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Roberto bartali.it

Settembre 2002

2 Settembre 2002: (Tratto da "Misteri d’Italia")
TERRORISMO: ESTRADIZIONE PERSICHETTI. MA CHE BRILLANTE OPERAZIONE...

"Al di là del grande clamore e anche se il presidente del Consiglio si è congratulato per la brillante operazione, mi auguro che le prossime operazioni o arresti siano davvero brillanti e che intervengano in seguito a serie indagini". Così l’avv. Rosalba Valori, legale di Paolo Persichetti, subito dopo l’arresto dell’ex brigatista rosso, accusato di aver preso parte all’assassinio di Licio Giorgieri. La dichiarazione dell’avv. Valori ha un merito: quello di dire che "il Re è nudo". Il Re in questione è il sistema investigativo e giudiziario italiano, assolutamente incapace, dopo oltre tre anni, di imboccare una qualsiasi pista, minimamente credibile, per il delitto Massimo D’Antona; assolutamente inerme di fronte all’omicidio di Marco Biagi. Il Re è anche la nostra intelligence, capace di disegnare scenari allarmanti che anche un bambino saprebbe tracciare, ma assolutamente inefficiente quando si tratta di sviluppare un’analisi di quello che è, oggi, il nuovo terrorismo. Il Re, però, sa esultare per "la brillante operazione" quando i cugini francesi gli consegnano impacchettato con tanto di fiocco, un ex terrorista che viveva non in clandestinità, ma con una cattedra di insegnamento a Parigi e che all’ombra della Tour Eifel non si nascondeva, ma viveva pubblicamente. Ormai privo di ogni capacità investigativa se non arriva il "pentito" di turno, ora il Re si lancia in interpretazioni a dir poco ridicole: Persichetti potrebbe essere la mente delle nuove BR. Non c’è nulla da fare: "il Re è davvero nudo". Il guaio è che non se ne vergogna. freccia rossa che punta in alto

6 Settembre 2002 - (Corriere della Sera)

- Sono una trentina i latitanti per i quali l’Italia si appresta a sollecitare l’estradizione dalla Francia. I nomi di dodici di essi saranno consegnati nelle prossime ore al ministro della Giustizia Roberto Castelli: gli uffici di via Arenula hanno chiesto alle procure generali di Roma e Milano di inviare urgentemente relazioni sullo stato delle loro pendenze. Al Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo si sono occupati, tra gli altri, delle posizioni dell’ex leader di Potere Operaio e di Autonomia Operaia Oreste Scalzone e di Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi insieme con Adriano Sofri ed Ovidio Bompressi. Nella Capitale i magistrati hanno dovuto riesaminare i fascicoli del cosiddetto processo «Moro Ter» relativi a sei esponenti delle Brigate Rosse condannati per delitti commessi a Roma tra il 1978 ed il 1983: la «talpa» della Camera Giovanni Alimonti, Enrico Villimburgo, Stefano Petrella (omicidio del «pentito» Patrizio Peci), Enzo Calvitti (uno dei vecchi capi della colonna romana delle Br), Roberta Cappelli e Maurizio Di Marzio. Sono questi gli estremisti per i quali, al termine dello «screening» effettuato al ministero della Giustizia, si è stabilito che esistono ancora fondate possibilità di poter ottenere il via libera per il rientro in Italia come è avvenuto per Paolo Persichetti. Durante l’incontro svoltosi mercoledì a Parigi tra una delegazione del ministero della Giustizia e i colleghi francesi sono stati esaminati i vincoli che impediscono l’estradizione della maggior parte degli oltre 70 terroristi che da anni vivono nel paese transalpino. Per una quarantina di loro, condannati definitivamente dai nostri giudici per reati come banda armata o associazione sovversiva prima del ’92 a pene inferiori ai 5 anni, è scattata la prescrizione. Per gli altri, accusati di omicidi e sequestri di persona, è ancora possibile l’estradizione: su Di Marzio e la Cappelli c’è già stata, nel maggio del ’95, la pronuncia della Cassazione francese che ha respinto i loro ricorsi. Ed a Calvitti sono interessati i magistrati romani che indagano sull’assassinio di Massimo D’Antona. Decisivo per il destino dei latitanti sarà l’incontro in programma l’11 settembre tra il Guardasigilli Roberto Castelli ed il ministro della Giustizia francese Dominique Perben. Da Parigi fanno sapere che si deciderà «caso per caso» mentre Scalzone non esclude un rientro in Italia «se servisse a qualcosa: sarebbe il male minore - ha detto - rispetto all’atto di sottomissione rappresentato dal restare in Francia accettando l’ospitalità di un Paese che ha tradito la parola data». freccia rossa che punta in alto

8 Settembre 2002: (Corriere della Sera)

- Un furto di pistole ricomparse sul «mercato nero» di un Paese dell’Est europeo, vendute insieme a silenziatori artigianali e proiettili, e tre volti filmati dalle telecamere installate alla stazione di Bologna, ai quali si cerca di dare un nome. A quasi sei mesi dall’attentato contro Marco Biagi, la caccia agli assassini ottiene i primi riscontri concreti. E punta sugli elementi che un pool di investigatori ha ricavato esaminando centinaia di filmati e di documenti sul traffico d’armi. Indizi che coincidono con le analisi tecniche condotte dai reparti specializzati di carabinieri e polizia. Un dato su tutti: la pistola che ha ucciso il consulente del ministero del Welfare e prima di lui il professore Massimo D’Antona è quasi certamente una Makarov calibro 9, arma di fabbricazione sovietica. L’indagine si stringe sul gruppo di fuoco delle nuove Brigate Rosse e ha trovato ulteriori spunti nel racconto, puntuale e dettagliato, di un testimone che al momento degli spari fu bloccato in mezzo alla strada da due uomini del commando. L’ARMA - La pista che porta all’Est è stata individuata un paio di mesi fa, quando un informatore ha parlato di un lotto di pistole Makarov rubate e poi rivendute clandestinamente. In realtà sul mercato sono stati venduti kit completi con una rivoltella calibro 9 con la canna modificata in maniera tale da poter montare un silenziatore artigianale, il «moderatore di suono», e i proiettili di marca cecoslovacca Sellier & Belliot, proprio quelli che hanno colpito D’Antona e Biagi. È stato l’esame comparato delle ogive a fornire la certezza che la pistola utilizzata nei due attentati fosse la stessa: uguali le rigature, identici i segni lasciati dalla canna. «I due bossoli - spiega un inquirente - sono stati messi contemporaneamente sotto il microscopio. L’esperimento prevede che uno resti fermo e l’altro giri su stesso fino a combaciare. È proprio quello che è avvenuto: all’improvviso sembrava di analizzare un unico proiettile». Mentre per il delitto del consulente del ministro Bassolino gli esperti hanno a disposizione soltanto un proiettile estratto dal corpo della vittima, a Bologna i killer hanno abbandonato in terra anche i bossoli. Gli investigatori hanno il forte sospetto che l’arma provenga da quel lotto rubato. Hanno già effettuato i confronti con alcune Makarov sequestrate nei mesi scorsi, ma nessuno ha avuto esito positivo. Ora continuano a «battere» l’ambiente dei trafficanti che importano pistole e fucili dall’Est europeo. I VOLTI - I brigatisti hanno seguito Marco Biagi per oltre un mese, alternandosi nei pedinamenti. Gli stavano dietro sui treni tra Modena e Bologna e poi, una volta arrivati in stazione, lo «accompagnavano» fin sotto casa, per studiarne orari e abitudini. Erano almeno tre gli uomini che hanno condotto l’ inchiesta sul consulente del ministro Maroni. Gli investigatori ritengono di aver individuato i loro volti attraverso i filmati delle telecamere a circuito chiuso e sembrano essere sulla pista buona per dare loro anche un nome. Tra le migliaia di persone che ogni giorno transitano nello scalo ferroviario emiliano, li hanno notati perché facevano lo stesso percorso e soprattutto perché almeno uno restava fermo all’arrivo del treno da Modena, quello che il professore prendeva per tornare a casa dopo le lezioni all’università. Erano lì anche la sera del 19 marzo scorso. Ma da quel giorno non si sono più visti. Dopo la strage del 2 agosto 1980, il Comune di Bologna ha installato un centinaio di telecamere per riprendere ogni angolo della stazione. Tutte le registrazioni vengono poi conservate in un archivio. Gli investigatori hanno visto e rivisto centinaia di filmati: per un mese almeno uno dei tre giovani è stato inquadrato quando c’era anche Biagi. Raggiunta questa certezza, sono andati avanti. Esaminando gli spostamenti dei tre, si sarebbero convinti che vivono in Emilia Romagna. La fase più difficile della ricerca è iniziata subito dopo: associare i volti a nomi. Un’attività di intelligence condotta anche con il contributo degli agenti «infiltrati» nelle aree dell’antagonismo più radicale. IL COMMANDO - Non più di quattro persone, tutti uomini. Incrociando i racconti dei testimoni, gli investigatori hanno ridisegnato la scena del delitto assegnando ruoli e posizioni ai componenti del gruppo di fuoco. Fondamentali per ricostruire la dinamica dell’agguato sono state le dichiarazioni di un professionista che, assieme alla figlia, transitò in via Valdonica al momento dell’attentato. Il 21 marzo, due giorni dopo, l’uomo si presentò dai carabinieri. «Soltanto adesso - disse - sono riuscito ad associare quello che avevo visto a quanto è successo. E mi sono ricordato che, quando ho svoltato in macchina per percorrere via Valdonica, sono stato costretto a fermarmi perché in mezzo alla strada c’erano due uomini che non facevano passare. Mi sono arrabbiato e quindi mi sono soffermato a guardarli. Uno aveva tra i 45 e i 50 anni e indossava una tuta da meccanico. Mi ha insospettito: pur essendo ormai le otto di sera, quella tuta era perfettamente pulita. Accanto a lui c’era un ragazzo. Credevo che gli si fosse fermata la macchina, poi gli ho detto di spostarsi. In quel momento ho sentito i colpi e li ho visti allontanarsi in fretta». In base a questo racconto e a quello fornito dagli altri testimoni, gli investigatori ritengono che i due avessero proprio il compito di impedire il transito per lasciare via libera al killer e al quarto complice che gli era accanto. Nessuna certezza esiste invece sul fatto che l’assassino e il suo «appoggio» siano fuggiti in motorino. Nonostante le affermazioni di una persona che ha detto di aver notato due giovani sfrecciare a bordo di uno scooter, il mancato ritrovamento del mezzo fa propendere per l’ipotesi che il commando si sia dileguato a piedi in quel dedalo di stradine che circondano la casa del professore. Oltre a quella della pistola, inquieta invece un’altra analogia con il delitto D’Antona. Anche in quel caso del gruppo di fuoco facevano parte alcuni giovani guidati da un uomo più anziano. «Gli identikit non coincidono - spiega un investigatore - ma le modalità sono identiche». freccia rossa che punta in alto

9 Settembre 2002: (Corriere della Sera)

- Marco Biagi si sentiva minacciato da qualcuno che gli era vicino. Le sue ossessive invocazioni di aiuto nascondevano probabilmente il sospetto che il pericolo arrivasse dal suo entourage di lavoro. È la pista imboccata dagli investigatori che lavorano per individuare le «menti» delle nuove Brigate Rosse, i componenti della «direzione strategica» che ha ordinato la ripresa della lotta armata contro lo Stato. Un’indagine complicata, resa ulteriormente difficile dalle valutazioni diverse degli esperti dell’antiterrorismo. Mentre le indagini sul commando che ha ucciso il consulente del ministro Maroni convergono in un’unica direzione, gli accertamenti sui mandanti percorrono infatti strade differenti. E dividono le «squadre» che ormai da oltre tre anni, cioè dopo l’omicidio di Massimo D’Antona, si dedicano esclusivamente a queste inchieste. Irriducibili detenuti, terroristi latitanti all’estero, nuovi gruppi: anche all’interno della stessa Arma dei carabinieri le ipotesi su chi abbia organizzato gli attentati continuano a essere almeno due. Sul tavolo dei magistrati bolognesi c’è da qualche settimana il rapporto dei Ros che individua in «Iniziativa comunista» la direzione strategica dell’eversione. I comandi territoriali dell’Arma si muovono invece su altri ambienti, percorrendo la strada che porta all’ambiente del sindacato più radicale, ma anche agli estremisti in contatto con il mondo universitario. Un’indagine che prende spunto proprio dalle denunce presentate da Marco Biagi dopo la decisione di revocargli la «tutela». «Analizzando l’atteggiamento del professore - spiega un investigatore - riteniamo possibile che si sentisse minacciato da qualcuno che gli era vicino e che non abbia avuto la forza o il coraggio di denunciarlo. Probabilmente temeva di non essere creduto e così aveva deciso di limitarsi a parlare delle telefonate anonime, sperando poi che fossero gli inquirenti a imboccare la pista giusta». Non a caso le indagini sulla mancata scorta si concentrano non solo sulle eventuali omissioni di chi aveva il compito di tutelarlo, ma anche sulla ricostruzione di tutte le intimidazioni ricevute, comprese le telefonate che risultano partite dal suo ufficio all’Università. Distanti restano anche le valutazioni sul ruolo di chi non è mai stato catturato. Mentre secondo il Ros «nelle nuove Br-Pcc non militerebbero i noti latitanti, ma esclusivamente i soggetti di estrazione Ncc (Nuclei comunisti combattenti n.d.r. ) indagati», le indagini della polizia continuano a concentrarsi su chi ha fatto perdere le proprie tracce varcando la frontiera tra Italia e Francia molti anni fa. Una tesi condivisa dagli 007. Nell’ultima relazione semestrale, i servizi segreti scrivono che «la direzione strategica delle nuove Br è in parte attiva oltre confine». E non fanno mistero di riferirsi a quelle che sono diventate le primule rosse dell’eversione: Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. Elemento chiave della caccia alle nuove «menti» brigatiste rimane poi il ruolo dei detenuti e dunque la lettura dei documenti di rivendicazione degli omicidi D’Antona e Biagi firmati dagli «irriducibili» reclusi nelle carceri di Novara, Latina, Trani e Biella. «Con l’omicidio di Massimo D’Antona - si legge nel rapporto del Ros - i Nuclei comunisti combattenti si sono autolegittimati ad assumere la denominazione Br-Pcc, venendo a posteriori riconosciuti dagli stessi brigatisti detenuti». «A posteriori»: è questo l’inciso che divide gli esperti dell’antiterrorismo. Se infatti una parte di loro sembra convinta che chi è in carcere non sapesse nulla di una ripresa della lotta armata, altri ritengono più probabile che il via libera a nuovi anni di piombo sia arrivata proprio da chi si trova dietro le sbarre. Nell’analisi del documento di rivendicazione dell’omicidio di Massimo D’Antona, gli esperti della polizia scrivono: «Considerato che buona parte dell’elaborato è verosimilmente mutuata dalla pregressa produzione documentale carceraria,, redatta da detenuti irriducibili e divulgata attraverso il "Bollettino dell’associazione solidarietà proletaria" e la struttura dei Carc, i comitati di appoggio alla Reistenza per il comunismo, l’attenzione informativa va focalizzata anche verso tale area. È peraltro probabile che dette realtà, che hanno sempre sostenuto l’irriducibilismo brigatista, rappresentino i destinatari interni del documento e quindi i referenti privilegiati per il dibattito, il consenso e il reclutamento, nell’ottica della "ricostruzione"». freccia rossa che punta in alto

18 Settembre 2002 - (La Stampa)

- Ritorna in Italia un terrorista delle nuove Br L´Alta Corte svizzera dice sì: Bortone sarà estradato MILANO Dopo Paolo Persichetti, tocca a Nicola Bortone rientrare in Italia per scontare una condanna per fatti di terrorismo. Ieri la Corte Suprema Svizzera ha infatti concesso l´estradizione per uno dei nomi di spicco delle nuove Brigate Rosse, di cui è considerato tra i 9 fondatori. Irreperibile dal 1992, era stato arrestato proprio in Svizzera dalla polizia italiana lo scorso 10 marzo. Bortone, che ha 45 anni, è stato condannato dalla Corte d´Assise di Roma a 5 anni e 6 mesi per associazione sovversiva e banda armata, il 18 settembre 2001. Militante delle Br-Pcc (accusate degli omicidi Conti e Ruffilli), risultava inquadrato nella cosiddetta «Struttura Sud», insieme ad Antonio De Luca, Franco La Maestra, Simonetta Giorgieri (che era poi diventata sua moglie), Giuseppe Armanente, Marcello Tammaro Dell´Omo e Alberto Marino. Bortone era stato raggiunto da un mandato di cattura, emesso nel settembre 1989 dal giudice istruttore del Tribunale di Roma, per i reati di associazione sovversiva e banda armata. Era già stato arrestato in Francia, insieme ad altri brigatisti tra cui la Giorgieri, il 2 settembre del 1989, per associazione per delinquere, porto e detenzione illegali di armi, contraffazione di documenti amministrativi ed altri reati. In quell´occasione si era dichiarato «militante rivoluzionario». Il 23 aprile ´92 era stato condannato dal tribunale di Parigi a 3 anni di reclusione, con il divieto, per lo stesso periodo di tempo, di soggiorno in Francia. Al momento della scarcerazione non era stato però estradato e nemmeno espulso, ed aveva eletto domicilio in Francia. Il 3 settembre del ´92 si era sposato con Simonetta Giorgieri e dall´ottobre dello stesso anno risultava irreperibile insieme alla moglie. Il suo nome è tornato alla ribalta delle indagini sul terrorismo per i legami con alcuni esponenti della cellula romana individuata nel maggio del 2001 e sospettata di un coinvolgimento nel delitto D´Antona (oltre che della preparazione di un nuovo attentato). Secondo un rapporto del Ros dei carabinieri, Bortone avrebbe incontrato almeno un esponente di Iniziativa Comunista (in particolare, un contatto si sarebbe svolto a Milano in una stazione della metropolitana), con lo scopo di creare un´alleanza con le nuove leve del brigatismo. Ma in quella circostanza Bortone era riuscito a scomparire nel nulla. Forse in Francia, più probabilmente in Svizzera. Fino al 10 marzo scorso, quando era stato arrestato a Zurigo mentre faceva una telefonata a casa da una cabina pubblica. Al momento dell´arresto risultava impiegato in una ditta di pulizie negli studi di produzione di una televisione locale. Una richiesta di estradizione fatta dall´Italia era stata respinta in prima istanza da un tribunale federale svizzero, che aveva accolto gli argomenti del suo legale, l´avvocato Bernard Rambert. Ma il caso era quindi approdato all´Alta Corte elvetica, che lo ha esaminato per alcune settimane e ieri ha deciso per il suo ritorno in Italia. E´ stato invece trasferito da Rebibbia al carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno l´ex brigatista Paolo Persichetti, estradato dalla Francia il 25 agosto. «Non conosco le motivazioni della decisione presa dal ministero della Giustizia. Persichetti non ha un indice di pericolosità tale da giustificare il trasferimento in un supercarcere», ha commentato il suo difensore Rosalba Valori. «Persichetti ha la famiglia a Roma e questa nuova situazione crea disagi anche all´anziana madre che, per vederlo, dovrà recarsi in una zona non raggiungibile con i mezzi pubblici». Dopo la sua estradizione la magistratura romana ha aperto un procedimento per identificare eventuali responsabili che avrebbero favorito la sua latitanza, durata dieci anni. Perciò nei giorni scorsi sono stati sequestrati un rubrica telefonica, la carta di credito e alcuni telefoni cellulari che l´ex terrorista lasciò nell´ufficio matricola di Rebibbia al suo ingresso in carcere. 25 Settembre 2002: (La Stampa) - ROMA - Sette ergastoli sono stati inflitti ieri pomeriggio dalla seconda Corte d’Assise di Roma a un gruppo di brigatisti per un assalto di quindici anni fa a un furgone postale in via Prati di Papa a Roma che costò la vita a due agenti di polizia. Ma, prima della lettura della sentenza, due dei brigatisti condannati, gli «irriducibili» Stefano Minguzzi e Fabio Ravalli, dalle gabbie in cui erano rinchiusi durante il processo hanno voluto leggere due lunghi documenti che spiegavano la logica e l´utilità, nella logica del movimento, delle ultime due grandi operazioni delle Br: l´assassinio di Massimo D´Antona e poi di Marco Biagi. I due «irriducibili» si sono dichiarati ancora una volta «militanti prigionieri delle Brigate Rosse per la costruzione del partito comunista combattente» e hanno ribadito che «con i delitti di Massimo D’Antona e Marco Biagi, l’organizzazione ha posto una seria ipoteca contro il progetto corporativista della borghesia imperialista». L’omicidio di Biagi, in particolare, «ha indebolito l’esecutivo Berlusconi». Precisando di parlare anche a nome di altri militanti (Maria Cappello, Franco Grilli, Tiziana Cherubini, Flavio Lori, Vincenza Vaccaro, Michele Mazzei, e Antonino Fosso) tutti imputati davanti alla seconda corte d’assise della Capitale, hanno ricordato «che solo le Brigate Rosse hanno la legittimità storico-politica per prendere la parola sullo scontro di classe, il cui tipico esempio è stato dato da questo processo condotto stancamente e celermente in questa aula». Fabio Ravalli, in particolare, ha parlato di «lotta armata come soluzione proletaria alla crisi dell’economia borghese e imperialista dello Stato che vuole consolidare l’arretramento della posizione del proletariato». Nei due documenti sono state sottolineate più volte le responsabilità del governo Berlusconi, della Confindustria e delle agenzie private, primo filtro contro l’occupazione, che schiacciano le esigenze del proletariato. I due brigatisti hanno sottolineato lo scontro durissimo con cui si sta confrontando il proletariato, «scontro in cui il proletariato misura le proprie forze. Il 19 marzo c’è stato il solo modo per far pesare gli interessi di classe». I due documenti letti dai militanti delle Br sono stati acquisiti dalla Corte d’assise presieduta da Renato D’Andria mentre le parole suscitavano grande clamore nei palazzi del potere politico. «Non ci sono parole per esprimere lo sdegno per ciò che è avvenuto durante il processo ai brigatisti rossi accusati dell’omicidio di due agenti di polizia - ha commentato il ministro del Welfare, Roberto Maroni - Le parole oscene dei brigatisti non pentiti rinnovano il dolore profondo per la perdita di un grande uomo, ma aumentano la determinazione a far sì che le sue intuizioni, la sua intelligenza e il suo lavoro siano presto tradotte dal Parlamento in norme di legge atte alla modernizzazione del mercato del lavoro. Mi auguro - conclude Maroni - che la giustizia italiana sappia degnamente perseguire questi complici morali dei criminali che sei mesi fa ammazzarono selvaggiamente Marco Biagi». Il processo terminato ieri ha visto la condanna di Fabio Ravalli, Maria Cappello, Stefano Minguzzi, Francesco Grilli, Tiziana Cherubini, Flavio Lori e Vincenza Vaccaro per l´assalto in via Prati di Papa. Per un altro degli imputati, Tonino Fosso, accusato per gli stessi fatti, il Pm aveva chiesto il proscioglimento perchè era già stato giudicato e condannato all’ergastolo e la Corte d’Assise ha accolto la richiesta del pubblico ministero. Tutti gli imputati condannati sono già detenuti da tempo in seguito a condanne che riguardano la loro militanza nelle Br. La Corte d’Assise ha disposto l’isolamento per quattro mesi durante il giorno dei condannati, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, la decadenza della potestà di genitori. Alla madre di uno dei poliziotti uccisi che si è costituita parte civile verranno pagati 50 mila euro e 25 mila euro per un altro poliziotto che rimase gravemente ferito nell’agguato. Resta invece senza responsabili l’omicidio del generale della Nato Leamon Ray Hunt del 15 febbraio del 1984, per il quale erano imputati Barbara Balzerani e Paolo Cassetta che sono stati assolti dalla Corte d'Assise. freccia rossa che punta in alto

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