta. Nel 1975 prova a convincere addirittura la Cia dell'affidabilità di Berlinguer; e l'anno dopo a Mosca sonda i sovietici se nel quadro della distensione sarebbero disposti a comprendere un governo che veda insieme Dc e Pci... Come poteva uno come lui, pure profeta inascoltato di Tangentopoli, comprendere quel che stava per accadere? Eppure "il nome di Di Pietro - scrive - è forse l'unico fra gli italiani degli anni novanta che rimarrà nella storia e non nella cronaca. Proprio come vi restò Giovan Battista Perasso detto Balilla. Con una differenza; che quest'ultimo, gettato il sasso, non pretese rimanervi nella storia, al punto tale che alcune balzane correnti storiografiche ne contestano l'identità". Riflessione tortuosa, ma efficace: molto democristiana.
16 Maggio 2002: (Il Nuovo)
- "I Nuclei comunisti combattenti hanno avuto un ruolo centrale perchè, in seguito alla ritirata strategica negli anni '88-'89, hanno messo in campo una progettualità per arrivare alla costruzione dell'organizzazione, danneggiata a suo tempo, ritrovando la capacità offensiva e, quindi, realizzando l'attacco al cuore dello Stato con l'omicidio di Massimo D'Antona nel '99 e quello di Marco Biagi nel 2002". Vincenza Vaccaro, imputata a Roma con altri 8 irriducibili Br per la rapina in via Prati di Papa del 14 febbraio '87 in cui furono uccisi due agenti di polizia, parla così davanti alla seconda Corte d'Assise . "Questa attività di rilancio delle Br - ha spiegato la Vaccaro - è stata espressa con le iniziative del '92 e del '94 (gli attentati alla Confindustria e al Nato Defence College a Roma, ndr) attraverso le quali gli Ncc hanno svolto un ruolo di avanguardia tipico dell'impostazione storica delle Brigate Rosse e cioè "agire dapartito per costruire il partito. Per arrivare poi, compiendoil salto di qualità, a creare una struttura per colpire iprogetti dominanti della borghesia, effettuando, così,l'attacco al cuore dello Stato". La Vaccaro ha, dunque, riconosciuto l'importanza dell'avanzamento fatto dagli Ncc"anche a livello teorico, nei contenuti strategici" e la lorocapacità di "proseguire nel periodo di discontinuità quandonon c'era più offensiva (perché la vecchia guardia era stataarrestata, ndr). I Nuclei sono riusciti ad assumere tutto ilpatrimonio storico delle Br e a collocarlo nelle contraddizionidegli anni Novanta". "È stato fatto - ha concluso - un salto poderoso in avanti nel '99 e, a maggior ragione, con l'omicidioBiagi. Non si può eliminare nel nostro Paese la progettualitàBrigate Rosse che è espressione del proletariato. Da parte nostra, rivendichiamo, perciò, tutto il percorso Br-Pccdall'inizio a oggi". La Vaccaro ha stigmatizzato, inoltre, la"mostrificazione in atto nei confronti dei detenuti irriducibiliche li vede come ideatori delle linee Br". Argomento trattato anche da Maria Castello e Savio Ravalli. "Dal '99 - ha affermato la prima - c'è una singolare campagnadi criminalizzazione di quella che è la tradizionale condottadai prigionieri politici di rivendicare, allo scopo dipresentarci come gli ispiratori dei delitti D'Antona e Biagi,legando così, la capacità di una proposta rivoluzionaria dirappresentare e far tornare a pesare gli interessi politici delproletariato, che in un periodo di scontro nel mondo del lavoropotrebbe trovare appoggio soltanto nell'attività delle Br". Dal canto suo, Ravalli ha parlato di "mitologia delleBrigate Rosse costruita negli ultimi 15 anni da interessidiversi", per passare poi a sottolineare come "le Br non sono unaccidente storico ma una organizzazione comunista combattente dicui rivendico tutto il percorso, compresi gli omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi". Rivendicazione ribadita dalla Castelli, da Stefano Minguzzi,Franco Grilli, Michele Mazzei, Tiziana Cherubini e Flavio Loriper il quale "le Br escono da questa fase ulteriormente rafforzate".
21 Maggio 2002: Il Nuovo - (di Gianni Cipriani)
Roma - Non c'era solo il professor Marco Biagi nel mirino delle Brigate Rosse. Nei mesi precedenti al 19 marzo, quando i killer sono entrati in azione a Bologna assassinando il consulente del ministro Maroni, i terroristi avevano analizzato e seguito le mosse di almeno tre o quattro diversi obiettivi. La decisione finale di uccidere Biagi, alla fine, è stata presa perché il professore bolognese, tra le vittime predestinate o potenziali, era alla fine quello che tra i relativi rischi che si correvano dopo la revoca della scorta e l'enorme impatto che avrebbe suscitato l'azione, avrebbe garantito il maggior successo politico per l'organizzazione. Non solo. C'è la certezza che adesso le Br-Pcc sono più forti, ramificate in più colonne o cellule nel territorio. E se tra l'omicidio D'Antona e quello Biagi sono stati necessari tre anni perché i terroristi potessero riorganizzarsi e colpire di nuovo, ora il margine si è ridotto di molto e i brigatisti potrebbero tornare in azione anche in sette-otto mesi. Chi ha fatto queste valutazioni? Sono stati gli analisti del Sisde, il servizio segreto civile che si occupa della sicurezza interna. Analisi che sicuramente preoccupano, ma purtroppo la morte di Biagi ha dimostrato che l'omicidio D'Antona del 1999 non era l'ultimo colpo di coda. Ma l'inizio di una nuova e lunga stagione eversiva. Una nuova ripresa brigatista, quella che dalla cosiddetta "fase di ricostruzione" delle forze rivoluzionarie e proletarie - che è ancora in atto - secondo gli ideologi del partito armato dovrebbe portare alla costituzione del "partito comunista combattente". Ora c'è un maggior attivismo e una maggior organizazione militare. Anche per questi i nostri 007 sono certi che nei mesi scorsi una serie di personalità fossero messe "sotto inchiesta" da parte dei terroristi, desiderosi di mettere a punto un "pacchetto" di vittime potenziali, perché la valenza politica degli obiettivi si coniugasse con quelle esigenze di "flessibilità criminale" che da sempre hanno regolato la realizzazione degli attentati. Insomma: c'erano e ci sono liste di "nemici del popolo", cui attingere al momento dell'azione secondo il criterio della più cinica convenienza secondo la logica del rapporto rischio/risultato. Del resto si tratta di un cinismo che viene da lontano: basti ricordare che dopo l'assassinio di Roberto Ruffilli, si scoprì che gli assassini avevano stilato un lungo elenco di potenziali vittime, quasi tutte con caratteristiche simili a quelle del politologo democristiano artefice del dialogo con il Pci sul tema delle riforme istituzionali. Le analisi del Sisde, ad ogni modi, si muvono su tre piani molto interessanti, che vale la pena analizzare singolarmente ORGANIZZAZIONE - Chi sono oggi i brigatisti? Le indagini sono molti difficili, anche perché si tratta di poche persone che seguono rigidamente le regole della clandestinità, ovvero non sono ancora state "bruciate". Ad ogni modo il nucleo di base dovrebbe essere formato dai vecchi quadri delle Br-Pcc che sono sfuggiti alle ultime due grandi operazioni anti-terrorismo del 1988 e del 1989: ci sono gli "irriducibili" che hanno fatto perdere le loro tracce in Francia nella prima metà degli anni Novanta; ci sono i fiancheggiatori sfuggiti alle retate, i cosiddetto "contatti" che nel frattempo sono cresciuti. Ci sono infine - come gli stessi brigatisti hanno chiaramente scritto nei loro documenti - i componenti dei Nuclei Comunsti Combattenti, ossia l'organizzazione che negli anni Novanta firmò due mini-attentati, tenendo acceso il lume terrorista durante il primo periodo della "fase di ricostruzione". A questi vanno aggiunti cooptazioni di giovani reclutati nell'ambito di quel circuito internazionale che lottava "contro la repressione" e per il rilascio dei "prigionieri politici", diventato - in parte, ovviamente - terreno di coltura di coloro che progettavano il rilancio delle Br-Pcc. INFILTRAZIONI NEL SINDACATO - In questo caso il ragionamento è complesso. Già subito dopo l'omicidio D'Antona si è ipotizzata l'esistenza di "talpe" nel ministero del Lavoro o all'interno dei sindacati. Tra l'altro, più delle rivendicazioni D'Antona e Biagi, è stato il documento dei Nipr dell'attentato di via Brunetti quello con notizie che potevano essere note solo agli "addetti ai lavori". Le parti sindacali dei due documenti Br, per quanto ben fatte, non contenevano notizie particolarmente riservate o ignote ad un attento lettore della stampa specializzata. Piuttosto, gli 007 del Sisde sono giunti alla conclusione che le logiche dei documenti D'Antona e Biagi sono assai diverse rispetto a ciò che avrebbe affermato qualsiasi quadro (anche il più rivoluzionario) cresciuto in ambito Cgil, Cisl e Uil che si pone sempre il problema dell' "obiettivo intermedio" da raggiungere. Insomma, la "talpa" può esserci, ma non andrebbe cercata nel sindacato confederale. RISCHI FUTURI - Un nuovo attentato all'inizio del prossimo inverno. L'obiettivo scelto tra persone inserite nelle dimaniche del mondo del lavoro, ovvero tra appartenenti agli "apparati repressivi" che sono parte integrante del potere imperialista. Tra l'altro l'area di consenso intorno alle Br-Pcc è di nuovo in crescita. E secondo gli analisti l'organizzazione, anche sotto il profilo militare, ha fatto grossi passi avanti. Ci sarebbe già un abbozzo di articolazione sul territorio. Sono ancora pochi, ma determinati e pericolosi.
22 Maggio 2002: (Tratto da Misteri d'Italia) - OMICIDIO BIAGI: QUANTE STRANEZZE IN QUELLE INDAGINI...
Che l'inchiesta - coordinata dal procuratore reggente di Bologna Persico - fosse partita con il piede sbagliato era sotto gli occhi di tutti: dinamiche dell'omicidio ricostruite, con eccesso di presunzione, a botta calda; presunti identikit degli assassini che piovevano sulle scrivanie degli investigatori a getto continuo (basti pensare che ne sono stati disegnati ben 17); identità tra armi che hanno sparato a distanza di tre anni spacciate come verità rivelate. Ora - a bocce ferme - l'inchiesta sul delitto di Marco Biagi, assassinato a Bologna il 19 marzo scorso, sembra assumere una dimensione meno emotiva e più riflessiva. Ma pur sempre confusa. Il rapporto che nei giorni scorsi la polizia ha consegnato al nuovo procuratore di Bologna, Di Nicola se da un lato rappresenta una nuova base di partenza, dall'altro è illuminante degli errori commessi nell'imminenza del delitto. Secondo il rapporto, ad aspettare Marco Biagi sarebbero state tre persone (e non due come sostenuto dai carabinieri), tutte di sesso maschile, due con il volto coperto da un casco integrale a bordo di un motorino, il terzo a piedi, con il volto scoperto. Il problema - non da poco - è che ancora non è chiaro se a sparare siano state due armi oppure una sola. Inoltre il rapporto della polizia smentisce quello dei carabinieri del RIS perché sostiene che in via Valdonica, quella sera, furono esplosi più dei cinque colpi di pistola indicati dagli esperti della scientifica dell'Arma. C'è poi la questione della fretta estrema con cui fu decretata l'identità dell'arma usata a Bologna contro Biagi con quella usata a Roma, tre anni prima, contro D'Antona. Come mai - hanno fatto notare molti esperti - a Roma non furono trovati bossoli e a Bologna i bossoli repertati sono stati cinque? Non è questa la dimostrazione che a Roma è stata impiegata una pistola a tamburo e a Bologna un'automatica che espelle i bossoli. Come possono essere identiche due armi tanto diverse? Su questo intoppo alla tesi dell'identità d'arma che serve a chiudere la partita (stessa arma, stesso gruppo di fuoco, nessun mistero dietro all'omicidio Biagi) il rapporto della polizia viene in soccorso alle tesi dei carabinieri, con un'arditissima ricostruzione. Eccola: uno dei testimoni (sarebbero sei, in tutto discordanti, ma ciascuno avrebbe captato un particolare che servirebbe da tassello per ricomporre il mosaico!!!) avrebbe notato "un rigonfiamento", "un prolungamento" nel braccio del killer di Biagi. Quella strana cosa sarebbe stato un sacchetto applicato alla pistola per poter raccogliere i bossoli, così come - dice ancora il rapporto - sarebbe avvenuto in via Salaria durante le fasi dell'omicidio D'Antona. Ecco spiegato perché a Roma bossoli non ne furono trovati: vennero raccolti nel sacchetto applicato all'arma. A Bologna, però - sostiene ancora il rapporto - il sacchetto inceppò la pistola, il killer dovette liberarla dal sacchetto e i bossoli dei colpi successivi finirono a terra. Ecco perché - contro Biagi - secondo la polizia furono sparati più dei cinque coli repertati, invece, dai carabinieri. Insomma l'inchiesta sul delitto Biagi continua, ma sembra più indirizzata ad aggiustare le incredibili tesi dell'immediato che a delineare una prospettiva di lavoro concreta per il futuro.