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Roberto bartali.it

Maggio 2003

7 maggio 2003 (Dagospia)
POLEMICA NEMBOKID-FASANELLA/ROCCA SUL MISTERIOSO INTERMEDIARIO
MORO PER SEMPRE - UN LETTORE - SUPEROE CHE LA SA LUNGA - CONTESTA LA TESI DI FASANELLA & ROCCA (CHE REPLICANO SUL MISTERO "GLADIOSO"...)

Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dagospia, ho letto l' ultimo intervento di Fasanella che racconta i problemi avuti per il suo libro. Quello che io, da povero supereroe, continuo a non capire è che cosa si attribuisca a questo signore, che magari c'entrerà pure con il caso Moro (e allora il libro, già piacevole e interessante, sarebbe benemerito), ma non si riesce a capire in quale modo. C'è il riferimento (che io continuo a ritenere cervellotico) a "Grado LI" come "grado 51" di una qualche massoneria. A parte la citazione sbagliata dei personaggi evocati (non si trattava di La Pira e De Gasperi, ma di La Pira e Sturzo), io mi chiedo, se era un messaggio, quale poteva essere il suo scopo e la sua utilità e perché Prodi e i suoi, se erano coscienti del suo significato in codice (come sembra ipotizzare Fasanella), non l' abbiano gestito direttamente invece di avvisare le forze dell' ordine. C'è poi un riferimento a un "contatto con il governo italiano" a ridosso di quell' episodio. La conclusione è che "Hubert Howard e Igor Markevic avrebbero governato l'intricata matassa di interessi e di posizioni che si aggrovigliavano nel caso Moro. In un'ipotetica divisione dei ruoli, è possibile che Igor agisse sul campo, per così dire, tornando a fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello politico delle Br, e Howard tenesse il controllo nella cabina di regia di Palazzo Caetani". Pochi numeri fa, nel disinteresse generale, "Topolino" ha pubblicato una divertente storia in cui il mio collega Paperino, dopo aver seguito un corso da una specie di esperto di immagine, imparava un trucchetto oratorio grazie al quale riusciva a fare la figura di un grande esperto in tutti i campi continuando a ripetere una frase tipo:"il problema di fronte al quale ci troviamo adesso non è che il primo gradino, risolto il quale la nostra vita sarà tutto un seguito di successi". In questo modo, di affermazione in affermazione, Paperino si trovava ad essere candidato alla poltrona di sindaco di Paperopoli. Il problema è che quando, in campagna elettorale, un bambino di una scuola elementare gli risponde semplicemente "E cioè?" lui non sa più cosa fare e tutto il suo successo crolla all' improvviso. A parte il riferimento evidente (che nessuno ha notato) a un personaggio politico, io vorrei chiedere a Fasanella, senza nessuna polemica, anzi con lo spirito costruttivo che contraddistingue noi supereroi:"E cioè?". Saluti Nembokid - P.s - "Gradoli" per "Grado LI", butto lì a Fasanella un'altra interpretazione cervellotica: in una lettera al nipotino, Moro parla di sé come del "nonno del casco, degli scacchi e dei tamburelli, dei pompieri di Spagna". Che sono questi improbabili "pompieri di Spagna" ? Molti hanno pensato a un segnale in codice, ma nessuno ha azzardato un'interpretazione. L'unica cosa che mi viene in mente sono i pompieri che tutti gli anni, alla festa dell' Immacolata, salgono sull' obelisco vicino a piazza di Spagna. Se tu vai a fare un sopralluogo, la cosa che attrae di più la tua attenzione è il palazzo di Propaganda Fide, con una scritta molto evidente. Moro aveva fatto un'allusione alla loggia Propaganda (la P2)? Cervellotico? Sì, ma non più del tuo "Grado LI". freccia rossa che punta in alto

RISPOSTA DI GIOVANNI FASANELLA E GIUSEPPE ROCCA Autori di "Il misterioso Intermediario - il Caso Moro e Igor Marcovic", Einaudi

Eh, eh, caro Nembo Kid. Qua siamo venuti al vero cuore del mistero. Ti facciamo una domanda: se due nemici si preparano a una lunga guerra di posizione, dove si attestano, secondo te, per meglio difendersi? Ragioniamo. Dopo Yalta, i giochi della neonata Repubblica Italiana erano chiari e, soprattutto, previsti: Dc al governo e Pci all'opposizione. Nessuno (neanche l'Urss) avrebbe voluto diversamente. Guerra di posizione, insomma, e sovranità limitata. Sarebbe stato logico, allora, che i due partiti si fossero arroccati in territori sicuri, protetti da un contesto tradizionalmente fedele. E, invece, Marchini (il costruttore comunista che aveva ricevuto l'incarico da Togliatti di scegliere una sede per il Pci) non comprò uno stabile in un quartiere popolare, a San Lorenzo, mettiamo, o al Testaccio. Scelse un edificio in via delle Botteghe Oscure. Praticamente dietro Piazza del Gesù, cioè "di fronte" alla sede della Dc. E proprio accanto a Palazzo Caetani (famiglia storicamente legata agli inglesi e agli americani). L'urbanistica ha una sua precisa logica. Figurarsi l'urbanistica politica! E, allora, caro Nembo Kid, questa triangolazione non ti dice niente? Sarà peccato pensar male, come dice Andreotti, ma... Possiamo anche supporre che, mentre la democrazia procedeva nei suoi luoghi e con le sue ritualità ufficiali, la limitazione della sua sovranità si giocava su questo patto fondante: noi governiamo, voi esercitate il diritto all'opposizione e loro controllano che niente sovverta questo equilibrio. E possiamo supporre anche che, essendo una guerra di posizione, gli eserciti non siano stati sciolti e le sentinelle siano rimaste lì, all'erta, da una parte e dall'altra, pronte a intervenire, in caso di allarme. Accettare questo patto, per l'opposizione significava anche andare a mettersi "sotto lo schiaffo", come si dice: esibire continue garanzie di "democraticità", rendersi disponibile ai "controlli" (tu che sai tutto: è vero -come qualcuno sostiene- che in uno dei palazzi dell'Insula Caetani c'era una centrale d'ascolto, con le antenne puntate sulla sede comunista?). Capisci, adesso, "in quale modo" potrebbe entrarci non solo "quel signore", ma tutto quello che di internazionale si coaugula attorno a quella terza punta del triangolo? Non farci dire altro, caro Supereroe: abbiamo già abbastanza guai. E poi, l'abbiamo bell'e capito, che tu fai lo gnorri, ma la sai più lunga di noi. E sai benissimo che "Grado-LI" non è una massoneria. Ti vogliamo confidare un segreto. Qualcuno ci aveva soffiato la possibilità di leggere, in questa forma spezzata e cifrata, la parola "Gradoli", suggerita nella famosa seduta spiritica, a Prodi e ai suoi amici, dalle anime di La Pira e di don Sturzo (o di De Gasperi, a seconda delle varie versioni date da alcuni partecipanti). Solleticati dall'astuzia dell'idea, ci eravamo messi a cercare nei gradi delle varie società segrete (non necessariamente massoniche!), ma cosí... quasi solo per curiosità o per gioco. Sapevamo anche che -se mai ne avessimo trovato uno corrispondente a quel numero- sarebbe stato difficile dargli un senso.
Nessun segno, in linguaggi così volutamente oscuri, può essere immediatamente decodificato. Immagina, perciò, il nostro stupore, quando finalmente e fortunosamente, in un vecchio libro (stampato senza data a Parigi -ma con una "lettre-préface" di Camille Flammarion, datata "Octobre 1887"-, il cui autore, devoto di Péladan, si cela sotto lo pseudonimo di Ely Star), non solo trovammo un Grado LI nel "Cercle de la Rose-Croix", ma anche una definizione che diceva chiaro chiaro: "Le Maitre du Glaive", cioè "Il Signore di Gladio". Noi stavamo appunto lavorando su quella triangolazione, per spiegarci perché il cadavere di Moro non fosse stato abbandonato in un qualsiasi posto più sicuro, ma fosse stato lasciato proprio sotto quel palazzo così centrale, in una delle zone più sorvegliate di Roma. Moro era stato tra i fondatori di Gladio; le rivelazioni di Moro ai brigatisti minacciavano appunto l'equilibrio, che Gladio doveva proteggere e mantenere; chi, se non Gladio, doveva a questo punto scendere in campo? Confessiamo che questa scoperta ci pareva il "CVD" ("Come volevasi dimostrare") che, al liceo, scrivevamo soddisfatti alla fine dei teoremi di geometria. Ci pareva troppo provvidenziale per non darne notizia, almeno sotto forma di ipotesi. Questa scoperta, però, è solo la ciliegina sulla torta, per cosí dire. La torta l'avevamo già preparata. Cioè, per uscire dalla metafora, ricostruendo certi ambienti che la biografia di Markevic ci aveva fatto attraversare, avevamo già individuato un sistema di relazioni, che usava proteggersi dietro cortine esoteriche. E ti ricordi quanti messaggi vennero inviati durante il caso Moro in forme variamente cifrate? Pensa, per esempio, a quel veggente olandese che, durante le ricerche, indicò come possibile prigione di Moro un palazzo con dei leoni nell'emblema. Quale poteva essere quel palazzo? Forse Palazzo Caetani o un altro lí vicino. E agli amici di "La Repubblica", che hanno tanto ironizzato sul nostro "metodo cabalistico" di condurre le indagini, ricordiamo che questo collegamento non lo facciamo noi. Lo ha fatto, il 10 novembre 1999, davanti alla Commissione Stragi, proprio il magistrato che ha diretto le prime quattro inchieste sul caso Moro, Rosario Priore.
Perché, poi, Prodi e i suoi abbiano deciso di rendere pubblica la notizia di quella seduta medianica, fatta -a loro dire- per gioco; perché (nel caso che la nostra ipotesi abbia un qualche fondamento di verità) non l'abbiano "gestita direttamente", come dici... bhè, caro Nembo Kid, qua ci vorresti tu, con i tuoi superpoteri. Si dovrebbe avere una supervista capace di sbirciare in cose troppo ben nascoste ai profani. Fa bene il bambino (che tu citi) a chiedere:"E cioè?". Ma noi crediamo di aver detto chiaramente (la prefazione si chiude proprio così) che c'è una "soglia di fronte alla quale, nella primavera del 1978, i servizi segreti italiani dovettero fermarsi...". E chiudiamo con dei puntini sospensivi. Perfino i servizi segreti si sono fermati. E Moro, forse, era lì e poteva essere salvato. E davanti a certe porte sbarrate, per un quarto di secolo, dopo i servizi, si è fermata tutta l'Italia. Si sono dovuti fermare i giudici, i giornalisti, gli uomini politici. A chi, come noi, oggi vuole ancora additare quella soglia, viene mozzato il dito, viene messa la mordacchia, vengono lanciati derisioni e livori. Occorre, allora, che facciamo tutti come quel tuo bambino, caro Nembo Kid, e che tutti insieme chiediamo:"E cioè? Dopo questo gradino, dove porta la scala?". Tu ci proponi un'altra "lettura cervellotica" di una frase forse criptica di Moro, che secondo te potrebbe rinviare alla P2. Benissimo. Allora, per piacere, puoi usare i tuoi superpoteri e rispondere a queste domande: la P2 si esauriva nell'elenco ormai a tutti noto o c'era un livello che non è mai emerso? E l'organigramma di Gladio si esauriva nei seicento nomi resi pubblici da Giulio Andreotti nel 1990? Ti ringraziamo, comunque, delle tue simpatiche provocazioni. Fanne ancora altre. Servono ad agitare l'aria e l'acqua della palude, che sta grevemente ingoiando anche questo venticinquesimo anniversario di un gravissimo mistero italiano. Che tristezza pensare che uno dei più rispettabili giornali italiani annunci al paese, come uno strano e inquietante gallo del tramonto, che anche su questo mistero non si saprà mai la verità. "E cioè?" Amichevolmente Fasanella & Rocca - P.s. A proposito, la nostra "gola profonda" (quella che ci ha soffiato "Grado-LI") è, come te, un'appassionata di "Topolino" e aveva letto (a lei non sfugge proprio nulla!) la storia che tu citi. E proprio alcune sere fa, ci suggeriva un'altra lettura "cervellotica": il tuo "collega" Paperino e il suo papà, Walt Disney, sarebbero anch'essi personaggi "esoterici"... A te risulta qualcosa? freccia rossa che punta in alto

7 Maggio 2003: (Misteri d'Italia)
CASO MORO: TUTTI I DOCUMENTI SU SOKOLOV ALLA COMMISSIONE MITROKHIN

A un quarto di secolo dal caso Moro sembra stia per cadere il segreto su di un personaggio di spicco coinvolto proprio nella vicenda del sequestro e del rapimento del presidente della DC. Il SISMI, il servizio segreto militare, si è fnalmente deciso a trasmettere alla commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin i 62 atti relativi al finto borsista sovietico Sergej Sokolov, l'uomo che seguiva Aldo Moro prima del sequestro e che in realtà era un ufficiale del V Dipartimento del KGB, con incarico per le operazioni speciali in Italia. Il SISMI ha sempre saputo (e tutto taciuto) su Sokolov. Come dimostrerebbero i documenti trasmessi a S. Macuto, il servizio segreto militare avrebbe svolto una intensa attività di controspionaggio sul conto di Sokolov, registrandone tutti gli spostamenti dall'Italia verso Mosca e dalla capitale sovietica a Roma, dove per un certo periodo Sokolov è stato corrispondente della agenzia di stampa sovitica Tass. Dagli atti risulta che il 23 marzo del 1978, una settimana dopo il sequestro Moro, l'agente della Lubianka ripartì per l'URSS per far rientro nel nostro paese nel 1981. Vi sarebbero tracce, negli atti del SISMI, anche di contatti tra Sokolov e la spia bulgara Ivan Dontchev risalenti al periodo precedente l'attentato al Papa. Ivan Dontchev era stato accusato nel 1983 dal giudice Ferdinando Imposimato di avere organizzato l'attentato al sindacalista polacco Lech Walesa nel gennaio del 1981 ed era considerato l'anello di congiunzione tra le Brigate Rosse, i Lupi Grigi turchi e Luigi Scricciolo, l'allora sindacalista della UIL, anch'egli informatore dei bulgari. Sarà ora importante capire se la commisione Mitrokhin renderà noti i documenti del SISMI o se - sotto altra forma - il segreto su Sokolov ed il suo ruolo nel caso Moro e forse anche nell'attentato al Papa continuerà. freccia rossa che punta in alto

9 Maggio 2003: (Libero)

- Il 9 maggio di venticinque anni fa si chiudeva con un terribile finale uno dei capitoli più drammatici e inquietanti della nostra storia recente: l'uccisione di Aldo Moro. Quel lontano giorno del 1978 il corpo crivellato di colpi dello statista democristiano rapito 55 giorni prima dalle brigate rosse a Roma, in via Fani, fu ritrovato abbandonato in via Caetani, sempre a Roma, nel portabagli di una R 4 rossa. In occasione della tragica ricorrenza, è prevista a Siena la prima mondiale dell'ultimo film del regista Renzo Martinelli, "Piazza delle Cinque Lune", realizzato proprio sul caso Moro. Ma perché un film sul caso Moro, oggi? «Perché», spiega il regista «il caso Moro è un caso ancora aperto» Il film ruota soprattutto attorno al famoso memoriale Moro... «Sì, è da quello che ho preso spunto. Ancora oggi l'originale del memoriale Moro non è stato trovato. Gli inquirenti ne hanno in mano soltanto una copia, dove però mancano molte parti. Lo si capisce chiaramante dai rimandi - "come dirò altrove", "come preciserò più avanti" - di cui non c'è traccia. Al memoriale si interessavano, già nello stesso 1978, il colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco e il giornalista Mino Pecorelli, direttore di "OP". A Roma si incontravano segretamente proprio in piazza delle Cinque Lune, vicino a piazza Navona. A una di queste riunioni partecipò nel marzo del '79 anche un alto ufficiale dell'Arma, molto probabilmente il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Appena due settimnane dopo, il 20 dello stesso mese, Pecorelli fu assassinato. Varisco si dimise dall'Arma e continuò per conto suo le indagini. Non molto tempo dopo fu ammazzato a colpi di lupara, sul Lungotevere. Quindi, il 3 settembre 1982, ci fu a Palermo l'agguato che costò la vita a Dalla Chiesa. E' chiaro che il memoriale Moro è un documento che scotta. Per questo, forse, non è stato mai trovato». Il suo film, però, non è una vera e proprio ricostruzione del caso Moro. «Il mio problema era convincere gli spettatori, soprattutto i ragazzi che di questa storia non sanno quasi nulla, a pagare un biglietto, entrare in sala e rimanere seduti in poltrona per tutti i 120 minuti del film». Ma qual è la tesi sostenuta nel film? Ci sono novità rispetto a quanto si è sempre saputo? «Una delle novità più importanti e inquietanti», prosegue Renzo Martinelli, «riguarda la ricostruzione dell'agguato di via Fani. Io per il mio film avevo immaginato l'esistenza di un filmato in Super8 girato quel giorno da un dilettante dal terzo piano d'uno stabile di via Fani e ho poi cercato di realizzare questo filmato per proporlo in "Piazza delle Cinque Lune". Ma come ricostruire più fedelmente possibile le fasi dell'agguato? Ho pensato che la soluzione migliore sarebbe stata di ricorrere al racconto più volte ripetuto da due dei principali protagonisti dell'assalto, i brigatisti Mario Moretti e Valerio Morucci. Così ho fatto. O, almeno, ho tentato. Ma senza successo. Con mia grande sorpresa mi sono infatti accorto che quella ricostruzione non era filmabile, non stava in piedi. Secondo il racconto di Moretti, infatti, lui quella mattina, alla guida di una Fiat 128 bianca, si sarebbe bloccato improvvisamente facendosi tamponare dalla 130 su cui viaggiava Moro. L'autista della 130, Ricci, a questo punto avrebbe cercato disperatamente di superare l'ostacolo, spostandosi sulla destra. Più volte, così, avrebbe tamponato ancora la 128, prima di cadere sotto i colpi dei terroristi. Ma tutti i nostri tentativi per girare quella scena sono risultati vani perché per una piccola utilitaria come la 128 è impossibile resistere ai colpi di una 130, tanto più pesante e potente. Come, in realtà, erano allora andate le cose quel 16 marzo di 25 anni fa? Per cercare la chiave del mistero, abbiamo esaminato e riesaminato le foto dell'agguato, ma erano state tutte scattate dalla parte posteriore della scena e non chiarivano nulla. Finalmente ne abbiamo trovata una - l'unica - presa di lato, da destra, con sopresa abbiamo visto che fra la 130 di Moro e la 128 di Moretti c'erano almeno quaranta centimetri di distanza e, quel che più conta, l'utilitaria posteriormente non presentava un graffio. Tutto era intatto: paraurti, fanalini...» A queste domande c'è ora una risposta?
«In parte sì. Stando alla versione dei brigatisti, tutti i proiettili sparati contro gli uomini della scorta di Moro sarebbero stati esplosi da sinistra. Ebbene, non è vero. Esaminando l'autopsia eseguita sul corpo del maresciallo Leonardi, è risultato che tutti i proiettili che lo hanno raggiunto - sei alla schiena, due al petto e uno alla testa - sono stati esplosi da destra e non da sinistra. C'era quindi un misterioso personaggio, quel tragico mattino in via Fani, mai identificato e mai apparso nelle tante inchieste sull'eccidio, che ha sparato contro gli agenti di scorta di Moro dal lato destro della strada. E' stato lui a colpire a morte, prima che facesse in tempo a reagire, anche il maresciallo Leonardi, che al momento del "tamponamento" era girato verso l'autista, alla sua sinistra, e non poteva quindi neppure vederlo. Come mai nè Moretti, né gli altri brigatisti hanno mai parlato di questo loro complice? Perché lo hanno coperto?»
Lei è convinto, dunque, che dietro il sequestro Moro ci fosse davvero il famoso "grande vecchio"? «No, io non credo alla storia del "grande vecchio". Ma sono troppe le cose che ancora non mi spiego. Per esempio, com'è possibile che in via Fani i terroristi abbiano sparato ben 91 colpi - di cui 49 con un solo mitra Sten - uccidendo tutti gli uomini di scorta, senza fare un solo graffio a Moro. Come mai, ancora oggi, i brigatisti non rivelano la verità? Non avrebbero, ormai, nulla da perdere. Perché tacciono? Di che cosa hanno paura? In ogni caso, non bisogna dimenticare che erano in tanti, allora, a non volere l'ingresso del Pci nel governo». freccia rossa che punta in alto

9 maggio 2003(Famiglia Cristiana)
CASO MORO: INTERVISTA CON AZZOLINI
INTERVISTA VENTICINQUE ANNI FA L'OMICIDIO DI ALDO MORO QUELLA NOTTE CHE RITORNA
Parla l'ex brigatista Franco Bonisoli, che faceva parte del commando della strage di via Fani ed era membro del Comitato esecutivo che decise la morte dello statista.

Venticinque anni dal momento più buio della notte della Repubblica, da quel 9 maggio, quando in via Caetani venne ritrovato il corpo dell'onorevole Aldo Moro, dopo 55 giorni di prigionia. Franco Bonisoli fu tra i membri del commando che agì in via Fani. Faceva parte, con Mario Moretti, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto, del Comitato esecutivo delle Br che si riuniva a Rapallo e a Firenze per gestire il sequestro e redigere i comunicati. Era il sinedrio brigatista che decise per la morte dello statista. "Ci eravamo fissati sulla Dc, volevamo una risposta che non arrivò mai". Bonisoli era entrato nella militanza armata a 19 anni. Oggi, a 48 anni, ha scontato definitivamente la pena dopo 22 anni di detenzione e lavora in una società di servizi ambientali. Ha dato, insomma, un taglio netto a quel passato. Un passato che però ritorna e non si chiude del tutto, come dimostrano le nuove Br. Questa intervista è un documento della logica paranoica e foriera di lutti in cui si muovevano i brigatisti, ma anche della straordinaria lezione di vita dei familiari delle vittime e della forza di cambiamento del mondo del volontariato e dell'accoglienza. * A 25 anni dalla morte di Moro ci sono ancora tante questioni aperte...
"Penso sia un vecchio vizio italiano quello di non accettare le cose semplici e chiare, ma doverci vedere sempre qualcosa di misterioso dietro; penso anche che sia una recondita paura nell'affrontare il futuro: per non affrontarlo, ci si giustifica col fatto che il passato non è ancora stato sufficientemente chiarito. Per quanto mi riguarda, penso proprio che non ci sia più nulla da chiarire. Una voce autorevole come quella di Giorgio Bocca, ad esempio, che le vicende italiane le ha analizzate bene, ha ripetuto più volte che non c'è stato caso studiato e indagato in modo più approfondito del sequestro Moro". * Un giudizio non condiviso da tutti. Ci sono molti buchi neri. Pensi solo a quella moto, avvistata in via Fani... "Non vorrei entrare più nel merito di questi particolari che ho già chiarito in aule giudiziarie e interviste pubbliche, come pure hanno fatto altri protagonisti delle Brigate rosse di allora: significherebbe anche per me stare al gioco di questo assurdo meccanismo sul quale si sono innescate invenzioni e connessioni clamorose negli ultimi decenni, fino a far perdere il senso degli aspetti fondamentali, così drammatici, di quella tragica vicenda. Un giovane che voglia oggi affrontare quel pezzo di storia finisce per trovarsi invischiato in misteriosi motociclisti, anfitrioni, personaggi di qualche cosca, e altro ancora che, non avendo alcuna attinenza con la realtà, non aiuta certo a fare chiarezza e capire il fenomeno. Comprendo invece le esigenze di chiarezza più che legittime ancora espresse da alcuni familiari. Però, rispetto alle nostre responsabilità materiali, è ormai stato detto davvero tutto". * Eppure ci sono indizi che intorno al sequestro Moro ruotasse un'incredibile congerie di strani errori investigativi, operazioni e personaggi torbidi...
"Sul come, invece, siano state condotte le indagini, o sull'esistenza o meno di forze a noi esterne che abbiano cercato di pescare nel torbido, non ci è materialmente possibile fornire elementi perché a noi estranei. Inoltre a quel tempo eravamo un gruppo molto chiuso, proprio per timore di infiltrazioni". * Chi si rivelò, per voi, Aldo Moro? "Nella logica in cui eravamo, vedevamo le persone schematicamente, nella loro fredda funzione ricoperta dentro lo Stato. Il contatto con l'onorevole Moro aveva permesso a Moretti di toccare direttamente la sua acutezza e sensibilità politica e umana, soprattutto verso la sua famiglia, ma anche verso i suoi amici di partito dei quali parlava, nonostante le dure parole delle sue lettere, quasi con l'attenzione di un padre; come pure lo spirito di voler capire meglio il fenomeno che noi rappresentavamo". * La reazione ferma del sindacato non vi fece riflettere? "Quella reazione era prevedibile, e non poteva essere diversa. Però i segnali che ci arrivavano "dalle masse" erano di una forte presenza di consensi, non solo tra quei gruppi e movimenti ideologicamente a noi affini. Ma in quel momento noi eravamo la forza che appariva vincente, e chi vince trova facilmente consenso, per poi perderlo con altrettanta facilità appena si incrina la sua posizione. Inoltre, col senno del poi, si può dire che quando sei in una logica mentale chiusa come allora, ascolti solo le voci che vanno nella direzione che ti interessa; le generalizzi, le eleggi a linea di tendenza, e il gioco è fatto". * La stessa logica dei vostri emulatori? "Sì, penso che anche le nuove Br siano schiave di questa tremenda quanto ingannevole logica. È probabile che capiti anche a loro, a fronte di una reazione di fortissimo e vastissimo dissenso, di ricevere qualche assenso alle loro azioni, di sentire, come succedeva a noi, addirittura in metropolitana, commenti tipo: "fanno bene le Br a fare questo e quello". Ma scambiare questi segnali per una adesione al proprio programma è il più tragico degli errori". * Si è sostenuto che il nuovo terrorismo è nato perché lo Stato non ha fatto i conti con il terrorismo vecchio...
"Può essere vero. Ma non voglio semplificare, come se esistesse un rapporto automatico di causa-effetto. Ciò implicherebbe inoltre un giudizio sullo Stato che non voglio dare. In questi decenni ognuno, chi un tempo stava da una parte e chi dall'altra, si è assunto delle responsabilità nel modo di affrontare o rimuovere le problematiche connesse al fenomeno della lotta armata in Italia negli anni '70 e '80. L'aspetto più positivo e rilevante, da continuare a sottolineare, credo sia il processo di riconciliazione concretamente verificatosi in questi ultimi decenni. Continuare a credere in una riconciliazione più completa possibile, ritengo sia una cosa fondamentale, nella quale sentirci tutti impegnati, anche come segno di speranza per il futuro. In tal senso, ho sentito il grande valore della presa di posizione del professor Pietro Ichino, che invita i nuovi terroristi a recuperare la propria umanità interiore. Anche se oggi, ai più, è sembrata utopistica, potrà essere realistica un domani, tanto più vicino quanto più si è capaci di seminare oggi. Chi avrebbe mai creduto, fino a metà degli anni '80, che noi saremmo divenuti ciò che siamo ora?". * Che effetto le fa leggere i recenti volantini delle nuove Br? "Un tuffo nel passato. Il linguaggio stereotipato è simile a quello dell'ultima fase della nostra storia. Nei primi anni '70 i volantini parlavano di più il linguaggio della gente e si riferivano a fatti concreti. Col passare degli anni, l'ideologia ha preso sempre più il posto della politica e il linguaggio è diventato sempre più stereotipato. Bastava cambiare il nome della persona che avevi colpito e tutto il resto rimaneva uguale. I volantini delle nuove Br ricalcano totalmente quest'ultima fase delle Br storiche. L'interpretazione più approfondita credo l'abbia data Andrea Casalegno dopo l'uccisione di D'Antona: un'analisi come quella che veniva dal documento di rivendicazione poteva essere fatta anche attraverso un'attenta lettura dei giornali e infarcita da tutta una serie di parti ideologiche stereotipate. Materialmente sganciata dal rapporto con il sociale e quindi con la logica del serial killer: uccido per esistere. I funerali di Mario Galesi mi hanno fatto una grande impressione. Quel vuoto pneumatico mi ha dato la sensazione che il campo delle sue relazioni fosse ridotto tutto e solo dentro il gruppo, e quindi il suo rapporto con il mondo esterno fosse praticamente inesistente". * Lioce si è detta prigioniera politica...
"Rispetta un copione, come facevamo tutti un tempo. Utilizza metodi e strumenti di un periodo storico completamente superato e chiuso. Come se la storia non avesse insegnato niente". * Che impressione le ha fatto? "Mi ha dato l'impressione di una persona molto dentro la parte. Una persona sicuramente intelligente, che ha deciso di dare la sua vita per una causa completamente sbagliata, ma che lei crede l'unica giusta. Una causa che non potrà portare a niente di positivo, ma solo lutti e danni agli altri e a sé stessa". * Se potesse parlarle, cosa le direbbe? "Credo, per esperienza, che oggi sarebbe molto difficile essere ascoltati da chi è chiuso in quel tunnel mentale. Ma mi auguro con tutto il cuore che prima o poi anche lei arrivi a riflettere e a usare le sue energie, la sua intelligenza e il suo "spirito di donazione" per delle cose giuste, per costruire, non per distruggere. La strada per uscire dal circolo chiuso e totalizzante e riaprirsi alla vita può essere difficile ma possibile, senza abdicare alla propria dignità interiore". * Ad esempio, una cosa giusta? "Operare insieme a quella moltitudine di persone che danno il loro contributo alla costruzione di ponti tra il Nord e il Sud del mondo. E qui la necessità di energie costruttive è infinita, è una strada ormai aperta, sulla quale vale la pena spendersi; mentre la pratica terroristica è una spirale che si avvolge sempre più su sé stessa, che produce solo morte e, di fatto, nega i princìpi ai quali ideologicamente si rifà". * Lei cosa ha vissuto al riguardo? "Nel 1988 a San Vittore, con Semeria, Azzolini, Bellosi, Zanini, Di Gennaro e altri detenuti, insieme a molte persone del volontariato cattolico e laico, avevamo costituito l'Associazione Arte per permettere alle attività costruttive dei detenuti di poter trovare ascolto e possibilità di dialogo all'esterno. Dopo alcuni anni, esaurita la sua funzione, decidemmo di sciogliere l'associazione e inviare le risorse economiche per l'acquisto di un'autolettiga all'ospedale di Poxoreo, nel Mato Grosso, in Brasile, dove opera padre Pedro Melesi. Ne è nato un rapporto che dura tuttora. E dire che, quand'ero studente a Reggio Emilia, noi che teorizzavamo la rivoluzione comunista, vedevamo con sufficienza i giovani dell'operazione Mato Grosso che raccoglievano la carta per i lebbrosari. I soliti "paolotti", dicevamo. Loro invece sì che stavano costruendo!". * Lei ha chiesto il perdono ai familiari delle vittime. Cosa ha significato? "Diciamo che a un certo punto della mia vita, dopo la chiusura con il passato, ho cercato un dialogo di comprensione umana sia con alcuni familiari sia con alcune persone direttamente colpite da noi, come, ad esempio, Indro Montanelli. Questo evitando forzature. Ho ricevuto delle grandissime lezioni di vita. Proprio dall'atteggiamento di familiari che hanno ricevuto un torto così grosso come l'uccisione di un loro caro e che hanno accettato, in alcuni casi sollecitato, con semplicità e sensibilità straordinaria, un dialogo con chi è stato responsabile di quel torto". * Un esempio, una lezione di vita? "Penso che il perdono sia un fatto molto intimo: non l'ho mai chiesto esplicitamente ed esplicitamente mai ricevuto. Ma so che si può ricevere anche attraverso atteggiamenti semplici, espressi da persone con una forza interiore straordinaria e che non possono non toccare il cuore anche del più duro degli uccisori. Il perdono non mette il cuore in pace, non dà giustificazione a chi è responsabile di atti delittuosi. Al contrario, ti fa sentire così piccolo, ti fa vedere il tuo gesto del tutto inutile, e ti spinge a cercare la strada per una riparazione. Magari il processo non è così immediato, ma prima o poi questa maturazione arriva. E il mio sogno è che possa arrivare per tutti". freccia rossa che punta in alto

10 maggio 2003 (Il Giornale di Brescia)
CASO MORO: COSSIGA, FORSE DON MENNINI ANDO' DA MORO: A 25 anni da quel 9 maggio, intervista nella residenza dell'ex presidente della Repubblica Cossiga: Forse c'è chi arrivò a Moro. "È probabile che Aldo abbia ricevuto un'ultima consolazione". Il mistero di Misasi Tonino Zana

- L'attesa sarà breve, spiega il sindaco Groli di Castenedolo, "Gian Battista, giovane amico sindaco e onesto centrista", come lo chiama il personaggio che sta arrivando. Sarà breve perché Cossiga è un puntuale, rispetta l'agenda e noi siamo scritti sulle 11 di un mattino di sole, con l'affidamento concordato di un'ora e mezza. L'ex presidente è ospitale, dicono i suoi ospiti, tranne chi non entra nella sua casa comoda, non lussuosa di via Quirino Visconti, 100 metri sotto il Palazzaccio, una super scorta davanti al portone, sulle scale, nell'appartamento e ci assicurano perfino nello sgabuzzino. Come dire, servizi segreti e servizi domestici si confondono come si confonde l'uomo che ha servito e serve la comunità nazionale anche quando sta a casa. Cossiga ha sempre preferito distinguere tra Quirinale e casa privata, tra Palazzo e salotto per cui, non rimanendo a Palazzo deve tenere davanti alla stanza da letto una scorta lunga tutta la sua memoria, degli uffici e dei segreti, della sua inattaccabilità morale e della precarietà morale di tanti attori e comprimari della politica di ieri e di oggi. Per un istante viene in mente un film di Alberto Sordi, guardia del corpo di un industriale milanese al tempo dei sequestri. È un pensiero di alleggerimento, una distrazione momentanea dal sequestro dei sequestri, dal balbettio politico più inquietante di quei drammatici 55 giorni. Siamo nella sala di tanti scaffali di libri, di fotografie di reali, Elisabetta e Baldovino, di presidenti, ministri e amici. Di un'anfora dipinta e firmata da Bettino Craxi. Siamo a casa del presidente Cossiga per parlare dell'amico sacrificato, della vittima designata in quanto il migliore. Dell'amico assassinato, la cui sembianza appare sulla sinistra del divano di Cossiga, con dedica, rarissima spiegherà poi il senatore a vita: "A Francesco Cossiga, con vivissima riconoscenza e grande cordialità, Aldo Moro". Parliamo di Moro, del sequestro, della morte e del pensiero. Parliamo, senza parlarne, della speranza che chi ci precede affida a chi è in viaggio. E che Moro creò dalla prigione, forse nel più acceso degli addii cristiani, nel più umano e letterario ricomporsi davanti al carnefice, in un estremo colloquio ideale con la moglie: "Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo...". Francesco Cossiga compare quasi all'improvviso, silenzioso anche per via di un paio di scarpette di lana e di un'andatura convalescente: "Esco adesso da una polmonite...", si appoggia al braccio per un'incertezza mattutina e forse per un farsi compatire, regalmente sassarese, classe 1928, assicurandosi che gli interlocutori abbiano subìto il lieve impercettibile sobbalzo di apprensione, quasi calcolato dalla sua simpatia, dalla battuta: "Tranquillo, non è la polmonite killer...". Chiede due biscotti e un bicchiere d'acqua per sciogliere le pastiglie che gli stanno sulla gola. Sulla gola come Aznar, dalla cui terra - ride Cossiga - è appena tornato come da un'incursione per sostenere i suoi amici baschi. Infine si siede come si dichiarasse prigioniero politico: "Sono pronto, dimmi...", passando alla concessione del tu con l'abilità innata di chi conosce a menadito la Treccani dei piccoli piaceri psicologici di giornata. Presidente, quale è la sua conversazione con Aldo Moro, 25 anni dopo il suo assassinio? Nella mia sconfinata e dolorosa rilettura dei documenti e del pensiero politico e giuridico di Aldo Moro, sono ormai certo della sua sostanziale autenticità psicologica e morale nei messaggi dalla prigione. Credo che il contenuto delle lettere corrisponda alla sua filosofia politica. Io sono uno di quelli che ha sbagliato... È difficile ricordare Moro, presidente? Si tende a mitizzare, spesso, la vicenda Moro così che egli diventa una specie di immaginetta. Del resto c'è una forma di arte sacra minore che finisce per togliere la santità. Io penso che ci sia stata una mitizzazione di Aldo Moro con il rischio di tramandarlo in modo non corrispondente al vero, perdendo la tragicità della vicenda. Mitizzazione in che senso? Ripeto, una specie di mitizzazione da immaginetta. Ma la vera storia è che Moro era il pilone del sistema e per questo è stato scelto. Non si è ancora capito bene che Moro è stato assunto dalle Brigate Rosse come il punto di elezione, non solo e non tanto il cuore dello Stato, ma il personaggio equilibratore del sistema politico italiano. Ed era il personaggio che aveva compreso più di tutti le Brigate Rosse, al punto che esse lo hanno individuato come il più temibile avversario. Moro aveva capito benissimo che le Brigate Rosse erano un'organizzazione politica rivoluzionaria. Ebbi la sensazione immediata, allora, che Moro sarebbe stato ucciso.... E il dolore per Moro, presidente Cossiga, anch'esso è mitizzato? No. Il dolore è un dolore in carne ed ossa. Il mio dolore è concreto, verso l'uomo che è stato assassinato. Anche perché io conosco chi gli ha sparato, li ho conosciuti tutti i brigatisti rossi... Presidente, ci dica di questi brigatisti che ha conosciuto. Guardi, alcuni di loro ritengono che quella forma di lotta sia stata un errore. Altri ritengono che fosse giusta, ma in un momento sbagliato. Infine, un terzo gruppo sostiene che è stata una battaglia giusta ed è stata persa. Perché lo avrebbero ucciso? Per celebrare la loro teologia del terrore. Se fosse mancato il sangue non si sarebbero sentiti vincitori. Le Brigate Rosse non avevano compreso che avrebbero dato un colpo mortale molto più forte alla solidarietà nazionale - il loro autentico obbiettivo - liberandolo piuttosto che uccidendolo. Io mi sento colpevole sia perché era stato Moro a volermi ministro dell'Interno sia perché non lo ho saputo difendere, anche se nei suoi confronti erano state adottate tutte le misure d'uso.... E le Brigate Rosse di oggi sono figlie di quelle di ieri? Chi sono? Tutta un'altra storia. È cambiato il mondo da allora. Le Br di oggi sono l'asilo nido rispetto alle Br storiche.... È vero che Moro temeva di essere sequestrato? In realtà lui non temeva il sequestro o qualcosa di simile, per sè: lui, per sè, non temeva nulla. Sono stupidaggini messe in giro da qualcuno. Non mi ha mai chiesto l'auto corazzata, gliel'avrei data. Ne avevo tre. Moro non era preoccupato per sè, lo era stranamente per me. Quando gli raccontai che erano state formulate minacce nei miei confronti mi riprese amorevolmente e duramente: "Fa il tuo dovere, ma ricordati che hai moglie e figli...". Questo accadde molto prima del 16 marzo? Guardi, due giorni prima di essere sequestrato, due giorni prima che trucidassero la sua valorosa scorta (ndr: Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino) mi chiamò al telefono. Erano le 8 del mattino (cosa strana per lui con la pressione bassa che faticava a carburare) e mi raccomandò di essere prudente.... Che cosa può dirci, oggi, dei cosiddetti misteri intorno all'"affare Moro", per esempio a un canale di andata e ritorno dalla prigione di via Montalcini. Lei ritiene che qualcuno sia entrato là dentro a parlare con Moro e poi sia uscito. E poi abbia taciuto? Moro è stato sequestrato, nascosto e assassinato dalle Brigate Rosse. Punto. In questi anni ne sono uscite di tutti i colori. Su un probabile canale di andata e ritorno dalla prigione, bisogna chiederci come mai Moro potesse essere a conoscenza che Riccardo Misasi, a differenza di tutti i suoi amici della sinistra di Base, non fosse d'accordo sulla non trattativa. Questo sì che è un mistero... Si è parlato di un sacerdote che avrebbe confessato il presidente Moro... È probabile che sia vero. Questa è un'altra mia sconfitta come ministro di allora; ma è una consolazione fortissima sapere che Aldo possa aver avuto un conforto nelle condizioni in cui era costretto. Alla fine di una manifestazione pubblica, si dice che Cossiga abbia incrociato don Antonello Mennini, viceparroco della parrocchia di Santa Chiara e confessore di Moro e si sia rivolto a lui dicendo: "Caro don Antonello, lei ci ha fottuto tutti...", ricevendo in cambio il silenzio di sempre. In un recente convegno a Brescia, Giovanni Moro ha dichiarato che il pensiero di suo padre trattiene tutta la sua storia, compresa la prigione. Cosa pensava Moro della Dc e del Pci, mentre era segregato? Moro non cercava di salvarsi ad ogni costo. Moro combatteva la linea della fermezza anche perché essa era la spia del suo fallimento, nell'aver sperato nella maturazione dei comunisti. Moro credeva che la linea della fermezza comunista fosse una permanenza della concezione statolatrica leninista. Capiva che i comunisti non erano ancora maturi. L'immaginetta di Moro filocomunista è una falsità Moro era durissimo, in privato, nei confronti dei comunisti. Moro non è mai stato un uomo di sinistra. Moro era un cattolico sociale non il cattolico liberale che la gente poteva credere. Per lui lo Stato era un mezzo tecnico non il fine: tra la vita di suo nipotino Luca e lo Stato, Moro sceglieva la vita di Luca. Alla fermezza dei democristiani, Moro, semplicemente, non credeva. E Moro, oggi? Non è certo quello con l'Unità sotto il braccio nel monumento di Maglie. Una assurdità... Cosa le viene in mente, adesso, di Aldo Moro? Mi vengono in mente i giorni tribolati della sua elezione a presidente della Dc. Mi ricordo che Moro mi aveva sentito dire a Gargani di essere almeno un poco riconoscenti nei suoi confronti, dopo tutto quello che gli avevano combinato contro. Allora Moro mi aveva preso in disparte e mi aveva detto, discretamente, a bassa voce, come faceva lui: "Francesco, non pretendere queste cose, la gratitudine dal partito...". Entra la figlia Anna Maria, lo saluta con un calore antisabaudo, senza le mute riservatezze di origine insulare, lo rallegra immediatamente: Papà, i miei amici rifondaroli, i miei amici di Rifondazione comunista sono preoccupati perché si trovano troppo d'accordo con te, negli ultimi tempi. Si riferiscono al tuo atteggiamento sulla guerra... Però, fammi un favore, togliti quegli occhiali, che mi sembri Tarek Aziz... Intanto è già scattata la ragnatela telefonica delle sue sconfinate relazioni. "Ciao Minno, siamo dei giganti... Hai sentito la nuova coppia del secolo, hai sentito che vogliono lanciare la coppia Bassolino Prodi per le elezioni politiche. Eravamo e siamo dei giganti, caro Minno...". Minno, si capisce, è Mino Martinazzoli, grande amico dell'ex presidente della Repubblica. Se non fosse per una sua perfino antropologica alta borghesità, oggi Cossiga potrebbe apparire un monarca democratico senza regno ma con molti soldati in ascolto. Il passaporto del sindaco Groli, in casa Cossiga, del resto, è firmato dal Mino bresciano. Noi ci siamo intrufolati nelle tasche di Francesco Primo, da Sassari, per via di queste libere e comode trafile. Ringraziamo. Ritorniamo in via Montalcini e incontriamo chi parlò e conobbe i terroristi Nella prigione delle Br Dalle 10 del 16 marzo alle 6 del 9 maggio 1978, Moro fu tenuto segregato nell'appartamento al primo piano di via Montalcini, a 11 chilometri dalla sua abitazione, in un quartiere semideserto, senza luci, in una strada larga 2 metri. Non è come oggi, che tutto è grande e chiaro, anche se appare attuale la potenza anonima di una metropoli in grado di nascondere e ingoiare qualsiasi corpo e qualsiasi spirito, al di là di forze dell'ordine impreparate e smontate - come allora - o allenate, come in un tempo ideale. Oggi non ancora, basterebbe pensare ai delitti impuniti di Biagi e D'Antona. Ecco via Montalcini, numero 8, interno 1, una palazzina costruita negli Anni Sessanta da una cooperativa di ingegneri dell'Agip, molto verde, abbordabile, basta suonare. I più, ora, non hanno gli anni giusti, non ricordano quasi nulla. A noi, quasi ossessionati da quel delitto non privato, risulta impossibile non incastrarci in una eco "morotea", in una scheggia viva della prigione. Finchè ci aiuta quel signore di mezza età, che avanza, verso le 15 e affronta il cancello che porta a casa, che fu la prigione di Moro. "Scusi, ci potrebbe dire dove...". Prima c'è diffidenza, qualche sarcasmo annoiato. Quindi intrecciamo conoscenze e amicizie comuni. Lui, il dott. Nicasio Ciaccio, era nella segreteria del ministro Ruffini e del ministro Mattarella, conosceva un bresciano. Ricorda: "... Domenico Bertarini, da Brescia come voi". E noi, amici di Bertarini, che è stato segretario particolare di Mino Martinazzoli quando era ministro di Grazia e Giustizia, ed oltre, gli componiamo il numero telefonico della sua vecchia conoscenza. Dopodichè ci sentiamo praticamente a casa nostra, finiamo subito davanti alla porta, alla stessa porta di allora, della prigione di Moro. Primo piano, due porte d'accesso. Suoniamo, lì dietro, il presidente Moro è stato nascosto per 55 giorni da tre terroristi, Anna Braghetti, Germano Maccari alias ingegner Altobelli e Prospero Gallinari. A far da spola, il capo delle Br, Mario Moretti. La storia di Moro esce dai testimoni diretti. Il dott. Ciaccio ci riferisce che l'ing. Manfredo Manfredi, progettista della palazzina, si era affannato a dire ad un dirigente della Questura romana che quei due - la Braghetti e Maccari - non gli piacevano. Ce lo riferisce adesso, in maniera assolutamente inedita. Dalla Questura avevano assicurato l'ing. Manfredi che la sera dopo, alle 21, sarebbero arrivati due funzionari. Non arrivò mai nessuno, dalla Questura, in via Montalcini. La suocera del dott. Ciaccio, la signora Monterosso, ha 92 anni, è lei ad aver acquistato l'appartamento che fu la prigione di Moro, è lei chi ci abita ancora adesso, assistita da una signora filippina, gentile e irremovibile: "...Qualche occhiata rapida... la signora è stanca...". Dentro è cambiata soltanto la carta da parati, due stanze da letto, un salottino con cucina e la libreria. Il trucco era la libreria a parete: spostata indietro costituiva una prigione rettangolare. Qui Moro ha scritto, pianto, pregato, in meno di 2 metri di lunghezza e 90 centimetri in larghezza. Qui, probabilmente, qualcuno lo ha confessato. Molti parlano di don Antonello Mennini, vice parroco di Santa Chiara. Don Mennini, subito dopo il sequestro finì nunzio apostolico in Africa. È uno dei misteri di un sequestro e di un assassinio mai completamente decifrati, ma solidamente chiari nell'impianto centrale. A poche decine di metri di via Montalcini abitava l'on. Paolo Cabras. Si fosse affacciato alla finestra avrebbe incrociato gli sguardi degli assassini. Una signora ricorda ancora una riunione dei condomini a cui partecipò Anna Braghetti: "Una persona gentile, riservata, nessuno avrebbe immaginato che potesse essere una terrorista. Votava sempre con la maggioranza". Quando il magistrato Imposimato, molto dopo il sequestro, bloccò la zona di via Montalcini e portò sul posto i due brigatisti, Moretti e la Faranda, non c'era altro che registrare il nome dei testimoni al processo. Fu una delle tante incursioni burocratiche di quegli anni. Uno di quei milioni di blocchi spaventapasseri posti a metà tra le troppe anarchie fiancheggiatrici delle Br e la superba, morticida saga della fermezza da parte di chi aveva trattato su ogni cosa e non intendeva trattare su Moro, temendo di riconoscere le Brigate Rosse. Temendo di riconoscere degli assassini che esistevano già al punto di uccidere una persona al giorno, quasi per un ventennio. Questo diventò in quei 55 giorni ed oltre la nostra Italia: totalmente ferma nella sua fermezza. (t. z) Fuori dai palazzi, sepolto nel cuore degli umili a Torrita Tiberina In vita, Aldo Moro, passò giorni sereni a Torrita Tiberina borgo medievale di qualche centinaio di anime a 50 chilometri da Roma, sui primi monti appena fuori l'autostrada, ad un'ora dal suo vecchio appartamento in via del Forte Trionfale; un'ora di strada dall'agguato di via Fani, alle 9 del 16 marzo 1978; ad un'ora di strada da via Montalcini, dove fu assassinato, intorno alle 7, la mattina del 9 maggio 1978. Ad un'ora di strada dal potere e dal calvario. Il camposanto di montagna è grande metà della chiesetta di Santa Chiara. Qui, Moro, ogni mattina si fermava a pregare prima di recarsi all'Università per parlare con una decina di studenti. Tra loro si confondeva il ventenne Sergey Sokolov, agente del Kgb. Quindi, la Fiat 130, che trasportava il presidente della Democrazia Cristiana, avrebbe puntato verso Montecitorio. Con comprovata regolarità. Il camposanto è grande anche quanto la casa di proprietà dei Moro a Torrita Tiberina, appena fuori dal borgo. Dalla casa alla cappella c'è un chilometro. Il presidente Moro, come lo chiamano ancora al paese, li percorreva a piedi, a debita distanza l'inseparabile maresciallo Leonardi. Certo e costante come il canto degli usignoli nelle siepi del camposanto, il saluto dei suoi paesani. "Noi siamo tutti rossi - racconta un anziano - ma per il presidente Moro abbiamo una venerazione. Mi pare di vederlo, camicia bianca, sopra un gilè scuro, il capo reclinato, lui, la moglie Eleonora, i figli, alla messa vespertina...". Il guardiano del camposanto è una donna, ha perso il padre da una settimana, lo piange seduta sulla pietra vicino alla piccola cappella di Moro. " I compaesani - dice - pregano per i loro cari, poi passano dal Presidente. Da fuori non viene più nessuno. Cossiga, fino a un anno fa, alle 7 era già inginocchiato sul gradino della cappella. La moglie Eleonora ha 88 anni, da qualche mese non guida la sua auto. Fatica ad arrivare fino quassù...". Sotto, la campagna degrada fino all'agro irrigato dal Tevere già maestoso, in un circuito a curve quasi solenni, di un verde immoto. Appena di là dal Tevere c'è Poggio Mirteto. Fece scalo il treno con la bara di De Gasperi. Moro lo salutò proprio ai piedi della propria vacanza. Consola immaginare che il suono delle parole rimanga e i due Presidenti continuino a sentirsi più fittamente che in vita. Li ascolta, Terzilio Antonelli, giardiniere di casa Moro, morto da poco, che ha chiesto di essere seppellito vicino alla tomba del Presidente composta nella frase principale di una pietra bianca, solo nome e cognome. Tutti uniti secondo l'inesorabile scansione in ferro scritta sul cancello: Nemini parco (non risparmio nessuno). Democrazia della Provvidenza: ce ne andiamo, alla pari, senza agguati, prigioni del popolo, implacabili fermezze. E sanguinarie esecuzioni in una cantina. Tonino Zana Si apre la saracinesca del garage in cui lo statista democristiano fu ucciso Raffiche su un uomo solo. Le parole scritte degli assassini, le risultanze dei processi, i testimoni confermano che Moro venne assassinato nel garage dove adesso ci troviamo, il sesto garage entrando dalla scala di una ventina di gradini o direttamente dall'ascensore che porta dal primo piano alla cantina della palazzina di via Montalcini. Fu svegliato alle 6, gli fu consegnato il vestito scuro che indossava la mattina del sequestro, sporcato di sabbia e di acqua presa dal mare per deviare le indagini. Gli fu detto di prepararsi, forse fu illuso. Anna Braghetti scese i 20 gradini ed entrò al centro della cantina dei sette garage - nel posto che occupiamo adesso, il sindaco di Castenedolo ed io - intanto che Germano Maccari e Mario Moretti mettevano il corpo vivo di Aldo Moro dentro una cesta di vimini. Fu portato nel sesto garage, la Renault rossa era già parcheggiata con il cofano rivolto verso la saracinesca. Fatto che permetterà alla prof. Giuliana Ciccotti di incontrare la brigatista Braghetti in posizione di vedetta e di intravedere l'auto rossa. Moro viene fatto mettere nel baule dell'auto. Moretti e Maccari lo coprono con un plaid. Moretti spara con una mitraglietta, poi, vedendo che Moro si muove ancora, lo finisce con una pistola messagli in mano da Maccari. Alle 8, la Renault è in via Caetani. Il dott. Nicasio Ciaccio apre la saracinesca, il garage oggi è vuoto. Andiamo subito sul fondo, c'è una specie di incastro murale. È la cella metropolitana di un campo di sterminio, non ha nessun odore, sente soltanto di un'umidità che dirige al cuore del freddo. Per chi ha pietà per la morte naturale di un uomo libero, l'assassinio di un uomo segregato diventa un macigno. Neppure la più insana delle ideologie riesce a sostenere lo sguardo di Moro prima di morire senza sentirsi addosso, permanentemente, la colpa dell'aguzzino. Come fossimo davanti al baule della Renault rossa, il sindaco di Castenedolo, Giambattista Groli, tra i lettori più attenti dell'affare Moro, legge le parole scritte da Mario Moretti nel suo libro, a pag. 160: "...Eppure, Cristo Santo in quel momento Moro mi fa una pena infinita. Nessuno al mondo dovrebbe essere così solo come lui... Non può dire a nessuno: "Muoio, ma so che mi sei vicino"...". Il terrorismo accatasta queste pietà postume in modo più ordinato dei 100 pezzi di legna nel garage. C'è un'irraggiungibile abilità delle Brigate Rosse nel tenere in pugno la vita di Moro, la mitraglietta del suo assassinio, i pentimenti editoriali e le recriminazioni nella trattativa. A ciascuno il suo: non tocca alle Br meditare sulla trattativa o meno. Alle Br tocca dar conto che dolore, inestinto, che hanno procurato. Scattiamo la foto che vedete nel lager di Moro. Per noi, della generazione del primo delitto nel cuore dello Stato, è come per un americano fotografare il deposito di libri a Dallas da cui sparò l'assassino di Kennedy. In questo garage, inizia, forse, l'estinzione della Dc, deflagra il pianeta della sinistra. Nel baule della Renault rossa mutano, radicalmente, la direzione e il senso della nostra storia. Eppure, colpisce più di ogni ragionamento, la commozione e la colpa per una delle più alte solitudini del nostro tempo. (t. z.) freccia rossa che punta in alto

10 Maggio 2003 (Corriere della Sera)

TORINO - La certezza di essere in trincea la davano i morti ammazzati per via di quel processo che i brigatisti non volevano far celebrare. E poi le scorte, lo stato d'assedio in cui sembrava vivere la plumbea Torino, sede del giudizio contro il «nucleo storico» delle Brigate rosse che si preparavano a sequestrare Aldo Moro, dopo aver rapito e rilasciato, nel 1974, il giudice Sossi e assassinato magistrati e uomini delle forze dell'ordine. Finché, a processo in corso, non giunse la notizia dell'omicidio di Moro. Il dibattimento aveva già subito due rinvii in due anni, scanditi dall'uccisione del procuratore generale di Genova Coco insieme con i due agenti di scorta (1976) e dell'avvocato torinese Fulvio Croce, 1977. Dopo quel delitto non si trovavano cittadini disposti a far parte della giuria della corte d'assise, e il 3 maggio del '77 il presidente della corte Guido Barbaro entrò in aula per annunciare che «la composizione del collegio risulta impossibile e non si può procedere a ulteriori estrazioni... La corte rinvia tutte le cause a tempo indeterminato». Il presidente Barbaro oggi è un anziano signore che si gode la pensione, ma non dimentica quei giorni infuocati. Né il senso di sconforto che lo pervase quando dovette ammettere che lo Stato stava perdendo: «Avevamo già avuto il problema di assicurare le difese d'ufficio agli imputati che le rifiutavano, e l'omicidio Croce mi colpì perché io stesso l'avevo coinvolto, in quanto presidente dell'ordine degli avvocati, nella vicenda che avrebbe portato al suo assassinio. Il rinvio fu una sorta di dichiarazione di resa, e ammetto che quel giorno pensai che non ce l'avremmo fatta a celebrare il processo; forse bisognava pensare a dei tribunali "ad hoc", con qualche procedura particolare. Invece nei mesi successivi ci fu come un risveglio delle coscienze». Risveglio favorito anche dal fatto che nel 1978 tra i giurati popolari fu estratta Adelaide Aglietta, allora segretario del partito radicale, la quale accettò l'incarico: «Fu molto significativo che un politico, seppure di opposizione, desse un esempio di sensibilità e senso civico che aiutò nell'impresa di comporre il collegio», dice Barbaro. La prima udienza fu convocata per il 9 marzo '78, e il giorno dopo le Br sparsero nuovo sangue, uccidendo proprio a Torino il maresciallo di polizia Rosario Berardi. Il rosario dei delitti legati al processo contro i capi storici dell'organizzazione (Curcio, Franceschini, Ferrari e altri) proseguì l'11 aprile, con l'uccisione dell'agente di custodia Lorenzo Cotugno, e il 21 giugno col commissario di polizia genovese Antonio Esposito, ammazzato mentre la corte d'assise si ritirava in camera di consiglio. Morti di venticinque anni fa, per i quali - a differenza del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro - non ci sono state e non ci saranno celebrazioni particolari.
«Quel clima di violenza - racconta Barbaro - ci dava certamente la sensazione di essere in guerra, ma io, il giudice a latere e i giurati popolari cercammo di non farci influenzare. Dovevamo garantire lo svolgimento del processo, e avevamo già i nostri problemi coi continui proclami degli imputati, gli sgomberi dell'aula disposti nel rischio costante di disordini». Proclami di morte diretti anche contro Barbaro, al quale i brigatisti chiusi nelle gabbie promisero il destino di Moro. «Quando il presidente della Dc fu rapito non era giorno d'udienza - ricorda l'ex-presidente -, ma ovviamente quel fatto incise sul dibattimento». Per via dell'entusiasmo e delle nuove dichiarazioni di guerra inscenate dai terroristi, ma anche per le bizzarre richieste che arrivarono al giudice Barbaro. «Mi chiamava spesso da Roma il procuratore generale Pascalino (il quale aveva avocato le indagini sul sequestro, ndr ), insistendo perché mi facessi dire dagli imputati dov'era nascosto il presidente democristiano. Richiesta poco plausibile, sia perché il caso Moro non rientrava nella materia del processo, sia perché gli imputati non avevano mai mostrato alcun atteggiamento collaborativo. Anzi. In quella circostanza mi resi conto che lo Stato stava opponendo ben poco alle Br, che davvero a Roma non sapevano dove sbattere la testa se erano ridotti a chiedere aiuto a me, che già avevo i miei guai». Una prima linea senza retrovie, insomma. «Eh...», annuisce Barbaro a conferma di una sensazione che fu tragicamente confermata il 9 maggio, con la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. L'indomani, in apertura d'udienza, Renato Curcio chiese la parola per leggere un comunicato dei brigatisti detenuti in cui si definiva l'omicidio dell'ostaggio «il più alto atto di umanità possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari in questa società divisa in classi». Il presidente della corte espulse dall'aula sia lui che il suo compagno Franceschini. Soprattutto da ambienti della destra il comportamento del giudice Barbaro fu criticato per il presunto «lassismo» nei confronti dei brigatisti imputati. «Ma io che non sono mai stato di sinistra - ribatte il giudice -, ho semplicemente cercato di applicare la legge nel modo migliore. E di ricavare il più possibile dall'atteggiamento degli imputati. Per esempio, quando Franceschini gridò dalla gabbia rivendicando che le Br trattavano i loro prigionieri molto meglio di quanto non facesse lo Stato, dicendo che a Sossi loro preparavano i risotti, per noi fu una confessione che poi valutammo come tale in camera di consiglio. Di fatto concedemmo l'autodifesa, ma nell'interesse dello Stato, non solo dei brigatisti». La giuria si ritirò per emettere il verdetto alla fine di giugno, e fioccarono condanne pesanti: «Noi non dovevamo giudicare nessun omicidio; per assurdo che possa sembrare, codice alla mano la pena più grave era prevista per la rapina a mano armata della borsa di Sossi, allora punita con rigore maggiore rispetto al sequestro di persona. In ogni caso riuscimmo a condurre in porto un processo che è stato il più difficile della mia carriera, ma anche quello più importante, che mi ha dato, dal punto di vista professionale, maggiori soddisfazioni». E' un venticinquennale anche questo, forse l'unica vittoria dello Stato nella guerra contro il terrorismo brigatista conseguita in un periodo carico di sconfitte. «La vera riscossa ci fu soltanto dopo, con l'arresto di Peci, il suo pentimento, e poi le altre collaborazioni - ricorda Barbaro -. Nel 1978, invece, la sfida di quel processo fu davvero difficile. Riuscimmo comunque a superarla, e dopo la sentenza il generale Dalla Chiesa mi consigliò di andarmene una settimana a Bardonecchia, per motivi di sicurezza. Cosa che feci. Lì mi chiamò il giudice Caselli, che aveva istruito il processo, per dirmi che il ministro della Giustizia desiderava parlarmi. Mi chiedeva di andare a Roma. Io risposi che ero un magistrato, e non ricevevo ordini né convocazioni da un ministro». Un moto d'indipendenza? «D'indipendenza e insofferenza. Per tutti i mesi del processo non s'era sentito nessuno, né dal governo né dal Consiglio superiore della magistratura. Era come se ci avessero lasciato la patata bollente tra le mani. Nessun vittimismo, per carità, ma a cose fatte preferii rimanere nel mio ruolo solitario del giudice». freccia rossa che punta in alto

13 Maggio 2003 (Dagospia)
MORO PER SEMPRE - "PIAZZA DELLE 5 LUNE" VISTO E RECENSITO DA GIOVANNI FASANELLA E DA UN LETTORE: TUTTA CIA, NIENTE KGB...

Riceviamo e pubblichiamo:
RECENSIONE N°1: Caro Dagospia, la sera di venerdì 9 maggio, in Piazza del Campo, a Siena, c'erano almeno 10 mila persone ad assistere all'anteprima mondiale di Piazza delle Cinque Lune, il film che Renzo Martinelli ha dedicato al caso Moro. Se è successo, vuol dire che il tema continua ad appassionare e che la vicenda, almeno nella coscienza dell'opinione pubblica, è ancora aperta. Il film, nel complesso, è bello, anche se non privo di difetti. Rosario (Donald Sutherland) è un magistrato senese a un passo dalla pensione. Proprio il giorno in cui sta per lasciare la magistratura, un ex brigatista rosso gli fa avere un super8 con le immagini scioccanti del sequestro compiuto 25 anni prima in via Fani, a Roma: provano che all'azione parteciparono anche terroristi mai identificati, smentendo tutte le ricostruzioni ufficiali. Mosso anche dall'umano desiderio di riscattare una carriera senza infamia e senza lodi, Rosario decide di riaprire il caso, avvalendosi del contributo della sua ex aiutante (Stefania Rocca) e della sua ex guardia del corpo (Giancarlo Giannini). E partendo proprio dalle incongruenze delle versioni ufficiali, alla fine della sua inchiesta Rosario si troverà di fronte a una realtà sconvolgente: le Brigate Rosse erano eterodirette dalla Cia, che ideò il sequestro Moro per bloccare il compromesso storico... La trama è avvincente. Anche se a tratti, l'ansia di dare informazioni rende i dialoghi didascalici e spezza il ritmo del racconto. L'altro difetto del film, solo in parte attenuato da qualche richiamo alla logica di Yalta (Moro era malvisto sia a Ovest che a Est), è che l'inchiesta del giudice Rosario marcia in una sola direzione, evitando accuratamente di approfondire i legami -che pure sono documentati-tra le Br e i servizi segreti dei paesi ex comunisti. È un vero peccato. Piazza delle Cinque Lune, caro Dagospia, è comunque un film da vedere e su cui discutere. E magari anche polemizzare. È meglio, è molto meglio della palude. A presto. Giovanni Fasanella.
RECENSIONE N°2: Salve 'Dagospia', ti scrivo poche ore dopo aver visto l'anteprima nazionale del film sul rapimento di Aldo Moro "Piazza delle 5 lune", anche in considerazione del fatto che (grazie al cielo) pubblicate spesso news, scoop, lettere e quant'altro in merito a quello scottante argomento... Da studioso dell'argomento (ma poco esperto di cinema...) posso dire che la fotografia è veramente molto bella, gli attori (Giannini su tutti) decisamente bravi, buona la colona sonora, compresa la canzone di chiusura, scritta ed interpretata da quello che 25 anni fa era il "piccolo Luca" citato con così tanto affetto nelle lettere dalla 'prigione del popolo'. Per quanto riguarda la ricostruzione dei misteri inerenti i 55 giorni del rapimento Moro ovviamente ci sarebbe molto da dire.
Ovviamente per ricostruire al meglio certe scene si è lasciato spazio a qualche imprecisione, per esempio il Colonnello Gugliemi del servizio segreto militare (nonché 'gladiatore') non era (come si vede nel film) in Via Fani durante l'agguato bensì in Via Stresa... il chè ovviamente non cambia la sostanza dei fatti, cioè che un colonnello dei servizi segreti era quella mattina a 2 passi dal luogo della strage e nonostante ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli -secondo la sua testimonianza- non sentì nulla di ciò che avveniva ne tanto meno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse accadendo. E ricordo che il particolare più inquietante è che il Guglielmi non era un gladiatore qualsiasi, bensì colui che nel campo di addestramento sardo di Capo Marragiu si occupava dell'addestramento delle truppe per le azioni di comando... Comunque, al di là dell'imprecisione, la ricostruzione dell'agguato è piuttosto buona, ivi compresa la (secondo me) veritiera teoria del killer esterno alle Br che aiutò il gruppo e che sparò buona parte dei 91 colpi esplosi dai terroristi risolvendo le situazioni più complesse dell'azione militare. Ci sarebbero stati da aggiungere alla sceneggiatura altri interessanti 'misteri' insoluti, ma capisco che un film ha dei tempi da rispettare... Per il resto il regista ha infatti costruito una sceneggiatura che ricalca in tutto e per tutto le teorie e gli scritti dell'ex Sen. Flamigni (anch'egli presente in prima fila in Piazza del Campo), dunque un'accusa piuttosto diretta nei confronti della CIA, della P2, e dell'anomalo Mario Moretti (così viene definito nel film), che in buona sostanza altro non sarebbe che un agente infiltrato nelle Br. Nulla, ma proprio nulla sul ruolo del Kgb (riemerso anche di recente in commissione Mitrokin), del Mossad, dei servizi cecoslovacchi; nulla sulle trattative tra i brigatisti e chi voleva mettere le mani sul "Memoriale" (prima) e sull'Onorevole Moro (poi...) nè -ovviamente- sui 'misteriosi intermediari' (vedi libro di Rocca e Fasanella). Il film appare forse un pò sbilanciato verso una certa teoria del complotto ordito dalla CIA, mentre ignora il fatto (emerso grazie al Dossier Mitrokin anche durante i lavori della Commissione Pellegrino) che a costruire ed indirizzare la colpa verso la CIA fu proprio un lavoro del Kgb, servizio molto efficace nell'arte della disinformazione. Nel complesso però (benchè ai non addetti ai lavori possa sembrare forse un pò pesante vista la mole e la complessità degli avvenimenti...) è decisamente un buon film, da vedere e consigliare agli amici. Soprattutto mi auguro che la sua uscita serva ad innescare quel 'mare di polemiche', di smentite e di querele (uno sport squisitamente italiano...) utile però al mantenimento dell'attenzione sull'argomento... anche perchè, a mio avviso, non si potrà parlare seriamente di 'seconda repubblica' fino a quando esisterà quell'oceano di segreti, sospetti, ombre che circonda la vecchia 'prima repubblica'. saluti Roberto. freccia rossa che punta in alto

21 maggio 2003
TERRORISMO: MASTELLONI, ANCHE INDAGINI INTERNE BR SU MORETTI

- Le Brigate Rosse in più occasioni avrebbero avviato delle indagini interne per capire se Mario Moretti era un "infiltrato" senza però arrivare mai ad alcun risultato che potesse mettere in dubbio il suo ruolo di capo. Lo rileva il giudice veneziano Carlo Mastelloni, che negli anni '80 istruì l' inchiesta sulle Br venete, con un troncone d' indagine riguardante le attività del Superclan (presunta organizzazione che avrebbe avuto Moretti tra i suoi animatori) e del centro culturale parigino Hyperion. "L' unico dato che può far pensare ad un legame con strutture occulte, cioè esterne alle Br, è il fatto - aggiunge, prendendo spunto da un articolo apparso oggi sul "Corriere della Sera" - che Moretti militò per pochi mesi nel Superclan, alla fine degli anni '60, per poi uscire da questa struttura". Il magistrato ricorda che il Superclan aveva come obiettivo "l'infiltrazione nelle stesse Br e nel potere istituzionale". Da questa stessa realtà "nacquero le primissime cellule clandestine". Gli aderenti al Superclan "furono anche i primi - sostiene Mastelloni - a teorizzare che qualora incarcerati dovessero cercare proseliti nella malavita comune come poi avrebbero fatto i Nuclei Armati Proletari (Nap) a metà degli anni '70". Secondo il giudice, il Superclan voleva diventare comunque "la 'testa' delle Br". Le indagini avrebbero accertato, sottolinea il magistrato, la presenza dei vertici dell' Hyperion a Roma nel dicembre '77, ma "non si è mai avuto un riscontro diretto della loro partecipazione all' evento più traumatico della vita politica, cioè il sequestro Moro avvenuto alcuni mesi dopo". Gli stessi vertici del centro culturale parigino erano stati tratti in arresto dal giudice Mastelloni sulla base di dichiarazioni fatte da alcuni brigatisti, tra cui Antonio Savasta, ma erano infine risultati estranei alle accuse. "Su determinati eventi - conclude Mastelloni - ci sono ancora solo sospetti. Evidentemente non è più il tempo della Politica e non è ancora il tempo della Storia: ci troviamo in una sorta di limbo, uno stallo conoscitivo ed anche emotivo". freccia rossa che punta in alto

21 maggio 2003 (Il Corriere della sera)
FRANCESCHINI SUL CASO MORO

- Mario Moretti? Venticinque anni dopo la morte di Aldo Moro, il film "Piazza delle Cinque lune", di Renzo Martinelli, mette sotto accusa le carenze d'indagine sull'uccisione del leader dc. Per il fondatore delle Br Alberto Franceschini, una congiura copre i misteri del caso, garantiti dal silenzio degli ex br che ne furono protagonisti, a partire da Mario Moretti. Dice Franceschini: "Moretti era un infiltrato dei servizi segreti di chi utilizzava anche la lotta armata per garantire gli equilibri di Yalta". "Mario Moretti era un infiltrato Cia e Kgb dietro il caso Moro".
Il fondatore delle Br Franceschini: "Giusti i dubbi posti dall'ultimo film". ROMA - Quando si accendono le luci del cinema e sullo schermo c'è ancora il nipote di Aldo Moro che canta "Maledetti voi, signori del potere...", l'ex brigatista Alberto Franceschini si scopre a piangere: "Mi sono commosso, perché è esattamente il film che avrei voluto vedere". Renzo Martinelli, regista di "Piazza delle Cinque lune - il thriller del caso Moro" , si scopre invece arrabbiato: "Abbiamo detto cose fortissime, ci sono accuse violentissime contro personaggi pubblici come il capo brigatista Mario Moretti o l'ex presidente Cossiga, eppure su una denuncia così radicale è scesa un'inspiegabile cortina di silenzio". Franceschini cerca di spiegargliela: "È una tecnica, meglio non parlarne che essere costretti a rispondere su certe cose". Il cineasta e l'ex terrorista sono sostanzialmente d'accordo: una congiura copre i misteri del caso Moro, garantiti dal silenzio degli ex br che furono protagonisti del sequestro e dell'omicidio del leader democristiano. A cominciare da Mario Moretti, la mente dell'operazione. Nel film si dice senza giri di parole che è una spia, il braccio operativo di interessi che superano i confini italiani e quelli dell'Atlantico, fino agli Stati Uniti. "Ogni volta che in questa storia compaiono i servizi segreti, dietro c'è la figura di Moretti", dice un protagonista nel mezzo di un dialogo che riassume le presunte trame oscure del delitto di 25 anni fa. E Franceschini, che di Moretti fu compagno d'armi ai tempi delle prime Br, che cosa ne pensa? Di dubbi sul capo che prese il posto suo e di Renato Curcio dopo il 1974 l'ex terrorista ne ha seminati tanti, in questi anni. Dopo la visione di film la domanda non può che essere diretta: allora Moretti era una spia? Vi ha giocati tutti quanti? "L'espressione spia non mi piace - risponde Franceschini -, preferisco parlare di infiltrato". Da parte di chi? "Del terzo livello". Un termine nuovo, per il terrorismo. È stato usato molto (e anche un po' a sproposito) per la mafia, non per la lotta armata. Che vuol dire? "Il primo livello - spiega Franceschini - era il movimento rivoluzionario e il secondo le Br, che quel movimento infiltrarono al fine di reclutare militanti. Poi c'è stato il terzo livello, rappresentato da chi utilizzava anche la lotta armata per garantire gli equilibri del mondo sanciti a Yalta, nel 1945, quando l'Est e l'Ovest rappresentati da Roosevelt, Churchill e Stalin si spartirono il mondo". Anche nel film si fa riferimento a Yalta, come alla scuola di lingue parigina chiamata Hyperion, gestita da un gruppo di "compagni di strada" dei primi brigatisti, ai quali Moretti - secondo l'interpretazione del regista e anche di Franceschini - era rimasto collegato. Nella pellicola si dice chiaramente che l'Hyperion era una stazione della Cia, Franceschini ritiene invece che fosse "una sorta di stanza di compensazione tra diversi Servizi segreti; la Cia, certo, ma anche il Kgb, il Mossad e i servizi tedeschi". I discorsi s'intrecciano e sembrano sfiorare, a tratti, la fantapolitica applicata agli anni di piombo. Come si spiega, infatti, che decine di pentiti e dissociati (a tutti i livelli dell'organizzazione) non abbiano mai voluto o saputo dire niente sui sospetti riguardanti Moretti o altre "stranezze" del caso Moro? "Piazza delle Cinque lune " - racconta il regista - parte dalle anomalie dei 55 giorni della primavera 1978, dal sequestro all'omicidio di Moro, e smaschera "le menzogne" raccontate su alcuni passaggi-chiave della vicenda: dalla strage di via Fani alla scoperta del covo di via Gradoli, dalla prigione alla tipografia clandestina. Secondo gli autori del film niente torna delle versioni brigatiste, mentre tutto (o quasi) si spiegherebbe con la loro interpretazione dei fatti. E un "padre fondatore" delle Br come Franceschini è d'accordo. "Perché i brigatisti dicono che ci fu un ripetuto tamponamento in via Fani quando sulle macchine non ce n'è traccia?", domanda Martinelli che poi allarga il discorso: "Se mentono su un particolare del genere possono mentire su tutto". Anche molte "verità" inserite nella sceneggiatura, però, sembrano contrastare con testimonianze e ricostruzioni (per esempio sulla prigione, o sulla tipografia di via Pio Foà) raccolte negli atti giudiziari senza che siano emerse contro-verità attendibili. Ma il regista è comunque soddisfatto della telefonata ricevuta dalla vedova di Moro, la signora Eleonora, silenziosa da 25 anni, che l'ha chiamato prima ancora che uscisse il film per dirgli: "Se lei sapesse com'è sporca la verità di questa storia, forse sarebbe meglio lasciar fare a Dio". E Franceschini ricorda che il primo a sospettare, nelle Br, che Moretti era una spia non fu lui ma Curcio; e rammenta una frase che gli disse Moretti, in carcere, quando lui era in procinto di dissociarsi: "Se pensi di vendere le Br ti sbagli, l'unico che può farlo sono io". Nella storia delle Br c'è anche una sorta di inchiesta interna sul conto di Moretti, che non approdò a nulla. E nei racconti di pentiti e dissociati non c'è grande spazio per le "dietrologie" che si intravedono nel film, e prima ancora in tanta letteratura. "Perché nelle galere c'è stata la contrattazione su quello che si doveva e non si doveva dire - accusa Franceschini - e il silenzio è stato pagato con la libertà o i benefici di legge a favore degli ergastolani". C'è però il particolare che almeno un br che partecipò all'agguato di via Fani sta ancora in galera, e che i misteri veri o presunti del caso Moro - a parte la fine che ha fatto l'originale del memoriale scritto dallo statista ostaggio delle Br, su cui s'interrogò per primo il generale Dalla Chiesa - sembrano gravare più sulle azioni dello Stato che su quelle delle Br. Ma il regista e l'ex terrorista insistono e lanciano una fida: "Perché chi si dovrebbe sentire quantomeno diffamato dalle nostre affermazioni non ci denuncia? Forse sarebbe un modo per verificare chi mente". freccia rossa che punta in alto

22 maggio 2003 (Il Corriere della sera)
CASO MORO: COSSIGA REPLICA A FRANCESCHINI

- Francesco Cossiga sul caso Moro: non credibili le accuse di Franceschini sugli infiltrati nelle Br "Moretti spia? Tesi da ex Pci, gli do la mia solidarietà" "Gli stessi terroristi si offendono se si dice loro che sono in carcere per essere stati usati dalla Cia" - ROMA Senatore Cossiga, l'ex brigatista rosso Alberto Franceschini, dopo avere assistito al film sul sequestro di Aldo Moro - "Piazza delle Cinque lune" - accusa Mario Moretti, il regista del sequestro, di essere un infiltrato di servizi segreti stranieri e sostiene che il rapimento del presidente dc fu ideato per non alterare gli equilibri stabiliti a Yalta da Stalin, Churchill e Roosevelt. Ritiene plausibili queste affermazioni? Francesco Cossiga all'epoca del delitto Moro era ministro dell'Interno. Si dimise dopo la scoperta del corpo del presidente dc in via Caetani, proprio per non essere riuscito a salvargli la vita. Cossiga era un intimo di Moro. L'ex ministro scuote la testa. "La verità è più semplice: le Brigate rosse considerarono un grande tradimento della causa comunista l'alleanza tra il Pci e il nemico di classe. Ritenevano, dato il malessere sociale esistente nel Paese, che né Pci né sindacati fossero in grado di gestirlo. Pensavano che, innescando un meccanismo a catena, si costringesse lo Stato a una reazione indiscriminata così violenta da spingere le masse a grandi movimenti e il Pci a diventarne la guida". Una pausa e, con il consueto gusto per sarcasmo, aggiunge: "Colgo l'occasione per esprimere, io acerrimo suo nemico, solidarietà a Mario Moretti". Non le sembra un po' esagerato visto che l'"ingegner Borghi" è uno dei carnefici del suo maestro Moro? "No. Franceschini, mi risulta, gode del disprezzo generale, non solo dei brigatisti rossi, ma di tutta l'area dell'Autonomia operaia. Costoro si pongono il problema perché lui dica quelle cose e abbia chiesto - per avere copertura, dico io - di iscriversi ai Ds. D'altronde ciò che afferma oggi va stranamente a innestarsi in quell'affascinante libro di fantapolitica, Il misterioso intermediario , di Fasanella e Rocca, edito da Einaudi, nel quale si sostiene, in sintesi estrema, che Est e Ovest furono d'accordo nell'eliminazione di Moro". Torniamo alle parole di Franceschini, perché non la convincono? "Franceschini ripete una tesi cara ad alcuni ex comunisti, come Flamigni, e ad ambienti ultramorotei. Per loro dietro l'uccisione di Moro c'è stata la Cia, su mandato espresso di Kissinger, e naturalmente i servizi segreti italiani. A ciò si aggiunge una corrente di pensiero, tra il fantapolitico e il fantacriminale. Questa corrente immagina che le cose del mondo siano trattate in segreto da una sinarchia, il governo mondiale, del quale l'intermediario misterioso, cioè Igor Markevic, sarebbe uno strumento. Gli stessi brigatisti si offendono se si dice loro di essere stati eterodiretti dalla Cia, Kissinger e la sinarchia". Neppure lei sembra crederci... "Tutta questa costruzione gotica ha un solo scopo: non volere ammettere una cosa estremamente semplice e cioè che in Italia il Pci è dovuto rimanere fedele allo spirito di Yalta e la radice della lotta alle Brigate rosse è proprio questa, oltreché quella, per il Pci, di doversi accreditare come forza di governo per il Paese. Indulgere alle tesi delle Br avrebbe portato a favorire la rivoluzione e quindi lo scoppio di una guerra civile". Franceschini accusa Moretti di essere un infiltrato di servizi segreti. Perché lo fa? "Non lo so. Sono propenso a credere che ritorni la tesi di certi ex comunisti e di settori degli ex dc, che vogliono compiacere la famiglia di Moro. Per loro Moro deve essere vittima di un complotto reazionario di destra, ordito dagli americani. Aggiungo poi che mi sono chiari gli scopi di chi sostiene la tesi dell'oscurità, un modo questo per difendere l'allora segretario dc Benigno Zaccagnini, fautore della fermezza e sostenitore della tesi secondo cui dietro il sequestro ci fosse la Cia, circostanza questa che è stato dimostrato essere il prodotto dell'attività del Kgb attraverso i cosiddetti agenti di influenza". E che cosa ne pensa? "Se proprio si vuole essere fantasiosi perché non prestare ascolto al dossier Mitrokhin: lì si sostiene che Moro fu sorvegliato da uno studente poi rivelatosi una spia del Kgb". freccia rossa che punta in alto

(da Misteriditalia.com)
CASO MORO: L'ETERNA POLEMICA TRA DIETROLOGI E AVANTOLOGI

- Con il 25/mo anniversario della morte, per mano delle Brigate Rosse, di Aldo Moro, puntualmente, è scoppiata la polemica sui numerosi misteri che ancora circondano la vicenda. Due le scuole di pensiero che continuano a fronteggiarsi: quella di chi dice che, appunto, i "buchi neri" del caso Moro sono ancora molti e sempre più inquietanti e chi, all'opposto, sostiene che ormai tutto è chiaro e che chi pensa il contrario pecchi della più infamante delle accuse: la dietrologia. Esponenti di punta di queste due posizioni, tanto divaricate, sono stati per l'occasione un film ed un libro. Il film è firmato da Renzo Martinelli e si intitola Piazza delle Cinque Lune. Il libro, invece, è Odissea nel caso Moro ed è stato scritto da un'archivista del Senato, Wladimiro Satta. Film e libro sono le due facce di una stessa medaglia e nulla c'entrano, entrambi, con i legittimi e concreti dubbi che il caso Moro ancora solleva ad un quarto di secolo di distanza. Cominciamo dal film: un brutto film con una brutta sceneggiatura. Noioso e pedissequo in blocco (se non fosse per la bella ricostruzione filmata del sequestro di Moro in via Fani e della strage della sua scorta), il film sposa appieno le tesi, più fantasiose che dietrologiche, che Sergio Flamigni, ex senatore, già componente della commissione parlamentare sulle stragi ed ora consulente storico del film di Martinelli, ha esposto in diversi suoi libri. Intendiamoci: molte delle cose che Flamigni ha descritto nei suoi libri sono reali. Ma profondamente avventate, invece, le sue conclusioni di insieme: le BR infiltrate dalla CIA; la scuola Hyperion di Parigi (testuale) "base più importante della CIA in Europa"; un personaggio alquanto ambiguo come Mario Moretti addirittura agente della CIA (tesi quest'ultima sostenuta anche da un ex BR della prima ora come Alberto Franceschini). Conclusione: la CIA, travestita da BR, rapì Moro per impedire al PCI di portare a termine il compromesso storico con la DC. Domanda inevitabile: perché allora la CIA non si limitò ad eliminare Moro, magari proprio in via Fani, senza esporre la stessa agenzia ed i suoi infiltrati a 55 giorni di gestione del sequestro? Sul versante opposto, quello tranquillizzante e altrettanto patetico, si pone invece il libro del candido Satta il quale, con una documentazione monumentale, ma basandosi solo sulle carte e non sfruttando mai un ragionamento politico, arriva alla conclusione opposta a quella di Martinelli/Flamigni: tutto chiaro, nel caso Moro non c'è un mistero che sia uno. Insomma "tutto va ben madama la marchesa". Un solo esempio per capire i metodi opposti seguiti da Martinelli/Flamigni da un lato e da Satta dall'altro per accreditare le proprie tesi speculari. Uno dei primi, veri, misteri del caso Moro riguarda l'uomo che in via Fani sparò, da solo, più della metà dei colpi di arma da fuoco sparati contro la scorta del presidenete della DC. Chi era costui? Per il duo Martinelli/Flamigni, manco a dirlo, l'uomo era un agente dei servizi segreti. Per Satta, invece, il superkiller in questione, semplicemente, non esiste. Tra le argomentazioni portati a questa tesi dallo stesso Satta ne citiamo due: a) anche se le perizie dicono il contrario, quei 49 colpi furono sparati da due armi diverse, quindi non c'è un superkiller, ma due killer normali; b) nessuno dei brigatisti ascoltati nei processi o davanti alla commissione stragi ha mai parlato di un superkiller infiltrato. E tanto basta. Ora, se a smentire la prima argomentazione continuano ad esistere le perizie. A smontare la seconda basta il buon senso: se le BR erano davvero infiltrate, come pensare solo lontanamente che lo avrebbero ammesso davanti a dei giudici o a dei parlamentari? Ma, purtroppo, Satta non ci arriva. Lui legge le carte. Fa uno più uno e tira la somma. Senza la minima capacità di analisi politica, qualità, peraltro, non richiesta ad un archivista. Al di là, quindi, delle tesi precostituite e visionarie di Martinelli/Flamigni e dell'ingenuo candore di Satta, resta, nel caso Moro, una mole impressionante di interrogativi irrisolti. Roberto Chiodi, giornalista che del caso Moro si è a lungo occupato, sul Velino ha provato ad elencarli. Eccoli: 1) chi fu il killer misterioso che sparò quasi la metà dei colpi esplosi in via Fani stando sulla destra delle auto bloccate dai brigatisti? 2) Che fine ha fatto l'originale del memoriale Moro e quali sconvolgenti segreti conteneva? 3) Gli omicidi del giornalista Mino Pecorelli, del colonnello Antonio Varisco e del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa in che misura sono legati alla sparizione di quei documenti? 4) Dove fu tenuto prigioniero lo statista democristiano? 5) Oltre alla base di via Montalcini in quale altra "prigione del popolo" (dalle parti del Ghetto) fu nascosto negli ultimi giorni di vita, quando qualcuno gli promise la libertà? 6) Chi fornì a Romano Prodi e ai suoi amici l'indicazione "Gradoli" che, se presa nella giusta considerazione, avrebbe consentito l'arresto di Mario Moretti, artefice e "dominus" di tutta l'operazione? 7) Come spiegare che Valerio Morucci, presente in via Fani e uno dei killer accertati e confessi, si fosse rifugiato in una abitazione frequentata da una spia al servizio dell'URSS (il padre di Giuliana Conforto)? 8) Perché non si è mai voluto chiarire un particolare all'apparenza banale e cioè che, al momento del sequestro, Moro subì la frattura di due costole? 9) Chi fece la soffiata ai giornali che mandò all'aria l'intera "operazione Hiperyon"? 10) Nell'appartamento fiorentino di chi si riuniva la "commissione strategica" che decideva mosse, strategia e comunicati? Chi volesse un altro assaggio di questi stessi interrogativi deve considerare che esiste molto materiale in giro (ad esempio il bellissimo il libro di Silvio Bonfigli e Jacopo Sce Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos edizioni). freccia rossa che punta in alto

23 maggio 2003 (Diario)
IL CASO MORO E "L'ANELLO", MISTERIOSO SERVIZIO SEGRETO
Moro e il signore dell'Anello di Paolo Cucchiarelli

- È la chiave del caso Moro. Cercata, invano, per anni. Oggi comincia a emergere. E offre nuove spiegazioni non solo di quel sequestro, ma anche di tanti altri affari oscuri d'Italia. Aiuta a ricomporre i frammenti della tragedia del presidente democristiano, rapito 25 anni fa dalle Brigate rosse, ma anche del caso Cirillo, della fuga di Kappler, (il responsabile delle Fosse Ardeatine), di traffici di armi e di petrolio. Dal dopoguerra alla metà degli anni Ottanta ha operato in Italia un superservizio segreto, clandestino, alle dipendenze informali della presidenza del Consiglio. Nome in codice: l'Anello. Questo superservizio, pochi giorni dopo il rapimento di Moro, individua il "covo" br di via Gradoli, a Roma, comunica la notizia a Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, e a un dolente Francesco Cossiga, ministro dell'Interno. Ma l'ordine è: restare fermi. "Moro vivo non serve più a nessuno", è la conclusione di Andreotti. L'Anello e le sue attività sono oggetto di un'inchiesta in via di conclusione a Roma. Il pubblico ministero Franco Ionta ha da poco chiesto al giudice per le indagini preliminari di archiviare il caso, poiché ormai nessun reato è ipotizzabile o perseguibile, anche perché in molti casi è già scattata la prescrizione. Ma è stata la Procura di Brescia a imbattersi per prima in una misteriosa struttura, chiamata "Noto Servizio", di cui si faceva cenno in alcuni dei documenti ritrovati anni fa in un archivio abbandonato di via Appia Nuova, a Roma, dove erano state stivate alla rinfusa carte dell'Ufficio Affari Riservati (il progenitore del servizio di sicurezza civile, il Sisde). Del "Noto Servizio" - in realtà oscuro e assolutamente ignoto - si è parlato in pubblico per la prima volta nel novembre 2000, quando la procura di Brescia invia alla Commissione parlamentare sulle stragi un rapporto del perito Aldo Giannuli, lo scopritore della "discarica" dei servizi sull'Appia Antica. Oggi il "Noto Servizio" ha un nome e un volto: è l'Anello, organizzazione clandestina degli apparati di sicurezza, operativa dal 1948 alla metà degli anni Ottanta, formata da ex ufficiali badogliani, ex repubblichini, imprenditori, faccendieri, giornalisti, in grado di reclutare (almeno part-time) uomini della malavita e della criminalità organizzata. Personaggi di punta dell'Anello, negli anni cruciali del caso Moro e del rapimento Cirillo, sono Adalberto Titta, il sedicente "colonnello del Sismi" che trattò con i camorristi la liberazione dell'assessore democristiano Ciro Cirillo; il senatore missino Giorgio Pisanò; il faccendiere Felice Fulchignoni; l'imprenditore Sigfrido Battaini; il religioso Padre Enrico Zucca, entrato nelle cronache per aver trafugato, nell'immediato dopoguerra, la salma di Benito Mussolini a Milano. Titta è, in quegli anni drammatici, il vertice operativo della struttura. Un uomo fin troppo loquace, un po' guascone, ex pilota nella Repubblica sociale. Muore d'infarto dopo la liberazione di Cirillo, mentre è impegnato in una delicata missione legata proprio a questo caso. Tanto delicata da suscitare i sospetti di una morte non del tutto naturale: i servizi di sicurezza francesi mandano a misurare la lunghezza del cadavere, per accertarsi che sia proprio Titta, e i carabinieri fanno qualche indagine dopo alcuni esposti che accennavano a un omicidio mascherato da malore. L'Anello, del resto, era specializzato proprio in omicidi coperti da morte naturale e da incidenti stradali. Ma, più in grande, si occupava dell'economia parallela del petrolio, che serviva a finanziare le forze politiche più "affidabili" e sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 l'Anello si dà da fare addirittura per far nascere una nuova Dc, in grado di contrastare l'apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la breve avventura del Nuovo partito popolare, che divenne poi l'oggetto principale, con riferimenti alle forniture militari alla Libia, di un famoso dossier segreto, chiamato "Mi.Fo.Biali", oggetto di ricatti trasversali che coinvolsero anche il giornalista di Op Mino Pecorelli.
IL SUPERTESTIMONE - L'Anello, nella sua lunga storia, ha avuto una diretta forma di dipendenza dalle istituzioni politiche, a cominciare dalla presidenza del Consiglio. Michele Ristuccia, uno degli aderenti alla struttura, classe 1941, già funzionario della Fiera di Milano, grande amico di Adalberto Titta, negli interrogatori dell'inchiesta afferma a chiare lettere che vi erano persone del ministero della Difesa e dell'Interno che "agevolavano" l'attività dell'Anello, ma che esso "dipendeva direttamente dalla presidenza del Consiglio. La sua gestione è stata monopolio democristiano, tranne che nell'ultimo periodo, nel quale suppongo che anche il Psi sapesse, in quanto mi risulta che avesse fatto alcune richieste". I componenti dell'Anello, continua a verbale il supertestimone Ristuccia, avevano in dotazione "un tesserino sulla base del quale era dovuta a loro cooperazione e immunità da responsabilità penali in cui avrebbero potuto incorrere per motivi di servizio. Preciso che non so se tutti i membri dell'Anello avessero questo tesserino, ma Titta certamente lo aveva e io l'ho potuto personalmente vedere, ricordo che aveva l'intestazione della presidenza del Consiglio dei ministri". Operativamente, i componenti della struttura si appoggiavano prevalentemente ai carabinieri, ma anche al Sid, il servizio segreto militare di quegli anni. L'Anello poteva contare su un ufficiale dei carabinieri operativo a Milano, che aveva un ufficio in via Statuto; un altro ufficio era a Roma. "Battaini", è scritto in una delle informative sull'attività dell'Anello, "dispone di notevoli masse di denaro e tiene il proprio deposito di armi, munizioni e automezzi, presso la caserma dei carabinieri di via Moscova". Andreotti risulta il principale beneficiario politico della struttura, almeno secondo quanto si afferma in più punti nelle "veline" agli atti dell'inchiesta. Anche alcune testimonianze affidano al sette volte presidente del Consiglio un ruolo guida per l'Anello. Fu Andreotti a volerla, con questa denominazione, per fronteggiare il "notevole caos" che c'era negli anni Settanta nei vari organismi che si occupavano di intelligence, sia per inefficienza, sia per concorrenza. Andreotti decise di creare una struttura "pilota" che traghettasse questo mondo dal caos a servizi segreti più adeguati. Nascerebbe da qui il nome di Anello, adottato, secondo alcune testimonianze, dalla metà degli anni Sessanta: la struttura avrebbe dovuto essere infatti la congiunzione, - l'Anello appunto - tra le molteplici e spesso confuse strutture parallele del dopoguerra e i servizi di sicurezza istituzionali. I testimoni ascoltati nell'inchiesta hanno confermato che il compito principale dell'Anello era quello di "arginare" con tutti i mezzi l'avanzata delle sinistre. Anche Francesco Cossiga era a conoscenza dell'Anello, testimonia Ristuccia. "Una volta l'onorevole Andreotti, secondo quanto mi ha raccontato Adalberto Titta, fece intervenire l'Anello a beneficio del governo Craxi". La struttura poteva contare su un buon numero di uomini (164 nel 1974) che costavano diversi miliardi di lire l'anno. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, almeno secondo i racconti dei testimoni dell'inchiesta, la struttura si era preparata per sequestri (poi non realizzati) di alcuni personaggi politici. Tra questi, il sindaco di Milano Aldo Aniasi, il leader del Movimento studentesco Mario Capanna e l'editore Gian Giacomo Feltrinelli. Ma è il caso Moro l'episodio più clamoroso nella storia segreta dell'Anello.
VIA GRADOLI - "Ricordo che il Titta mi accennò, già durante il sequestro Moro e me lo confermò poi successivamente, che erano stati contattati per adoperarsi per la liberazione di Moro, così come per il sequestro Cirillo". Questa è la testimonianza di Ristuccia, uno dei principali collaboratori di Titta. "Mi disse addirittura di aver avuto contatti con appartenenti alle Br e che questi avevano espresso sfiducia verso l'Arma dei carabinieri e la Dc. Mi disse", continua a verbale Ristuccia, "che gli uomini delle Br con i quali erano entrati in contatto non erano riusciti a trovare gli interlocutori adatti e non si fidavano delle istituzioni. Titta sosteneva di aver parlato di ciò con Cossiga e con l'onorevole Andreotti, ma che quest'ultimo si era espresso con valutazioni negative sull'eventualità del rilascio dell'ostaggio, bloccando così le attività che intendeva intraprendere. Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della Duchessa doveva trovarsi il cadavere di Moro, mi disse in tempo reale che si trattava di una "bufala". Ciò ovviamente me lo disse prima che ci fosse la smentita". Lo stesso testimone racconta: "Io venni informato da Titta che il presidente della Dc correva seri rischi di sequestro. Sequestro durante, il Titta mi disse di essere a conoscenza del luogo dove Moro era detenuto, lo aveva detto anche ai senatori Andreotti e Cossiga. Il Titta mi disse, sequestro durante, che Moro era detenuto in via Gradoli e, come ebbi occasione di accennarvi, lo seppe direttamente dalle Brigate rosse. Non posso dirvi come entrò in contatto con le Br, ma lui mi disse di essere stato fortemente ostacolato sul caso Moro, proprio dal potere politico dal quale dipendeva. Come già dettovi, in particolare alla richiesta di poter intervenire su via Gradoli, il Titta ricevette un secco diniego da Andreotti che, mi disse, gli fece capire che non era auspicabile una soluzione positiva del processo, la frase che ricordo distintamente è: "Moro vivo non serve più a nessuno". Preciso che tutte queste notizie io le ho apprese sequestro durante". È la testimonianza di un personaggio che riferisce racconti di un morto, che non può più né confermare né smentire. Forse è troppo poco per imbastire un'azione giudiziaria, ma certo è un'ulteriore smagliatura in una vicenda, il sequestro Moro, piena di elementi oscuri. Nelle dichiarazioni di Michele Ristuccia vi è certamente un errore: l'appartamento di via Gradoli è indicato come la prigione di Moro, mentre è appurato che fosse una base delle Br, ma che non ospitò il sequestrato. È lo stesso errore compiuto, in diverse dichiarazioni, da Bettino Craxi. Titta aveva una indicazione che riguardava la sola via Gradoli, oppure il capo operativo dell'Anello aveva cambiato in Gradoli una diversa indicazione della prigione al fine di tutelarla? Dopo che la politica blocca l'intervento a favore di Moro, le notizie raccolte dall'Anello potrebbero aver imboccato un percorso autonomo. La famiglia Moro e il Vaticano continuano a cercare di liberare il prigioniero. E il 9 maggio 1978 il Vaticano tenta di scambiare il presidente della Dc con 50 miliardi di lire. Era già noto che padre Zucca - che oggi scopriamo essere stato un importante esponente dell'Anello - si era dato da fare per raccogliere un'ingente somma di denaro dopo essere stato contattato, in confessionale a Milano, da un uomo delle Br. Questo episodio fu rivelato dal settimanale L'Espresso già il 26 maggio 1978. Recentemente, il 12 marzo 2003, Giulio Andreotti rivela che il 9 maggio di 25 anni fa (il giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro) il Vaticano era pronto a pagare un ingente riscatto per liberare il prigioniero, ma che alla fine tutto fallì. È evidente che il tentativo di cui parla Andreotti e quello dell'Anello, tramite padre Zucca, hanno molte analogie: stessa data, il 9 maggio; stessa città, Milano; stesso contatto, "esponenti dissidenti" delle Br, stesso mezzo, il confessionale. Kappler e Cirillo - L'Anello ebbe un ruolo anche nella vicenda della fuga di Herbert Kappler, il nazista responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, fatto uscire dall'ospedale militare del Celio, dopo un accordo politico ed economico con la Germania. Fu Titta e non la moglie di Kappler, Annelise - come si disse - ad accompagnare Kappler al confine. Nelle carte dell'inchiesta romana c'è la testimonianza del medico che visitò Kappler prima che questi fosse portato oltre confine. È nel caso Cirillo, però, che l'Anello giocò in pieno le sue carte. Ciro Cirillo, assessore campano della Dc, fu rapito dalle Br a Napoli nel 1981. Per Cirillo, a differenza che per Moro, la Democrazia cristiana e lo Stato accettarono di trattare con i terroristi, anzi lo fecero attraverso la criminalità organizzata. È Adalberto Titta in persona che tratta in carcere con Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata (Nco). Titta entra nel carcere di Ancona per concordare direttamente con Cutolo la liberazione di Cirillo, porta a cena fuori dal carcere il capo camorrista e gli mostra un foglio di scarcerazione per invogliarlo a riprendere i contatti con le Br che erano stati aperti già nel 1978, durante la vicenda Moro. L'Anello è la chiave che unisce le due vicende. E spiega alcune affermazioni di Cutolo, che ha più volte ripetuto di aver avuto un ruolo anche nella vicenda Moro, oltre che in quella Cirillo. Personaggio di congiunzione tra l'Anello e il boss della Camorra è Francesco Gangemi, esponente di primo piano della Dc calabrese, avvocato di Raffaele Cutolo, (non componente dell'Anello), ma grande amico di Adalberto Titta. Fu proprio Gangemi - affermano alcuni testimoni dell'inchiesta - a presentare Cutolo a Titta per permettergli di intervenire nell'affare Cirillo. "Il Cutolo non avrebbe mai accettato di prendere parte ad alcuna trattativa se il Gangemi non avesse garantito per il Titta", assicura Ristuccia. Il legame Titta-Cutolo-Gangemi-Anello può dare un contesto ad alcune sibilline affermazioni fatte dal capo della Nco. Nel 1993 Cutolo diceva, a proposito della vicenda Cirillo, che in tanti "fecero la fila da me, ad Ascoli Piceno, e quel Titta dei servizi segreti era disposto in cambio dei miei favori a far eliminare i miei nemici". E aggiungeva: "Avrei potuto salvare la vita dell'onorevole Moro perché, grazie a informazioni ottenute da alcuni membri della banda della Magliana, avevo saputo dove era la sua prigione. Mi incontrai con il sedicente "inviato di Cossiga" che mi promise persino sconti di pena. Ma in seguito ricevetti una visita del mio fedele luogotenente Vincenzo Casillo, latore di un messaggio di alcuni politici campani: "Don Rafè, facitevi 'e fatte vuoste"". L'inviato di Cossiga, rivela Cutolo nel volume di Giuseppe Marrazzo Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo, potrebbe essere Nicola Lettieri, il sottosegretario all'Interno che durante i 55 giorni del sequestro guidava il "comitato di crisi" del Viminale. Cutolo avrebbe incontrato Lettieri mentre era latitante, dato che era fuggito dal manicomio criminale di Aversa il 3 febbraio 1978. Certo è che Cutolo dice di essere stato in possesso di una lettera di ringraziamento di Lettieri e di un biglietto di accompagnamento dell'onorevole Attilio Ruffini, sequestrati dai carabinieri al momento dell'arresto, nel rifugio di Albarella dove aveva trascorso l'intera latitanza. I carabinieri, imbarazzatissimi, dissero poi che la lettera e il biglietto erano caduti a un maresciallo durante la perquisizione della casa-covo. Nessuno ha mai saputo - ufficialmente - che cosa contenessero le due missive. Cutolo però allude a contati con molti politici, anche a Roma, durante i 55 giorni. L'anno dopo, nel 1994, davanti alle telecamere di Mixer Cutolo raccontò di aver ricevuto, mentre era latitante ad Albarella e mentre Moro era nelle mani delle Br, la visita di Nicolino Selis, affiliato della Nco, suo rappresentante a Roma e contemporaneamente boss della banda della Magliana, per conto della quale controllava la zona che da Acilia arriva al mare. Selis, dice Cutolo, "aveva saputo dove si trovava la prigione di Moro e mi chiese se volessi salvarlo". Cutolo in quella occasione aggiunse di essersi consultato con un avvocato che a sua volta si rivolse a dei politici. Il capo della Nco ha detto di aver saputo successivamente da un suo fedelissimo, Enzo Casillo ("morto con la tessera dei servizi segreti in tasca") che "importanti politici nazionali erano molto preoccupati del fatto che Moro avrebbe potuto salvarsi". In quell'occasione si mossero anche due sacerdoti calabresi. Selis non può certo confermare: scomparso nell'1981, il suo cadavere non è mai stato trovato; probabilmente sotterrato ad Acilia, vicino al greto del Tevere, è stato coperto con la calce viva. Durante i 55 giorni, quindi, Cutolo sostiene di aver ricevuto, da latitante, l'avvocato Gangemi, 'l'inviato di Cossiga), e il suo rappresentante nella banda della Magliana, Nicolino Selis, che aveva scoperto dove era la prigione di Moro: presumibilmente nella sua zona di controllo, cioè tra Aprilia e il mare. Cutolo trascorse quei mesi di latitanza a casa di un vecchio contadino di Albanella, vicino a Pestum. L'uomo si chiamava, ironia della sorte, Nicola Lettieri, ( proprio come il probabile 'inviato di Cossiga'). Finirà ucciso anche lui: da chi - dirà Cutolo - "credeva di trovare nella sua casa di campagna qualche tesoro da me nascosto". Il Vaticano e il confessionale - Con alcune lettere ad Andreotti, padre Zucca chiedeva di poter aprire una trattativa. Il religioso milanese affermava di essere "sicurissimo" che le Br avrebbero liberato Moro per soldi. Diceva anche di aver incontrato un brigatista in una chiesa di Milano "verso la fine di aprile" (Moro era stato rapito il 16 marzo). L'incontro-colloquio si era svolto in confessionale e in quell'occasione si era parlato di soldi. Il brigatista avrebbe anche proposto a Zucca di incontrare Moro. I soldi sarebbero stati depositati in una banca svizzera. L'inchiesta sull'Anello, svolta dal maggiore del Ros-carabinieri Massimo Giraudo (lo stesso ufficiale che ha condotto l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana che ha portato alle prime condanne del gruppo di On dopo oltre 30 anni) ha dimostrato che già il 31 marzo 1978 Zucca aveva confidato a un amico (presumibilmente Adalberto Titta) di essere stato avvicinato al fine di aprire una trattativa con le Br. Un appunto del Sisde del 4 aprile 1978 dà conto di questa notizia. Ristuccia ha confermato il contatto Anello-Br: "Titta mi disse che le Br non volevano condurre la trattativa con organi di polizia ufficiali o esponenti politici. In merito alle mancate risposte di Andreotti, mi ricordo che non le diede a voce, al Titta, facendo bene intendere che Moro vivo non interessava". Francesco Cossiga ha detto di essere stato informato "anni dopo" del tentativo messo a punto dal Vaticano il 9 di maggio per cercare di liberare Aldo Moro e di cui ha parlato per la prima volta Andreotti in marzo. "Seppi da lui che questa possibilità di riscatto era la ragione del suo ottimismo quando lo andai a trovare la sera dell'8 maggio 1978. In Vaticano si avevano ragioni per credere di avere contatti con le Br. Da quello che compresi questo contato passava per la rete dei cappellani carcerari", dice oggi Cossiga, che come Andreotti smentisce categoricamente di conoscere l'Anello e Titta. Ma c'è un altro elemento che si connette a questa vicenda, dando un senso concreto ad alcuni dubbi che ancora oggi dominano i pensieri della famiglia Moro. Qualcuno, mai identificato, la mattina del 9 maggio 1978 avrebbe dovuto entrare nella prigione di Moro e portargli la carezza, il conforto del Papa, e poi garantire la liberazione dell'ostaggio e il contemporaneo pagamento del riscatto. Poche ore più tardi, invece, Aldo Moro sarebbe stato ritrovato ucciso in via Caetani. Comunque l'Anello predispose i 50 miliardi di cui parla Andreotti per pagare la mattina del 9 maggio il riscatto che avrebbe liberato Moro. Se è finita come è finita qualcosa è andata male o qualcuno non ha rispettato i patti. Chi interruppe bruscamente la trattativa in corso? L'Anello fu bloccato da qualcuno che non voleva che Moro uscisse libero dalla prigione potendo raccontare che il suo luogo di prigionia era stato individuato, ma si era scelto di non intervenire? E di trattare segretamente tramite quelli che un comunicato delle Br (il numero 4 del 4 aprile, quando Zucca aveva già il suo contatto aperto con le Br) definisce i "misteriosi intermediari"? Afferma la sentenza che ha mandato assolto, in primo grado, Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante politico dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli: "Qui preme sottolineare l'articolo Vergogna buffoni, pubblicato su Op del 16 gennaio 1979, e quindi poco più di due mesi prima dell'omicidio, in cui Carmine Pecorelli preannunciava una rivisitazione di tutto il caso Moro, con esplicito riferimento alle trattative con le Br, non andate a buon fine perché qualcuno non aveva mantenuto i patti e aveva "giocato al rialzo", pretendendo un prezzo che non poteva essere accettato. Ma se così è, non può revocarsi il dubbio che tali circostanze, se vere e portate a conoscenza dell'opinione pubblica, che pure aveva atteso con ansia la liberazione di Aldo Moro, avrebbero sicuramente sconvolto il panorama politico italiano, proprio perché sarebbe chiaramente emerso che il potere politico non aveva voluto che fosse salvata la vita dello statista". L'inchiesta sull'omicidio Pecorelli ha evidenziato i rapporti che si erano stabiliti tra il giornalista di Op e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, almeno dall'agosto-settembre 1978. Pecorelli ricevette molte "dritte" dal generale. Tante allusioni di Pecorelli al fascicolo "Mi.Fo.Biali", nato intorno alla corruzione della Guardia di finanza per lo scandalo dei petroli, non sono che riferimenti in codice all'Anello e alla sua azione sotterranea. E dalla Chiesa, almeno secondo le malevole testimonianze di Ristuccia, conosceva l'Anello: "Il generale non faceva parte dell'Anello, conosceva Titta e non ostacolava le attività dell'Anello, non perché fosse contrario a esse, ma semplicemente per concorrenza, in quanto", dichiara a verbale Ristuccia, "non desiderava, specialmente in tema di lotta al terrorismo, che qualcuno potesse arrivare prima di lui. Ricordo in particolare il tentativo di catturare Moretti a Milano con un intervento su un obiettivo, sul quale da tempo stava lavorando anche l'Anello. L'improvvido intervento del generale ne consentì la fuga. Conobbi il generale dalla Chiesa in quanto me lo presentò il Titta appena giunto a Milano". E ancora: "Ricordo (che Titta, ndr) non apprezzava il generale dalla Chiesa in quanto per protagonismo avrebbe danneggiato alcune operazioni dell'Anello". Il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, collaboratore di dalla Chiesa, ha affermato davanti a un magistrato nel 1993 che dalla Chiesa era molto interessato da una ipotesi di lavoro: l'esistenza di una struttura segreta paramilitare, con funzioni organizzative antinvasione ma che "aveva debordato poi in azioni illegali e con funzioni di stabilizzazione del quadro interno". Dalla Chiesa credeva che questa struttura poteva aver avuto origine "sin dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra e attraverso il controllo di alcune organizzazioni di altra tendenza". Poteva trattarsi di Gladio-Stay behind. Ma Gladio nasce nel 1954. L'Anello nasce invece nel 1948. Che cosa è accaduto tra la sera dell'8 e le prime ore del (9 maggio 1978?) Pecorelli aveva una sua (ben credibile) ipotesi: "Cossiga era convinto, crediamo (?), che Moro sarebbe stato liberato, e forse la mattina che il presidente è stato ucciso era (...) in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso. In macchina. A questo punto vogliamo anche noi fare un po' di fantapolitica. Le trattative con le Br ci sarebbero state. Come con i Feddayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i "carabinieri" (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andar via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile, perché si voleva comunque l'anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama "De" e il macellaio Maurizio". Il "De" (un modo per alludere e tutelare tipico di Pecorelli) secondo tutti gli studiosi del caso Moro è Giustino De Vuono, un ex legionario, calabrese, legato alla criminalità organizzata, di cui non si sa più nulla da anni. De Vuono venne indicato come uno dei possibili componenti del commando di Via Fani nel "volantone" diffuso dal Viminale subito dopo il 16 di marzo. Per anni si è favoleggiato sulla presenza della 'Ndrangheta nel commando che rapì Moro e uccise i cinque uomini della scorta. Ci sono state decine di riferimenti a questa presenza e i sospetti maggiori hanno riguardato De Vuono, grande specialista di armi che, secondo alcuni testimoni, era effettivamente presente in via Fani. "De" secondo Pecorelli partecipa alla uccisione insieme a "Maurizio" (il nome di battaglia di Mario Moretti). Ma un uomo dell'Anello, almeno secondo il nostro testimone Ristuccia, faceva parte del commando di via Fani: "Il Titta mi disse che anche nel commando che aveva operato in via Fani era presente un calabrese che lavorava per l'Anello meridionale, ma che era stato più volte impiegato da lui". La famiglia Moro, Maria Fida in particolare, ha il dubbio che Moro sia stato liberato dalle Br e ucciso da qualcun altro. Da chi? "L'unica spiegazione", (ha spiegato l'ex presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, in occasione del 25° anniversario della morte del Presidente della Dc), "è quella che aveva pensato Craxi. Cioè che non sono i carcerieri a decidere l'esecuzione. L'ordine viene da fuori. E non sono stati loro neanche gli esecutori materiali. Entra in campo la complessità di più trattative che tendono da un lato alla salvezza di Moro e dall'altro alla neutralizzazione di quello che aveva potuto dire alle Br. La vicenda alla fine precipita perché queste trattative si ostacolano e fanno emergere nei custodi finali di Moro l'idea che la soluzione politicamente più opportuna fosse la soppressione di un ostaggio, cioè il Moro vivo, per poter neutralizzare gli effetti destabilizzanti del secondo ostaggio, cioè le cose che Moro aveva detto alle Br". Oppure, molto più semplicemente, le Br uccidono Moro per uscire da una situazione senza sbocchi politici se non la liberazione, vista la mole di iniziative che quella mattina del 9 maggio erano in corso. Oppure c'è stata una cogestione: alla fine, per chi ha trattato, sia dalla parte delle Br, sia da quella dello Stato, la soluzione migliore, la più concreta e realistica dal punto di vista politico, è la morte di Moro. Ecco il perché delle tante incongruenze sulle modalità della morte e anche sul fatto che fosse stato detto o no a Moro che il suo destino era segnato. Ma c'è stato lo zampino di qualcuno che ha giocato al rialzo? Giustino De Vuono è scomparso nel nulla. Resta soltanto l'estremo messaggio di Carmine Pecorelli, che fa nascere nuovi interrogativi su questa storia dell'Anello e su questa inchiesta che la procura di Roma si avvia ad archiviare. Pochi giorni prima di essere assassinato (era il 20 marzo 1979), Pecorelli dedicò al delitto Moro l'ultimo suo inconfondibile articolo. Intitolato: Aldo Moro un anno dopo. Pieno di domande allusive, di sottintesi e probabilmente di messaggi, sarcastici e cifrati. Cita il lago della Duchessa, il falso comunicato Br del 18 aprile 1978, quanto il falsario Toni Chichiarelli, vicino alle Br e alla banda della Magliana, che stila un falso documento che dà Moro per "suicidato" e sepolto nei "fondali limacciosi" di quel lago. Toni Chichiarelli seguiva da tempo - ci sono testimoni - il giornalista. "Chi è stato interrogato nel Palazzo? La catena ha rivelato in ogni suo anello l'esistenza di connivenze all'interno della struttura dello Stato, nel cuore dello Stato". Un messaggio, un avvertimento, o una firma. Diventerà decifrabile poche ore dopo, quando un colpo di pistola in bocca chiuderà la vita di Carmine Pecorelli. freccia rossa che punta in alto

27 maggio 2003
CASO MORO: LA VERSIONE DI FORMICA

- L'ex amministratore del Psi, divenuto poi ministro dei Trasporti e infine delle Finanze dichiara in esclusiva a Clorofilla: "Il leader democristiano è stato ucciso perché giudicato insensibile al condizionamento di carattere internazionale" Formica: "La verità su Moro è in una lettera a Taviani" - Roma - "È morto per abbandono. Viene ucciso mentre il Pci sta per accedere al governo (e deve garantire di non avere alcun legame con frange sovversive del movimento comunista) e la Dc in crisi deve preservare una sua egemonia, ma deve anche utilizzare la forza dei comunisti come elemento di stabilizzazione. Tutto questo in un quadro internazionale dove le pressioni per un rafforzamento e prolungamento degli accordi di Yalta sono fortissime". I mandanti della omicidio di Moro sono ancora vivi. E potenti. Lo lascia intendere chiaramente Rino Formica che non ha dubbi sulle dinamiche politiche che hanno portato all'eliminazione dello statista democristiano. Per lui, nell'affaire Moro, così come in tutti gli altri misteri italiani del dopoguerra, esiste un percorso visibile e un altro volutamente coperto per diverse ragioni. Che, dopo 25 anni, non si possono ancora spiegare "perché la verità scotta ancora ad una classe dirigente nazionale vivente". Secondo l'ex ministro socialista esiste una verità giudiziaria con tanti lati oscuri ma anche un'altra - a suo dire più importante - che riguarda l'interpretazione storica di quei fatti invisibili. D'accordo, ma esisteva o no un superservizio segreto, clandestino, alle dipendenze della presidenza del Consiglio, denominato Anello? "Forse, potrebbe anche essere esistito. Ma meglio non perdersi nei singoli dettagli che potrebbero essere facilmente, e pericolosamente, manipolati per usi strumentali". Tutti quei passaggi non chiariti - dal numero dei partecipanti all'agguato ai diversi covi del sequestro) per l'ex famoso amministratore del Psi, "hanno una rilevanza solo sul piano giudiziario e un loro eventuale chiarimento non aggiungerebbe nulla alla verità storica". Verità sulla quale l'ex ministro dei Trasporti, all'epoca del disastro del DC9 dell'Itavia (Ustica), sembra non avere dubbi. Con 75 anni esibiti con classe, un passato prestigioso di ministro delle Finanze e tuttora considerato uno dei socialisti più rispettati, nonostante fosse stato anche lui coinvolto nel ciclone di Mani Pulite per gli appalti al porto di Manfredonia (vedi rassegna web con alcune ricerche storiche e di controinformazione), Rino Formica si limita a svolgere le funzioni di presidente dell'associazione Socialismo e libertà e spiega così in esclusiva a Clorofilla perché (e in qualche modo anche da chi) è stato rapito e ucciso il presidente della Dc.
"Dopo il sequestro scatta in forma inedita la politica della fermezza che non riguarda solo lo Stato che giustamente, una volta attaccato, dichiara subito di voler liberare l'ostaggio senza trattare. Meno comprensibile - aggiunge Formica - è quel concerto vastissimo di tutte quelle forze che si mette subito in moto per influenzare l'opinione pubblica. Si voleva ottenere a tutti costi consenso sulla "linea di condotta rigida, come si direbbe oggi, senza se e senza ma". Alla fine di marzo, si svolge il congresso del Psi a Torino dove, negli stessi giorni, si va celebrando anche il processo alla Br. Formica, assieme ad altri socialisti della corrente di minoranza, chiede a Craxi di aggiungere nella sua replica finale un'invocazione per ricercare uno spiraglio utile a liberare il presidente della Democrazia Cristiana. "Bisogna tentare ogni strada per la salvezza di Moro": era la frase suggerita da Giuliano Vassalli, amico da 40 anni di Moro, concordata nella camera d'albergo di Formica con Craxi e Maria Magnani Noja in contatto con uno dei mediatori più convinti della possibile salvezza di Moro, l'avvocato socialista Giannino Guiso, difensore del gruppo storico delle Br (da Renato Curcio ad Alberto Franceschini a Prospero Gallinari). Tutto inutile. "Nei giorni successivi crescerà - racconta Formica - l'offensiva del "non trattare": chi tratta viene considerato un brigatista o quanto meno un loro amico. E la vicenda Moro con la salvezza dell'uomo esce così dalla discussione politica". Il 9 aprile, le Br pubblicano un comunicato con in allegato una pagina del famoso memoriale dove Moro disegna un quadretto su Taviani definendolo come il garante in Italia di un equilibrio politico internazionale. E allora? "Allora, bisognerebbe studiarle con più attenzione quelle sue affermazioni. Taviani - continua Formica - rilasciò immediatamente una dichiarazione in cui le accuse di Moro venivano di fatto liquidate come una manifestazione della Sindrome di Stoccolma . E per rendere ancor più credibile la sua difesa si reca da un notaio autorizzando tutti, sin da allora per il futuro, a non prendere in considerazione neanche le sue parole qualora anch'egli rimanesse, un giorno, vittima di un sequestro". Taviani prima di morire ha anche scritto un libro, rispondendo dopo 23 anni alle accuse di Moro. In quel testo Moro appare come un personaggio scadente. Taviani cerca in ogni modo di squalificare lo statista Dc finanche con rivelazioni di cattivo gusto, parlando ad esempio di 20 milioni che Moro avrebbe ricevuto dal segretario di partito per qualche non meglio identificato contributo. Taviani, che a quei tempi parlava di un appoggio tutto a destra, di un'intesa con il Movimento Sociale come formula risolutiva della crisi italiana, tratteggia impietosamente la personalità di Moro per far crollare la sua immagine di statista, incapace - a suo dire - di comprendere la realtà internazionale.
Il Pci non fu però da meno? Grazie a Carlo Donat-Cattin ( vedi anche sul figlio Marco e sulla Commissione Stragi ) sappiamo oggi di veri e propri plagi subiti dalla Dc in quel periodo. Fu lui - racconta Formica - a rendere noto come Galloni, incaricato in quei giorni dei contatti con i comunisti, telefonò a Chiaromonte per avere il visto da parte della direzione comunista su uno di quei famosi comunicati della fermezza. Donat Cattin rivelò, in effetti, con un certo imbarazzo e forte sdegno per come la Democrazia Cristiana correggesse i suoi comunicati in base ai suggerimenti ricevuti da Botteghe oscure. Tutto ciò mentre la Faranda e Morucci circolavano tranquilli, trasferendo documenti, prendendo contatti con i fiancheggiatori che a loro volta prendevano contatti politici, mafiosi e terroristi.
E nessuno seguiva nessuno? "La decisione di non agire fu unanime. Da una parte la destra e il centro, dall'altra la freddezza del Pci, scontenta peraltro della compagine governativa che si andava prefigurando con il Compromesso storico". Il giorno successivo al sequestro Moro ci sarebbe dovuto essere la presentazione del nuovo governo al Parlamento ma "non era affatto scontato il loro voto di fiducia. All'interno del Partito comunista c'era un certo malumore, e dopo il sequestro - ricorda Formica - dovettero subito affrontare un altro scottante tema: quello di dichiarare una sorta di guerra partigiana contro quelli che in qualche modo venivano, a torto o ragione, considerati i loro figli: le Brigate Rosse. Il Pci aveva il problema di dover dimostrare che non esisteva alcun legame tra loro e quei terroristi e che, se anche ci fosse stato in passato un qualche collegamento, da quel momento in poi tutti i cosiddetti rivoluzionari sarebbero stati rinnegati. I comunisti sentivano, insomma, la necessità di allontanare con ogni mezzo anche la più labile possibilità accusa di contaminazione con comportamenti violenti eversivi. Ma la Dc? Il centro aveva un problema serio. A metà degli anni Settanta la Democrazia Cristiana era in crisi. Il suo ciclo di egemonia politica si stava concludendo? "C'è stato il famoso discorso di Moro al convegno democristiano": "Siamo stati compatti nel dire No al governo di emergenza. Nel dire No a una coalizione politico generale con il partito comunista. C'è da stupirsi che il Pci abbia voluto chiedere una cosa scontata che non potesse avere. Noi non possiamo fare un'alleanza con il Pci". "Un pensiero questo - spiega Formica - attentamente valutato non solo dai parlamentari ma anche e soprattutto nelle Cancellerie di tutti Paesi sia dell'alleanza che dell'Urss". Riprende quindi la lettura della relazione di Moro: "Un'intesa politica che introduca nel Pci in piena solidarietà politica con noi non la riteniamo possibile". "E qui - sottolinea ancora Formica, sospendendo di nuovo la lettura del testo - c'è tutto lo sforzo dialettico di Moro". Riprende a leggere: "anche se rispettiamo altri partiti che la ritengono possibile in vista di un bene maggiore con un accordo impegnativo di programma". "Qui - nota Formica - si riferisce ai repubblicani. Non dimentichiamo - spiega - che un anno prima, nel '77, Ugo La Malfa aveva chiesto di porre fine all'embargo verso il Pci". Quali furono le reazioni a quel suo discorso? "Con questo suo ragionamento contraddittorio e ambiguo Moro poté forse convincere la Dc ma non le Cancellerie atlantiche e sovietiche. Risulta ancor più chiara la debolezza di quell'analisi quando aggiunge: "Sappiamo che c'è in gioco un delicatissimo tema di politica estera che sfioro appena.....". "Cioè Moro - spiega Formica - il punto centrale del problema, quello di un Paese di frontiera dove entra in crisi il perno di un equilibrio del sistema geopolitico, lo sfiora soltanto dicendo": "Vi sono posizioni che non sono solo nostre ma che tengono conto del giudizio anche di altri Paesi di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati". Moro era dunque era molto bravo a risolvere spinose questioni interne con artefici retorici ma all'estero di lui si diceva: "Noi quello non lo capiamo". Gli equilibri di Yalta correvano così il rischio di essere messi in crisi. Tutta qui il mistero su via Caetani? Di certo, "la lettera di Moro (allegata al comunicato n° 5) e la risposta di Taviani, andrebbero esaminati meglio mettendoli in relazione e tenendo conto che Taviani aveva forti legami con Paesi come Stati uniti e Germania". Vladimiro Satta, documentarista della Commissione Stragi, ma anche Paolo Mieli e molti altri le obietterebbero che si tratta di dietrologie. E che il triste epilogo del rapimento di Moro è dipeso solo da una scarsa capacità investigativa dei nostri servizi. "Non credo nella debolezza dei Servizi di sicurezza. Non a caso, solo due anni dopo riuscirono a liberare il generale Dozier dalle Br. Ma insomma, ci dica allora chiaramente quali sono state a suo avviso le responsabilità della Dc? "La Democrazia cristiana - riprende sereno Formica - ha avuto come filosofia di fondo quella di mantenere un equilibrio che era per sua natura instabile (perché non consentiva l'alternativa), ma che di fatto è sempre stata stabile in questa instabilità, non poteva non perseguire una politica di contenimento degli altri poteri della società". La Dc non si è mai posto il problema di liquidare i poteri diversi da quelli politici della società?
"La politica centrista è fondata su questo elemento: non far diventare mai forte, oltre una certa misura i poteri, di ogni natura. La convivenza con la mafia è stata una costante dalla liberazione fino agli anni '80. Una politica centrista non può porsi il problema dello sradicamento degli altri poteri. Ecco perché non è contraddittorio che la Dc della stabilità nell'instabilità abbia avuto un rapporto con la mafia. Negli anni '80 la mafia cambia natura con le plusvalenze delle droga diventa partito armato così come il comunismo che negli anni precedenti si era posto il problema del contenimento dei movimenti fondamentalisti e pacificamente rivoluzionari e deve rompere con loro quando questi diventano partito armato. Negli anni '80 c'è l'esaurimento di un sistema politico in cui le due forze, Dc da una parte e Pci dall'altra, non riescono più a contenere quelle spinte eversive che fino allora controllavano. A quel punto la Dc - secondo il nostro - deve rompere con il partito della criminalità organizzata che dà l'assalto agli uomini dello Stato. E per questo Moro viene abbandonato. Curiosità. Il Psi era il partito della trattativa quando viene rapito Aldo Moro. Poco tempo dopo Bettino Craxi segna, come capo di governo, nel caso Sigonella una svolta nella politica di Palazzo Chigi, con il famoso braccio di ferro con l'alleato statunitense. A quei tempi Formica, poco dopo quei fatti e poco prima che piombasse tangentopoli, che coinvolse nel bene e nel male 1069 tra parlamentari e uomini politici, aprendo le porte del carcere a 4525 personaggi di varia natura e provocando purtroppo anche dieci suicidi, denunciò una mancanza di democrazia nel suo partito. freccia rossa che punta in alto

Nino Arconte a Famiglia Cristiana

- Intanto riassumo la mia risposta a questi pochi punti, come già feci nel novembre del 2000 alla risposta del Ministro On. Mattarella allora in carica che, sostanzialmente, non si discostava di molto. 1) In primis io non ho mai dichiarato che Mario Ferraro fosse del SISMi, queste sono cose dichiarate dai giornali che, nell'estate del 1995 davano la notizia del suo suicidio, com'è noto, appeso al portasciugamani del suo bagno e, a come dichiaravano i giornali (io non l'avevo certamente visto in loco) era in posizione seduta e, per un impiccato, è perlomeno strano! Ma se ne sono visti di sdraiati, inginocchiati e ancora più strani di suicidi in Italia e non ci meravigliamo più di nulla. 2) La mia descrizione antropometrica di un uomo che ho visto in tutta la mia vita e nell'arco di circa diciassette anni per poche ore, non poteva essere più precisa di quella: un uomo di circa un metro e ottanta, ossia più o meno la mia altezza e abbastanza robusto, con una barba tenuta corta, ma sono buon fisionomista e non dimentico una faccia una volta che l'ho vista anche a distanza di moltissimi anni, come sanno bene quanti mi mostravano sempre le fotografie dello Sciacallo, quando pensavano che si trattasse di lui in uno dei suoi molteplici travestimenti ...veramente abile, ma non mi ingannò mai! Purtroppo, fu sempre più svelto di chi gli stava dietro, anche quei primi giorni di marzo 1978. 3) Io non ho mai dichiarato che i servizi segreti Americani avessero saputo in anticipo del sequestro Moro e della strage di Via Fani, questa è una falsità che mi viene messa in bocca per screditarmi, ma gli stessi giornalisti che mi hanno intervistato nel corso degli anni potrebbero testimoniare questa circostanza. Da parte mia non c'è stata mai, in materia dell'affare Moro, che una nuda e cruda relazione di fatti certi di cui sono stato testimone e la citazione di altri fatti, altrettanto certi e provenienti da altri. Io ho sempre detto a tutti e scritto anche nel Libro L'Ultima Missione che, all'epoca del 6 marzo 1978 e giorni successivi, a malapena sapevo che l'On. Moro era un politico Italiano. In nessuna parte del mio sito o del mio libro si può leggere una simile dichiarazione ...dunque? 4) Sulla presunta falsita dei documenti io ho dato la mia disponibilità a farli periziare da laboratorio serio ed indipendente che mai ho contattato di persona ed i giornali che se ne sono assunti l'impegno hanno risposto già, forse in maniera più responsabile di quanto leggo. Della autenticità di ciò che mi veniva consegnato dai miei superiori, all'epoca delle date indicate, io non ho mai avuto dubbi! Non ritengo si possa ritenere che un ''cancellato'' come me possa disporre di tutto quel materiale da poter trasformare e/o falsificare ...perchè, dai risultati peritali consegnatimo dopo le trasmissioni TV non c'è dubbio, e su base scientifica, che si tratta dello stesso materiale usato all'epoca indicata dal Ministero della Difesa della Repubblica Italiana e questi sono fatti ...non parole! In quanto poi alla falsificazione eventuali degli stessi, aldilà delle mere illazioni credo che chi fosse davvero capace di fabbricare falsi così bene da ingannare persino i periti userebbe questo suo ''indubbio talento'' per falsificare banconote da mille dollari o cinquecento euro ...non certo documenti militari di dubbia importanza. Infatti, come dichiaro anche nel libro, e la risposta ministeriale trascura anche questo fatto, l'unica importanza che quei documenti avevano per me era che dimostravano che a dispetto della ''cancellazionè', a quelle date io ricevevo ordini dal comando ed ero quindi in ''servizio permanente effettivo'' ...tutto qui! Le altre considerazioni vengono fatte da giornalisti che svolgevano le loro inchieste anche, ma non solo, sulla base della documentazione che producevo e valutavano in ''originalè' e non fotocopie falsificate. Pur non essendo un intenditore in materia ritengo che falsificare e/o correggere documenti stampati su una carta filigranata in azzurro come quella in oggetto sia del tutto impossibile a chiunque, ma è solo la mia opinione. 5) Sul fatto che io sia sconosciuto all'INS ...mi pare che abbiate potuto verificare di persona, esaminando le prove documentali di quanto affermo, se esse siano inconfutabili e se lettere, buste, dichiarazioni, sigilli Governativi USA e bolli postali fossero orginali e non corretti in alcun modo oppure no. Io non dichiaro che ho avuto a che fare con l'FBI o CIA o NSA ...bensì che le domande che coloro che si dichiaravno agenti dell'INS erano perlomeno fuori luogo per degli agenti INS ...e se permettete me ne intendo un poco, se non altro per esperienza diretta. 6) Altre mie dichiarazioni in materia sono sul libro L'Ultima Missione e nel CD Rom allegato, riportarle qui sarebbe inutilmente lungo, ma i fatti di cui abbiamo parlato e riguardanti ''strani plagi'', anche riguardanti moduli di intervento da noi eseguiti con successo nel Maghreb, la ''tripletta'' citata nel libro, sembrano confermare che, indubbiamente, il mio dossier, nel quale descrivevo anche queste operazioni nel dettaglio, era stato visionato attentamente ma maldestramente plagiato in Iraq-Giordania nell'estate del 1999 ...anche questo ben descritto nel Libro e documentato dalla storia attuale! 7) da un esame ''intelligentè' di questa risposta, mi appare evidente che lo scopo primario di chi l'ha compilata era poter confermare che la relazione del SISMi, predisposta per rispondere a suo tempo ai quesiti della Commissione strage di via Fani diceva il vero quando negava che i Servizi Segreti non ebbero mai a raccogliere elementi che potessero in qualche modo prevedere l'insorgere della strage e assassinio di Aldo Moro, anche negando l'esistenza di possibili minacce e/o avvertimenti. Su questo punto, effettivamente, altri elementi e non certo io che ero all'estero dal 6 marzo '78 e fino al 3 Ottobre '78, sembrerebbero accertare il contrario, ma queste sono cose semmai accertate da altre fonti e che io ho semplicemente riportato, in quanto attendibili, nel mio libro. Resto perciò convinto che anche l'On. Moro fosse stato avvertito di quanto si andava preparando, ma certo nessuno poteva prevedere, anche a parer mio, che sarebbe accaduto in via Fani, in quel modo atrocemente spietato e quella mattina del 16 marzo 1978 ...tranne coloro che parteciparono. Io, però, respingo decisamente, ed il mio libro sta a testimoniarlo, ma anche tutte le interviste concesse e pubblicate, di aver mai pensato o insinuato che i servizi segreti Italiani o Americani abbiano preso parte alla strage di via Fani ed all'assassinio di Aldo Moro. Cito anche Voi giornalisti a testimoniare pubblicamente e specialmente Stefano Vaccara di America Oggi a New York che per primo nel 1998 scrisse della strage Moro secondo la mia ricostruzione dei fatti, ma anche quelli di famiglia Cristiana che ormai mi hanno intervistato più volte per delle inchieste, se può essere interpretato così il mio libro, o le mie dichiarazioni rese e pubblicate. Sapete bene che ero e sono convinto della matrice Sovietica, e con essa Libica, di tutti i fatti di cui sono testimone; si può anche dissentire da questo, ma non ribaltare palesemente la verità fino a dichiarare che il sottoscritto accuserebbe gli alleati Americani di aver preso parte, anche solo tacendo, a quello che nel mio libro chiamo con il suo nome: ''Il Golpe Italiano'' ...quello perfettamente riuscito! Tutto ciò è del tutto assurdo! Ringraziandovi per il vostro impegno per la verità, spero che troviate il modo di pubblicare questa mia precisazione unitamente alla intervista resavi. Cordialmente, Antonino Arconte freccia rossa che punta in alto

28 maggio 2003
FRANCESCHINI E LA STORIA DELLE BR SU DAGOSPIA
STORIA INEDITA DELLE BRIGATE ROSSE SVELATA DA UN EX BRIGATISTA DALLA NASCITA AL SEQUESTRO SOSSI FINO AL SUPERCLAN HYPERION CORRADO SIMIONI, IL "GRANDE VECCHIO" CHE S'IMPOSSESSO' DELLE BR.

Corrado Simioni, uno dei fondatori delle Brigate Rosse e poi della scuola di lingue Hyperion, schedava i suoi compagni per conto di Roberto Dotti, il braccio destro di Edgardo Sogno. Di più: Dotti era l'uomo a cui i brigatisti dovevano rivolgersi in caso di bisogno. Lo rivela Alberto Franceschini, fondatore con Curcio delle Br, alle spalle 18 anni di carcere, oggi dirigente dell'Arci a Roma, ricostruendo per Dagospia, una storia inedita delle Br, dalla nascita al sequestro Sossi. Il suo è il racconto di una scalata: quella tentata da Simioni e dal suo Superclan ai vertici dell'organizzazione terroristica. E riuscita, grazie all'aiuto di due fedelissimi come Mario Moretti e Prospero Gallinari. Prima parte. Giovanni Fasanella intervista Alberto Franceschini. Innanzitutto, Franceschini, può datare con precisione la nascita delle Brigate Rosse: 1969 o 1970? Contrariamente a quanto spesso si dice, sono nate nell'agosto 1970, nel convegno di Pecorile, in provincia di Reggio Emilia. Nel novembre del 1969, a Chiavari, si tenne invece l'assemblea costitutiva del Cpm, il Collettivo politico metropolitano: come dire?, il papà delle Br. Su quale programma politico nacque il Cpm? L'uso della violenza rivoluzionaria. Il Cpm era per la violenza di avanguardie, e questo lo differenziava dagli altri gruppi come Potere Operaio e Lotta Continua, che erano invece per la violenza più legata ai movimenti di massa. Chi stava nel Cpm sapeva che presto sarebbe entrato nella clandestinità. Chi c'era, a Chiavari? Cominciamo dal gruppo di Renato Curcio. Erano soprattutto studenti dell'Università di Trento. Tra questi, Duccio Berio, figlio di un medico milanese legato al Mossad (secondo la voce del popolo, mai confermata) e genero del senatore comunista Alberto Malagugini; Vanni Mulinaris, figlio del proprietario del famoso pastificio friulano. Poi uno che chiamavamo "Pirellino", perchè nipote di Leopoldo Pirelli; un altro, di cui non ricordo il nome...Israel, mi pare, e che oggi dovrebbe lavorare in ambienti della Confindustria. E poi, Italo Saugo, detto il "nonno" per la sua età "avanzata" (aveva circa 35 anni), ex tenente degli alpini e fratello di un esponete neonazista militante di Ordine Nuovo a Tiene (Trento). Tutti rampolli dell'alta borghesia, Curcio era il più povero: figlio non riconosciuto del fratello di Luigi Zampa, il regista. Politicamente, Renato aveva un percorso accidentato: fino ai vent'anni circa aveva militato in Europa Civiltà, un'organizzazione di estrema destra; poi, a Trento, aveva aderito al Partito Comunista marxista-leninista (Linea rossa) Può completare la foto di gruppo di quel convegno? C'eravamo noi di Reggio Emilia, i più numerosi, tutti di provenienza Pci: oltre a me, Prospero Gallinari, Fabrizio Pelli, Roberto Ognibene, Tonino Paroli, Attilio Casaletti, Ivan Maletti. Poi, un gruppo di tecnici della Sit Siemens di Milano, tra cui Mario Moretti, allora iscritto alla Fim Cisl. Un nutrito gruppo di operai dei CUB della Pirelli e dell'Alfa Romeo, un gruppo di lavoratori-studenti che facevano capo a Franco Troiano. Infine, un gruppo di ingegneri dell'IBM, che facevano riferimento a Corrado Simioni... Può darci un ritratto di Simioni? Aveva fondato un'agenzia di informazioni, il Cip (Centro di Informazione Politica) e diceva di lavorare alla Mondadori, ma che cosa facesse esattamente, non è mai stato molto chiaro. Noi lo chiamavamo "l'inglese", per la sua eccentricità (con riferimento all'omonimo personaggio del film di Gillo Pontecorvo "Quemada"). Era il più anziano di tutti, girava in Maserati e dimostrava di avere un sacco di soldi. Quali erano i suoi rapporti con Curcio? Dopo Chiavari, loro due divennero subito i leader del Cpm. Anche se con compiti diversi. Curcio era il leader pubblico, l'uomo delle assemblee. Simioni, invece, amava starsene nell'ombra, preferiva lavorare dietro le quinte: aveva soldi e relazioni, e aveva il compito di preparare la rete logistica necessaria per il passaggio alla clandestinità del Cpm. La distinzione di ruoli tra Curcio e Simioni era in qualche modo concordata o subita da uno dei due? A quel tempo concordata, ne sono assolutamente certo. Può darci un ritratto anche del Moretti di allora? Schivo, riservato, anche lui si dava l'aria di uno che preferiva starsene dietro le quinte. Come Simioni. E infatti era un suo uomo di fiducia, uno dei principali referenti per il suo progetto di costruzione della rete logistica. Moretti, però, lasciò il Cpm nella primavera del 1970. In un manifesto, affisso nella nostra sede, spiegò che si era rotto le balle della trafila di discussioni, che noi eravamo dei perditempo, mentre bisognava passare subito all'azione. Da quel momento, scomparve. A Pecorile, dunque, Moretti non c'era? No. Lì vinse la linea Curcio-Simioni -anche se il loro sodalizio non sarebbe durato a lungo- e si decise il passaggio alla clandestinità in tempi brevi. L'"ala destra" del Cpm, sconfitta, se ne andò per confluire poi in Lotta Continua. Quando e perchè cominciò ad incrinarsi il rapporto tra Curcio e Simioni? Appena un mese dopo il convegno di Pecorile. A causa di una serie di episodi parecchio inquietanti. Dopo Pecorile. mi trasferii da Reggio a Milano e andai ad abitare proprio a casa di Simioni, con la moglie, i figli, Mulinaris, Troiano e la moglie, Maurizio Ferrari. Simioni fece una serie di cose che non andavano bene. Per esempio? Appena arrivato a casa sua, voleva che compilassi un questionario sulla mia vita privata, con domande anche molto intime... E perchè doveva dargli quelle informazioni? Glielo chiesi, appunto. Mi rispose che era per una prova di fiducia nei suoi confronti da parte mia. Allora gli dissi che l'avrei fatto solo se lui avesse dato a me informazioni altrettanto dettagliate sulla sua vita privata... e così non se ne fece niente. Lei però rimase a vivere in quella specie di comune? Si, ma non per molto. La rottura sarebbe avvenuta di lì a poco. Renato ed io proponevamo di colpire personaggi-simbolo legati alla realtà di fabbrica, ma colpendoli nelle "cose" - le loro auto -senza uccidere e firmando le azioni BR. La visione di Simioni, invece, era più legata al contesto internazionale e prevedeva l'assassinio. Per esempio, voleva che ammazzassimo Junio Valerio Borghese, durante una manifestazione neofascista a Trento alla fine di ottobre 1970, facendone ricadere la colpa su Lotta Continua. E un'altra volta ci propose di uccidere due ufficiali della Nato, a Napoli. Ci rifiutammo. Rompeste in quell'occasione? Non ancora. Ci furono altre cose strane. Un giorno, per esempio, ci fece conoscere una donna che presentò come la sua segretaria. Aggiunse -particolare poi risultato vero- che era stata anche una collaboratrice di Manlio Brosio alla Nato. Ci fece credere che eravamo così potenti da infiltrarci persino nella Nato... E non vi venne subito il sospetto che poteva essere vero anche il contrario? In effetti, cominciammo a diffidare di Simioni. Pochi giorni dopo quell'episodio, se ne verificò un altro che mandò in bestia Renato. Eravamo seduti su una panchina, in un paesino dell'entroterra ligure, io, Curcio e Simioni. Avevamo comprato il giornale La Notte e lo stavamo sfogliando, quando ci accorgemmo che Corrado era impallidito. Lo aveva turbato la notizia di una donna saltata in aria mentre stava preparando un attentato contro l'ambasciata americana ad Atene. Corrado ci rivelò che quell'attentato lo aveva organizzato lui e che la donna era una sua amante. Ci arrabbiamo, ma niente in confronto a quello che provammo quando Mara Cagol, la moglie di Renato, confessò al marito che, al posto di quella donna, doveva esserci lei. Senza dir nulla a Curcio, Corrado l'aveva cooptata nella sua rete, che allora chiamavamo -e non mi chieda la ragione, perchè non la conosco- le "zie rosse". Renato non volle più sentir ragioni e decidemmo di separarci da Simioni. Avvenne tutto in modo indolore? Avevamo parecchi debiti con le tipografie (allora facevamo una rivista chiamata "Sinistra proletaria"), diversi milioni di lire, davvero tanto a quell'epoca. E gli accordi, quando decidemmo di separarci, erano che a pagarli fosse Simioni. Lui non battè ciglio, chiese solo un po' di tempo, perchè teneva i soldi in una cassetta di sicurezza in... Grecia. In Grecia? Trasecolammo, quando ce lo disse: la cassa del Cpm, di fatto, era sotto la protezione del regime dei colonnelli! Comunque, poi pagò, e se ne andò. Era il novembre del 1970. Chiedemmo un incontro a Adriano Sofri e Oreste Scalzone, dirigenti rispettivamente di Lotta Continua e Potere Operaio. Ci sembrava giusto informarli sull'accaduto e li mettemmo in guardia: attenti, Simioni è un agente della Cia! Come reagirono? Presero atto. E Simioni, che fine fece? Avevamo deciso di ammazzarlo. Io e Mara, che ci eravamo assunti l'incarico, lo cercammo a lungo, ma lui si era dileguato. Quali conseguenze provocò, nelle BR, la rottura con Simioni? Ci fu una spaccatura e molti andarono via con lui: Berio, Mulinaris, Troiano, la maggioranza dei lavoratori-studenti, gli ingegneri dell'IBM, una parte dei "reggiani" tra cui Gallinari e Ivan Maletti. Quindi Simioni mantenne attiva la rete delle "zie rosse" anche dopo la vostra separazione? Sì, il Superclan. Lo avevamo ribattezzato così perchè teorizzavano un livello di clandestinità ancora più elevato e impenetrabile di quello delle Brigate Rosse. Mi viene in mente un episodio che risale al periodo in cui vivevo con Simioni. Un giorno mi aveva mostrato un tabulato da computer con grafici e proiezioni. Erano delle simulazioni di scenari su cui aveva costruito un percorso politico. "Nel 1974 -mi spiegò- ci sarà una grave crisi economica ed esploderanno forti tensioni sociali. Noi ora lavoriamo sotto traccia per costruire una rete logistica molto forte, con infiltrati in tutte le organizzazioni del movimento e della sinistra. E quando arriverà il momento, grazie al lavoro dei nostri uomini, noi saremo egemoni e in grado di innalzare il livello dello scontro..." Moretti aveva mantenuto i rapporti con il Superclan? Che notizie avevate di lui? Stranamente si rifece vivo con noi poco dopo che Simioni se n'era andato. Nel gennaio del 1971 bruciammo 5-6 camion sulla pista prove della Pirelli, a Lainate. Fu la nostra prima azione clamorosa e i giornali ci dedicarono dei titoloni: si erano accorti delle Br. Un paio di mesi dopo, alla Sit Siemens, venne lasciato un biglietto sulla Maserati di un capo. C'era scritto: «Questa macchinetta durerà finché lo vogliamo noi. Firmato: Brigate Rosse». Non eravamo stati noi a metterlo, ma qualcun altro. Era un messaggio, pensammo. E infatti, qualche giorno dopo riapparve Moretti, voleva incontrarci. Ci andai io, all'incontro. Mi disse che aveva fondato un suo gruppo e che voleva entrare nelle Br. Era l'aprile del 1971, quando cominciò a collaborare con noi. Era stato Simioni a dirgli di tornare, secondo lei? Oggi io ne sono convinto. Anche perché Moretti cominciò a comportarsi in modo strano... Lo avevamo accolto nelle Br, ma eravamo sempre tutti un po' diffidenti nei suoi confronti, giravano sempre delle chiacchiere sul suo conto, non era una persona limpidissima. Che cosa fece di "strano"? Quando nel maggio 1972 arrestarono Pisetta (il nostro primo infiltrato ufficiale), nel covo "prigione del popolo" di via Delfico a Milano, trovarono tutti i negativi delle fotografie che avevamo scattato a Macchiarini, il capo del personale della Sit Siemens sequestrato da noi nel marzo di quello stesso anno. Erano tutte foto che dovevano essere tutte distrutte (e che Moretti ci aveva garantito di avere distrutto), perché potevano consentire agli inquirenti l'identificazione dei compagni che avevano partecipato all'azione. E infatti, proprio sulla scorta di quelle foto, furono arrestati e inquisiti alcuni compagni. Voi gli chiedeste conto del suo comportamento? Si giustificò dicendo che si era sbagliato, le pellicole erano rimaste incollate tra di loro e lui non se n'era accorto... Poi ne fece un'altra. Sequestrammo un caporeparto e lui aveva il compito di preparare il cartello da appendergli al collo per la fotografia di rivendicazione. Lo fece. Solo che, invece di disegnare la stella a 5 punte, il nostro simbolo, ne aveva disegnata una a 6 punte, la stella di Davide. Disse che si era sbagliato... Ora mi chiedo se anche quello non fosse un messaggio a qualcuno, come il bigliettino sulla Maserati del capo Sit Siemens.... Ma se avevate un simile sospetto, non vi venne mai in mente di prendere delle contromisure? Non avevamo prove, ovviamente. E comunque, per noi, forse era più facile credere che Moretti fosse solo un gran pasticcione. Torniamo a Simioni. Lei é dunque convinto che avesse suoi infiltrati dentro le Br? Più che convinto. Oggi direi: certo. Anche perché, dopo il rientro di Moretti, ci fu un altro strano ritorno all'ovile: Prospero Gallinari. Si mise in contatto con noi nella primavera del 1973 e io andai ad incontrarlo alla stazione ferroviaria di Fiorenzuola d'Arda, vicino a Parma. Mi chiese di rientrare nelle Br: Simioni e i suoi sono degli intellettuali, mi disse, non combinano nulla. Così seppi da lui che cosa era successo, nel frattempo, alle "zie rosse". Avevano cambiato nome, si chiamavano "la ditta", teorizzavano e praticavano l'amore collettivo... L'amore collettivo? Erano i capi a formare le coppie, e potevano decidere all'improvviso di romperle per ricostituirle in modo diverso. Così Simioni esercitava un controllo pressoché totale sui militanti. Mi venne in mente il questionario che voleva farmi compilare Simioni e capii che cos'era "la ditta": una specie di setta dalla quale, una volta entrato, uno non poteva più uscire. Però Gallinari ne era uscito. Gallinari mi raccontò che alla fine del 1972 "la ditta" si era sciolta. I membri del gruppo dirigente (Simioni, Mulinaris, Berio, Troiano, Innocente Salvoni e la Tissot, gli stessi che poi avrebbero fondato a Parigi la famosa e famigerata scuola di lingue Hyperion) erano andati a vivere in una villa del Veneto. A tutti gli altri era stato detto: tornatevene a casa, riprendete la vita normale e infiltratevi nelle organizzazioni del movimento e della sinistra; quando sarà il momento, noi vi diremo che cosa dovrete fare. Se Gallinari le fece questa rivelazione, doveva essere sincero. Non le pare? Qualcosa doveva raccontarmi, per essere credibile. Altrimenti non lo avremmo ripreso nelle Br, e lui lo sapeva. Caratterialmente, Prospero era il prototipo dello stalinista: se il "partito" gli avesse chiesto di ammazzare la madre, lui lo avrebbe fatto. Quando tra noi parlavamo di lui, ci piaceva scherzare ricordando la famosa telefonata di Stalin a Bucharin, la notte prima che lo fucilassero: caro compagno Bucharin, gli disse Stalin piangendo, ti comunico che domani mattina sarai fucilato... Gallinari era così. Se Simioni, che aveva in pugno i suoi seguaci, gli avesse ordinato: vai lì e dì questo, lui l'avrebbe fatto senza discutere. Quali altri elementi ha, per ipotizzare un legame di Moretti e Gallinari con Simioni, anche dopo il loro ritorno a casa? Uno piccolo, ma credo molto significativo. Noi della prima generazione avevamo sempre chiamato tra di noi le Br l'"organizzazione". Molti anni dopo, alla fine del 1978, quando incontrai in carcere Azzolini e Bonisoli, mi colpì il fatto che loro, parlando delle Br, usassero tranquillamente il termine "la ditta". Gli chiesi come mai. Mi risposero che dopo la decimazione del gruppo storico, nel 1976 le Br vennero ristrutturate e da allora si era cominciato a chiamarle così. Di recente, leggendo una storia del Mossad, mi ha colpito il fatto che anche i suoi membri, quando parlavano del loro servizio segreto, lo definivano in gergo "la ditta"... Che cosa accadde dopo il rientro di Moretti e Gallinari nelle Br? Durante il sequestro Amerio, fummo contattati dal Mossad. Ci offrirono aiuto e protezione senza pretendere nulla in cambio: a loro bastava che noi esistessimo. Rifiutammo. Quale fu il canale utilizzato per arrivare a voi? Venne a parlarci Antonio Bellavita, direttore di Controinformazione, la rivista che fungeva da facciata legale delle Br (vi collaboravano anche Toni Negri, Emilio Vesce e altri che in seguito avrebbero fatto nascere l'Autonomia). Ci riferì il messaggio, spiegandoci che il tramite era un medico milanese... Il padre di Berio? Non credo... Bellavita, comunque, oggi é latitante a Parigi ed é certamente nel giro dell'Hyperion. Per una strana coincidenza, in quello stesso periodo, si mosse anche l'avvocato Alberto Malagugini, allora responsabile nazionale del settore problemi dello Stato del Pci, e che si diceva fosse molto legato all'Urss... Il suocero di Berio? Sì. Contattò me e Piero Morlacchi, che venivamo entrambi dal Pci, e ci fece questo discorso: guardate che per voi si stanno preparando tempi duri, se vi consegnate al giudice istruttore milanese Ciro De Vincenzo, che é un nostro amico, vi garantisco che ne uscirete puliti e ve ne tornerete a casa. Perché, secondo lei, Malagugini fece un passo del genere? Sapeva che stavano per prenderci, e non voleva ovviamente che saltasse fuori che molti brigatisti provenivano dal Pci. In quel periodo, il generale dalla Chiesa stava costituendo i nuclei antiterrorismo proprio con l'appoggio del Pci. Noi comunque non ci presentammo. Berio e sua moglie certamente sì; ne uscirono puliti e se ne andarono a Parigi, dove poi fondarono l'Hyperion, con Simioni e gli altri. Correva l'anno 1974... La vigilia della grande retata? Sì, cominciarono a scoprire i nostri covi e ad arrestare i compagni... E qui c'é un'altra storia inquietante che merita di essere raccontata. Nel novembre di quell'anno, scoprirono una nostra base a Robbiano di Mediglia, vicino Milano. Tra le altre cose, in quel covo, avevamo i materiali "sequestrati" nel maggio 1974 durante una nostra irruzione nella sede del Centro di Resistenza Democratica di Edgardo Sogno a Milano. Nell'ordinanza di rinvio a giudizio nei nostri confronti, il giudice Caselli a un certo punto scrisse: «...Assai singolare la presenza tra il materiale asportato al Crd di una fotografia di Dotti Roberto tolta dalla tomba di lui». Caselli era stupito che ci fosse tra le nostre cose una fotografia tolta da una lapide... Ammetterà che, in effetti, la circostanza é piuttosto strana? Si, ma io oggi sono in grado di spiegare quel particolare mai chiarito. Nell'aprile 1974 avevamo sequestrato il giudice genovese Sossi. In quei giorni compimmo un'altra azione clamorosa, "perquisimmo" la sede di Sogno, a Milano, e portammo via un sacco di roba. Una volta liberato Sossi, io e Mara Cagol cominciammo a studiarci le carte di Sogno. C'era un necrologio pubblicato sul Corriere della Sera a un anno dalla morte di questo Roberto Dotti, ed era firmato da Sogno e da altri suoi amici. "Strano", disse Mara... Che cosa c'era di strano? Mara mi fece questo racconto: "Quando stavo con Simioni, avevo l'incarico di raccogliere i questionari fatti compilare ai militanti. Un giorno, Corrado mi portò alla Terrazza Martini di Milano e mi fece parlare con una persona che si chiamava Roberto Dotti. Corrado mi disse che le schede avrei dovute consegnarle a questo Dotti e che a lui avrei potuto rivolgermi anche in caso di necessità, se avessi avuto bisogno di soldi o altro". La Cagol non chiese chi fosse il signor Dotti? Certamente, lo aveva incontrato un paio di volte. E lui le aveva raccontato la sua vita. Ex partigiano del Pci, aveva fatto parte della "Volante rossa", condannato per l'omicidio di un dirigente Fiat compiuto a Torino subito dopo la guerra, era fuggito a Praga. Rientrato in Italia, non si era più iscritto al Partito Comunista, perché non ne condivideva la linea ormai, a suo dire, troppo sbilanciata a destra. Ecco, questa era la sua biografia. E quando Mara vide il necrologio, si domandò se quel Dotti fosse lo stesso che aveva conosciuto lei. Allora ci sembrava strano, e sinceramente impossibile, che una persona con quella biografia potesse stare con Sogno! Nel dubbio, io dissi: Mara, vado al cimitero, a Milano, stacco la foto dalla lapide e te la porto. Così feci. Dopo averla vista, Mara non fu in grado di riconoscerlo con certezza. Anche perché lo aveva visto solo due volte, quattro anni prima. E poi ovviamente una foto presa da una tomba in genere non assomiglia molto alla persona viva. E così, quella foto rimase lì... in attesa di chiarimenti. Lei, dunque, oggi ipotizza che il Dotti del necrologio e il Dotti della Terrazza Martini consciuto dalla Cagol fossero la stessa persona? No, io non ipotizzo: oggi ne sono certo. E la certezza l'ho avuta dallo stesso Sogno tre anni fa, leggendo Testamento di un anticomunista, l'intervista che Aldo Cazzullo gli fece per la Mondadori. Ecco, leggo alle pagine 110 e 111. "Come si assicurò i servigi di Dotti?", gli chiede Cazzullo. La risposta di Sogno: "Me ne parlò Piero Rachetto, socialista, partigiano in Val di Susa, dirigente di Pace e Libertà a Torino. Rachetto aveva aiutato Dotti a fuggire a Praga. Al suo ritorno in Italia, me lo indicò come sostituto di Cavallo. Dotti lavorò con me fino alla chiusura di Pace e Libertà, nel '58. Poi gli trovai una sistemazione grazie al mio vecchio amico Adriano Olivetti, che avevo conosciuto anni prima negli ambienti liberali. Olivetti lo assunse a "Comunità". Quando tornai dalla Birmania per fare politica, nel '70, Dotti lavorava alla Martini e Rossi -era il direttore della Terrazza Martini di Milano- e guadagnava un milione al mese. Si licenziò e venne da me, a guadagnare la metà...". La sua conclusione, dunque? Sulla base di questo elemento, si può quanto meno ipotizzare l'esistenza di un legame tra Simioni e Sogno, attraverso Roberto Dotti. freccia rossa che punta in alto

Seconda Parte

Franceschini, la prima azione davvero eclatante delle BR fu il sequestro del giudice genovese Mario Sossi. Ma quella fu anche l'ultima azione a cui lei partecipò? Sì, era la primavera 1974, poi l'8 settembre di quello stesso anno mi arrestarono, con Curcio. Fui io a organizzare quell'operazione e a gestirla politicamente... Sa una cosa? Sono convinto che chi nel 1978, fra i brigatisti e nello Stato, gestì la vicenda Moro, aveva fatto tesoro del sequestro Sossi e lo aveva studiato attentamente. Analizzando nei dettagli il sequestro Sossi, credo infatti che si possa trovare una chiave interpretativa per decrittare almeno i passaggi più importanti del sequestro Moro. Da dove vuole cominciare? Dalla dinamica dell'azione. Sequestrammo Sossi il 18 aprile del 1974, a Genova. Il nucleo operativo era diviso in tre gruppi. Il primo (composto da quattro persone) "prese" il magistrato. Il secondo (due persone) funzionò da "copertura primaria", doveva cioè intervenire anche sparando se fosse intervenuto qualche elemento di "disturbo". Il terzo (io, Mara Cagol e Piero Bertolazzi) prese in consegna l'ostaggio e lo portò nella "prigione del popolo", che conoscevamo soltanto noi tre. C'erano poi altri compagni con ruoli di "copertura secondaria". In tutto parteciparono all'azione se non sbaglio 18 persone. Ora, tutti i partecipanti, anche grazie alle dichiarazioni di diversi pentiti, vennero poi identificati, arrestati, processati e condannati. Tutti, tranne uno... Chi? Francesco Marra, era uno dei componenti del primo gruppo, un ex paracadutista, il più addestrato militarmente di tutti noi. Anche in via Fani, quando presero Moro, c'era un killer molto addestrato che non è mai stato identificato... Appunto. E lei sa chi è? No. Torniamo a Marra. Perchè si salvò? Leggendo gli atti del processo Sossi, fui colpito dalla testimonianza di un compagno pentito, Alfredo Buonavita. Era uno dei quattro del primo gruppo, e ai magistrati aveva ricostruito i fatti con estrema precisione. Con un solo errore: tra i partecipanti all'azione, aveva omesso il nome di Marra, indicando al suo posto quello di Moretti, che però non aveva partecipato all'azione. Buonavita non poteva essersi sbagliato perché conosceva tutto nei dettagli: forse avrà voluto coprire Marra, pensai. Pensò la cosa più logica. Già. Solo che poi scoprii che Marra in realtà era già allora un infiltrato della polizia. Ruolo confermato addirittura da una sentenza del Tribunale di Milano, il 5 luglio 2001. A Buonavita chiesero dunque di non fare il nome di Marra? Per forza. Se Marra era un infiltrato, questo significa che la polizia, e quindi il Ministero degli Interni, sapeva che stavate preparando il sequestro Sossi e vi lasciò fare... È doloroso ammetterlo, ma è così. Marra però non sapeva dov'era la prigione di Sossi. Ma intuiva più o meno in che zona poteva essere e conosceva il tipo di auto (e targa) con la quale io e la Cagol ci muovevamo. E infatti, se si ricostruiscono le indagini dell'epoca, ci si accorge che erano indirizzate sulla base di informazioni precise che qualcuno certamente forniva agli inquirenti. Non vi fermarono, però subito dopo si misero in cerca di Sossi. Non le sembra che ci sia una contraddizione, in quello che lei dice? Non è detto che volessero liberare Sossi. È possibile che volessero soltanto scoprire dove lo tenevamo prigioniero: non potevano permettersi di non saperlo. E poi, che cosa accadde? Una settimana dopo il sequestro, Sossi ci pregò di far avere un biglietto alla moglie e al suo avvocato: chiedeva la sospensione delle indagini... Voleva che si trattasse per la sua liberazione? Sì, di fatto voleva proporre che si aprisse una trattativa. Ci fu una lunga discussione all'interno del nostro Comitato esecutivo, se recapitare o no quel biglietto di Sossi. Moretti era decisamente contrario, io del tutto favorevole. Alla fine Curcio si schierò con me e il messaggio fu recapitato. Come poi nel caso Moro, l'iniziativa partì dall'ostaggio? Sì, era lo stesso Sossi a trattare, non noi. Per questo accettammo. Voi sottoponeste l'ostaggio a un "processo". Quale fu il suo comportamento? Cominciò a collaborare, accettando di rispondere alle nostre domande, ma all'inizio senza sbilanciarsi troppo. Nel frattempo, era riuscito a stabilire un canale con l'esterno: tramite noi, faceva pervenire messaggi alla famiglia e all'avvocato. Quali erano i termini della trattativa? Una trattativa vera e propria, in realtà, non si era ancora aperta. Però accadde qualcosa che fece precipitare la situazione. Ai primi di maggio, 15 giorni dopo il sequestro, scoppiò una rivolta nel carcere di Alessandria. Alcuni detenuti comuni presero in ostaggio delle guardie e il generale Dalla Chiesa intervenne con i suoi neonati nuclei speciali antiterrorismo. La rivolta fu repressa nel sangue: ci furono 7 morti, tra detenuti e ostaggi. Un messaggio terribile per noi. Anche perché sui giornali si diceva apertamente che, una volta individuata la "prigione del popolo", i carabinieri avrebbero agito nello stesso modo. Qual è la lettura che lei ne darebbe, oggi? Quell'episodio potrebbe essere paragonato al falso comunicato n.7 sul Lago della Duchessa del sequestro Moro. Il presidente della DC lesse quel comunicato come una "macabra messinscena" del suo assassinio. Così Sossi vide nella strage di Alessandria una condanna a morte per tutti noi, lui compreso. Tra l'altro, il covo dove tenevamo l'ostaggio era a Tortona, a pochi chilometri da Alessandria. Ma poi ha avuto in qualche modo delle conferme di questa interpretazione? L'anno dopo, il numero due del Sid, Gian Adelio Maletti, rivelò che il generale Miceli gli aveva chiesto di preparare un'operazione speciale durante il sequestro Sossi: far sparire Gianbattista Lazagna, un ex partigiano comunista che simpatizzava per la lotta armata. E a quale scopo? Farlo passare come il capo delle Brigate Rosse. Dopo una settimana, in cui tutti si sarebbero chiesti che fine avesse fatto Lazagna, avrebbe dovuto esserci un blitz nel covo di Tortona. E in quell'operazione avrebbero dovuto ammazzarci tutti, noi brigatisti, Sossi...e lì avrebbero fatto trovare anche il cadavere di Lazagna, il "capo". Il piano non fu attuato perchè Maletti, a suo dire, si sarebbe rifiutato. Però, se Miceli fece quella proposta, significa che la "prigione del popolo" era in fase di individuazione o addirittura già stata individuata. Lei ha detto che l'episodio di Alessandria fece precipitare la situazione. Che cosa accadde? Ne parlammo con Sossi e lui ci disse: ora siamo tutti sulla stessa barca, o ci salviamo tutti o nessuno. E da quel momento cominciò a collaborare davvero. Vi rivelò dei segreti, come Moro? Sossi conosceva perfettamente i meccanismi del potere e ci fece avere delle informazioni da usare come arma di ricatto. Ci disse che lui era un uomo del Sid e che si addestrava all'uso delle armi. Ci rivelò i nomi dei due capi stazione del Sid a Genova con cui era in contatto. E ci raccontò la storia di un traffico d'armi in cambio di diamanti con un paese africano, che passava per la Questura di Genova. Precisamente per il capo della Squadra mobile, Catalano, uomo di fiducia di Taviani. Mettemmo tutto nero su bianco, in un volantino che scrissi proprio io: "Vi diciamo chi sono i veri delinquenti", lo intitolai, e lo rendemmo pubblico, con la richiesta della liberazione di un gruppo di compagni della Gap XXII Ottobre, il primo nucleo di lotta armata in Italia. Fu lo stesso Sossi a suggerirci la strada giuridica per chiedere la liberazione: una lettera, che scrisse lui, di suo pugno, al presidente della Corte d'Assise d'Appello di Genova. A quel punto si aprì una trattativa vera e propria? Sì... E ci fu anche un intermediario, come nel caso Moro? Ci contattò un intermediario che godeva della nostra fiducia. Ne può rivelare il nome? Ma sì, oggi, dopo quasi trentanni, lo posso dire... Era Corrado Corghi, un professore universitario di Reggio Emilia molto legato alla Chiesa... Il Corghi ex presidente dell'Azione Cattolica? Lui, si. Era stato anche segretario regionale della Dc in Emila e a Reggio. Amico di Dossetti e di La Pira, aveva abbandonato la Dc verso la metà degli anni Sessanta ed era uno degli animatori dei cattolici del dissenso. E perchè godeva della vostra fiducia? Era un estimatore di Cuba, amico personale di Fidel Castro e del Che Guevara. Era ambasciatore itinerante del Vaticano in America Latina. Tra l'altro, aveva trattato per conto del Vaticano anche la liberazione di Regis Debray, quando lo scrittore francese amico del Che venne catturato dalla polizia boliviana. Conoscevamo Corghi e Corghi conosceva me. Perciò, quando ci contattò, Renato ed io accettammo subito il rapporto. Per conto di chi trattava, questa volta? Per conto del Vaticano. Ci incontrammo con lui tre volte, a Roma, in alcune chiese. Nel primo incontro ci prospettò una possibile via d'uscita. Noi avremmo liberato Sossi. E in cambio, i compagni della XXII Ottobre sarebbero stati ospitati nella legazione cubana in Vaticano... Anche Moro doveva essere liberato in Vaticano... Assolutamente credibile... Noi dicemmo che eravamo d'accordo e lo incoraggiammo a proseguire. Al secondo appuntamento, qualche giorno dopo, Corghi arrivò sorridente. Disse che la trattativa aveva raggiunto un risultato positivo, perchè Cuba era disposta ad accogliere i nostri compagni. "Stasera potete festeggiare", ci disse. Io tornai nella prigione del popolo con una bottiglia di barolo e brindammo insieme a Sossi. Anche nel caso Moro ci fu un momento in cui il prigioniero era convinto che sarebbe stato liberato... Che cosa accadde, poi, con Sossi? Sembrava tutto a posto. Ma dopo due o tre giorni, l'intermediario ci riconvocò. Ma non sorrideva più. Ci disse che non se ne sarebbe fatto più nulla, perchè i cubani si erano tirati indietro. Come mai? Era intervenuto il Pci, Berlinguer in persona aveva fatto pressione su Fidel Castro. Corghi ci disse anche che, per il disturbo, Berlinguer aveva promesso a Fidel una fornitura dalla Fiat di 50 trattori. Ci avevano venduti per 50 trattori! Come per Moro: mentre il Vaticano trattava, lo Stato e la politica si irrigidivano. Proprio così. La Corte d'Assise d'Appello di Genova, come aveva suggerito lo stesso Sossi, aveva deciso la liberazione dei nostri compagni. Ma il Procuratore Capo Coco aveva fatto ricorso in Cassazione contro quella sentenza; e nel frattempo, per impedire che uscissero, Taviani aveva fatto circondare dalla polizia le carceri in cui erano detenuti i compagni della XXII Ottobre. E quali furono i riflessi al vostro interno? Ci riunimmo per decidere che cosa fare, io, Curcio e Moretti. Secondo Moretti, Sossi doveva essere ucciso. Io, invece, ero di parere opposto. La discussione tra me e Moretti fu durissima. Alla fine, fu decisa una mediazione: avremmo consultato i comandanti delle brigate per conoscere il loro parere. Se era vero che i servizi avevano già individuato la prigione, come voi sospettavate, non c'era molto tempo. Il punto, infatti, era proprio questo. Tornai alla prigione e analizzai la situazione con gli altri due compagni. Da una serie di indizi, era chiaro che il covo era stato individuato. Quali indizi? Un elicottero era passato più volte a volo radente sul tetto della villetta dove eravamo noi. E poi, quel posto completamente isolato nella campagna, fino a quel momento deserto, era improvvisamente diventato meta di strani ciclisti e coppiette. Sapevamo dunque che presto sarebbero arrivati e ci avrebbero ammazzati tutti. Ma perchè volevano Sossi morto? Perchè aveva parlato, suppongo... Non c'era tempo da perdere e decidemmo io, Marra e Bertolazzi, autonomamente, senza dir niente a nessuno. Fu un colpo di mano. Truccammo Sossi, come lui stesso ci aveva suggerito, lo portammo a Milano e lo liberammo alla stazione. Lui, senza avvisare nessuno, salì su un treno e tornò a Genova, dove si consegnò, nella sorpresa generale, alla Guardia di Finanza: dei carabinieri e della polizia, ci aveva detto, non si fidava. Quali conseguenze ebbe, nelle Br, il vostro colpo di mano? Si aprì un duro confronti tra quelli che erano per la liberazione di Sossi, e i "duri" che lo avrebbero voluto uccidere. La maggioranza dei compagni era comunque convinta che la liberazione di Sossi fosse stata una vittoria politica delle Br. E Moretti, cosa fece? Io dissi che uno come Moretti non poteva restare nell'Esecutivo, perchè si era rivelato del tutto incapace di gestire politicamente la situazione: era troppo rigido e schematico, incapace di capire le dinamiche dei fatti. Così chiesi che fosse convocata una nuova Direzione Strategica per eleggere un nuovo Comitato esecutivo, senza Moretti. Era l'agosto del '74, se non ricordo male. Il 7 settembre, in una casa di Parma, ci incontrammo io, Renato e Moretti per fissare la data della riunione della Direzione strategica, il 22 settembre. Moretti non reagi? In quell'incontro, mi sorprese. Disse che avevamo ragione noi, e ammise la sua incapacità politica. Di più: ci anticipò che nella Direzione strategica avrebbe lui stesso chiesto di uscire dall'Esecutivo per tornare a lavorare in una brigata di fabbrica. Fu un gesto, diciamo, di grande umiltà, il suo. Lo pensammo subito anche Curcio ed io. Solo che, il giorno dopo quell'incontro a Parma, io e Renato venimmo arrestati alla stazione di Pinerolo. E Moretti, che era stato avvertito da una telefonata anonima di quello che sarebbe accaduto, non fece praticamente nulla per avvertirci. La riunione della direzione strategica si tenne ugualmente? Sì, alla data fissata. Un anno dopo, in carcere, seppi quello che era accaduto. Moretti non chiese di andare a lavorare in fabbrica, non si dimise dall'Esecutivo. Ci attaccò, sostenendo che Curcio e Franceschini erano degli ingenui, due che giocavano a fare la rivoluzione, mentre bisognava cominciare a fare sul serio. Nel 1976, i compagni che avevano partecipato alla prima fase dell'esperienza brigatista vennero arrestati tutti. Tutti, tranne Moretti che diventò il capo assoluto e indiscusso delle Brigate Rosse. O meglio di quello che continuava a chiamarsi Brigate Rosse. Quale lezione coclusiva si sente di trarre? Ci fecero fuori e si appropriarono di un "marchio" che aveva già una buona posizione sul mercato. Come si fa nelle borse: se c'è un'azienda giovane con prospettive, arrivano i vari finanzieri e fanno la scalata. Ma io, purtroppo, l'ho capito solo dieci anni dopo. dell'Arci a Roma, ricostruendo per Dagospia, una storia inedita delle Br, dalla nascita al sequestro Sossi. Il suo è il racconto di una scalata: quella tentata da Simioni e dal suo Superclan ai vertici dell'organizzazione terroristica. E riuscita, grazie all'aiuto di due fedelissimi come Mario Moretti e Prospero Gallinari. Prima parte. Giovanni Fasanella intervista Alberto Franceschini. Innanzitutto, Franceschini, può datare con precisione la nascita delle Brigate Rosse: 1969 o 1970? Contrariamente a quanto spesso si dice, sono nate nell'agosto 1970, nel convegno di Pecorile, in provincia di Reggio Emilia. Nel novembre del 1969, a Chiavari, si tenne invece l'assemblea costitutiva del Cpm, il Collettivo politico metropolitano: come dire?, il papà delle Br. Su quale programma politico nacque il Cpm? L'uso della violenza rivoluzionaria. Il Cpm era per la violenza di avanguardie, e questo lo differenziava dagli altri gruppi come Potere Operaio e Lotta Continua, che erano invece per la violenza più legata ai movimenti di massa. Chi stava nel Cpm sapeva che presto sarebbe entrato nella clandestinità. Chi c'era, a Chiavari? Cominciamo dal gruppo di Renato Curcio. Erano soprattutto studenti dell'Università di Trento. Tra questi, Duccio Berio, figlio di un medico milanese legato al Mossad (secondo la voce del popolo, mai confermata) e genero del senatore comunista Alberto Malagugini; Vanni Mulinaris, figlio del proprietario del famoso pastificio friulano. Poi uno che chiamavamo "Pirellino", perchè nipote di Leopoldo Pirelli; un altro, di cui non ricordo il nome...Israel, mi pare, e che oggi dovrebbe lavorare in ambienti della Confindustria. E poi, Italo Saugo, detto il "nonno" per la sua età "avanzata" (aveva circa 35 anni), ex tenente degli alpini e fratello di un esponete neonazista militante di Ordine Nuovo a Tiene (Trento). Tutti rampolli dell'alta borghesia, Curcio era il più povero: figlio non riconosciuto del fratello di Luigi Zampa, il regista. Politicamente, Renato aveva un percorso accidentato: fino ai vent'anni circa aveva militato in Europa Civiltà, un'organizzazione di estrema destra; poi, a Trento, aveva aderito al Partito Comunista marxista-leninista (Linea rossa) Può completare la foto di gruppo di quel convegno? C'eravamo noi di Reggio Emilia, i più numerosi, tutti di provenienza Pci: oltre a me, Prospero Gallinari, Fabrizio Pelli, Roberto Ognibene, Tonino Paroli, Attilio Casaletti, Ivan Maletti. Poi, un gruppo di tecnici della Sit Siemens di Milano, tra cui Mario Moretti, allora iscritto alla Fim Cisl. Un nutrito gruppo di operai dei CUB della Pirelli e dell'Alfa Romeo, un gruppo di lavoratori-studenti che facevano capo a Franco Troiano. Infine, un gruppo di ingegneri dell'IBM, che facevano riferimento a Corrado Simioni... Può darci un ritratto di Simioni? Aveva fondato un'agenzia di informazioni, il Cip (Centro di Informazione Politica) e diceva di lavorare alla Mondadori, ma che cosa facesse esattamente, non è mai stato molto chiaro. Noi lo chiamavamo "l'inglese", per la sua eccentricità (con riferimento all'omonimo personaggio del film di Gillo Pontecorvo "Quemada"). Era il più anziano di tutti, girava in Maserati e dimostrava di avere un sacco di soldi. Quali erano i suoi rapporti con Curcio? Dopo Chiavari, loro due divennero subito i leader del Cpm. Anche se con compiti diversi. Curcio era il leader pubblico, l'uomo delle assemblee. Simioni, invece, amava starsene nell'ombra, preferiva lavorare dietro le quinte: aveva soldi e relazioni, e aveva il compito di preparare la rete logistica necessaria per il passaggio alla clandestinità del Cpm. La distinzione di ruoli tra Curcio e Simioni era in qualche modo concordata o subita da uno dei due? A quel tempo concordata, ne sono assolutamente certo. Può darci un ritratto anche del Moretti di allora? Schivo, riservato, anche lui si dava l'aria di uno che preferiva starsene dietro le quinte. Come Simioni. E infatti era un suo uomo di fiducia, uno dei principali referenti per il suo progetto di costruzione della rete logistica. Moretti, però, lasciò il Cpm nella primavera del 1970. In un manifesto, affisso nella nostra sede, spiegò che si era rotto le balle della trafila di discussioni, che noi eravamo dei perditempo, mentre bisognava passare subito all'azione. Da quel momento, scomparve. A Pecorile, dunque, Moretti non c'era? No. Lì vinse la linea Curcio-Simioni -anche se il loro sodalizio non sarebbe durato a lungo- e si decise il passaggio alla clandestinità in tempi brevi. L'"ala destra" del Cpm, sconfitta, se ne andò per confluire poi in Lotta Continua.
Quando e perchè cominciò ad incrinarsi il rapporto tra Curcio e Simioni? Appena un mese dopo il convegno di Pecorile. A causa di una serie di episodi parecchio inquietanti. Dopo Pecorile. mi trasferii da Reggio a Milano e andai ad abitare proprio a casa di Simioni, con la moglie, i figli, Mulinaris, Troiano e la moglie, Maurizio Ferrari. Simioni fece una serie di cose che non andavano bene. Per esempio? Appena arrivato a casa sua, voleva che compilassi un questionario sulla mia vita privata, con domande anche molto intime... E perchè doveva dargli quelle informazioni? Glielo chiesi, appunto. Mi rispose che era per una prova di fiducia nei suoi confronti da parte mia. Allora gli dissi che l'avrei fatto solo se lui avesse dato a me informazioni altrettanto dettagliate sulla sua vita privata... e così non se ne fece niente. Lei però rimase a vivere in quella specie di comune? Si, ma non per molto. La rottura sarebbe avvenuta di lì a poco. Renato ed io proponevamo di colpire personaggi-simbolo legati alla realtà di fabbrica, ma colpendoli nelle "cose" - le loro auto -senza uccidere e firmando le azioni BR. La visione di Simioni, invece, era più legata al contesto internazionale e prevedeva l'assassinio. Per esempio, voleva che ammazzassimo Junio Valerio Borghese, durante una manifestazione neofascista a Trento alla fine di ottobre 1970, facendone ricadere la colpa su Lotta Continua. E un'altra volta ci propose di uccidere due ufficiali della Nato, a Napoli. Ci rifiutammo. Rompeste in quell'occasione? Non ancora. Ci furono altre cose strane. Un giorno, per esempio, ci fece conoscere una donna che presentò come la sua segretaria. Aggiunse -particolare poi risultato vero- che era stata anche una collaboratrice di Manlio Brosio alla Nato. Ci fece credere che eravamo così potenti da infiltrarci persino nella Nato... E non vi venne subito il sospetto che poteva essere vero anche il contrario? In effetti, cominciammo a diffidare di Simioni. Pochi giorni dopo quell'episodio, se ne verificò un altro che mandò in bestia Renato. Eravamo seduti su una panchina, in un paesino dell'entroterra ligure, io, Curcio e Simioni. Avevamo comprato il giornale La Notte e lo stavamo sfogliando, quando ci accorgemmo che Corrado era impallidito. Lo aveva turbato la notizia di una donna saltata in aria mentre stava preparando un attentato contro l'ambasciata americana ad Atene. Corrado ci rivelò che quell'attentato lo aveva organizzato lui e che la donna era una sua amante. Ci arrabbiamo, ma niente in confronto a quello che provammo quando Mara Cagol, la moglie di Renato, confessò al marito che, al posto di quella donna, doveva esserci lei. Senza dir nulla a Curcio, Corrado l'aveva cooptata nella sua rete, che allora chiamavamo -e non mi chieda la ragione, perchè non la conosco- le "zie rosse". Renato non volle più sentir ragioni e decidemmo di separarci da Simioni. Avvenne tutto in modo indolore? Avevamo parecchi debiti con le tipografie (allora facevamo una rivista chiamata "Sinistra proletaria"), diversi milioni di lire, davvero tanto a quell'epoca. E gli accordi, quando decidemmo di separarci, erano che a pagarli fosse Simioni. Lui non battè ciglio, chiese solo un po' di tempo, perchè teneva i soldi in una cassetta di sicurezza in... Grecia. In Grecia? Trasecolammo, quando ce lo disse: la cassa del Cpm, di fatto, era sotto la protezione del regime dei colonnelli! Comunque, poi pagò, e se ne andò. Era il novembre del 1970. Chiedemmo un incontro a Adriano Sofri e Oreste Scalzone, dirigenti rispettivamente di Lotta Continua e Potere Operaio. Ci sembrava giusto informarli sull'accaduto e li mettemmo in guardia: attenti, Simioni è un agente della Cia!
Come reagirono? Presero atto. E Simioni, che fine fece? Avevamo deciso di ammazzarlo. Io e Mara, che ci eravamo assunti l'incarico, lo cercammo a lungo, ma lui si era dileguato. Quali conseguenze provocò, nelle BR, la rottura con Simioni? Ci fu una spaccatura e molti andarono via con lui: Berio, Mulinaris, Troiano, la maggioranza dei lavoratori-studenti, gli ingegneri dell'IBM, una parte dei "reggiani" tra cui Gallinari e Ivan Maletti. Quindi Simioni mantenne attiva la rete delle "zie rosse" anche dopo la vostra separazione? Sì, il Superclan. Lo avevamo ribattezzato così perchè teorizzavano un livello di clandestinità ancora più elevato e impenetrabile di quello delle Brigate Rosse. Mi viene in mente un episodio che risale al periodo in cui vivevo con Simioni. Un giorno mi aveva mostrato un tabulato da computer con grafici e proiezioni. Erano delle simulazioni di scenari su cui aveva costruito un percorso politico. "Nel 1974 -mi spiegò- ci sarà una grave crisi economica ed esploderanno forti tensioni sociali. Noi ora lavoriamo sotto traccia per costruire una rete logistica molto forte, con infiltrati in tutte le organizzazioni del movimento e della sinistra. E quando arriverà il momento, grazie al lavoro dei nostri uomini, noi saremo egemoni e in grado di innalzare il livello dello scontro..."
Moretti aveva mantenuto i rapporti con il Superclan? Che notizie avevate di lui? Stranamente si rifece vivo con noi poco dopo che Simioni se n'era andato. Nel gennaio del 1971 bruciammo 5-6 camion sulla pista prove della Pirelli, a Lainate. Fu la nostra prima azione clamorosa e i giornali ci dedicarono dei titoloni: si erano accorti delle Br. Un paio di mesi dopo, alla Sit Siemens, venne lasciato un biglietto sulla Maserati di un capo. C'era scritto: «Questa macchinetta durerà finché lo vogliamo noi. Firmato: Brigate Rosse». Non eravamo stati noi a metterlo, ma qualcun altro. Era un messaggio, pensammo. E infatti, qualche giorno dopo riapparve Moretti, voleva incontrarci. Ci andai io, all'incontro. Mi disse che aveva fondato un suo gruppo e che voleva entrare nelle Br. Era l'aprile del 1971, quando cominciò a collaborare con noi. Era stato Simioni a dirgli di tornare, secondo lei? Oggi io ne sono convinto. Anche perché Moretti cominciò a comportarsi in modo strano... Lo avevamo accolto nelle Br, ma eravamo sempre tutti un po' diffidenti nei suoi confronti, giravano sempre delle chiacchiere sul suo conto, non era una persona limpidissima. Che cosa fece di "strano"? Quando nel maggio 1972 arrestarono Pisetta (il nostro primo infiltrato ufficiale), nel covo "prigione del popolo" di via Delfico a Milano, trovarono tutti i negativi delle fotografie che avevamo scattato a Macchiarini, il capo del personale della Sit Siemens sequestrato da noi nel marzo di quello stesso anno. Erano tutte foto che dovevano essere tutte distrutte (e che Moretti ci aveva garantito di avere distrutto), perché potevano consentire agli inquirenti l'identificazione dei compagni che avevano partecipato all'azione. E infatti, proprio sulla scorta di quelle foto, furono arrestati e inquisiti alcuni compagni. Voi gli chiedeste conto del suo comportamento? Si giustificò dicendo che si era sbagliato, le pellicole erano rimaste incollate tra di loro e lui non se n'era accorto... Poi ne fece un'altra. Sequestrammo un caporeparto e lui aveva il compito di preparare il cartello da appendergli al collo per la fotografia di rivendicazione. Lo fece. Solo che, invece di disegnare la stella a 5 punte, il nostro simbolo, ne aveva disegnata una a 6 punte, la stella di Davide. Disse che si era sbagliato... Ora mi chiedo se anche quello non fosse un messaggio a qualcuno, come il bigliettino sulla Maserati del capo Sit Siemens.... Ma se avevate un simile sospetto, non vi venne mai in mente di prendere delle contromisure? Non avevamo prove, ovviamente. E comunque, per noi, forse era più facile credere che Moretti fosse solo un gran pasticcione. Torniamo a Simioni. Lei é dunque convinto che avesse suoi infiltrati dentro le Br? Più che convinto. Oggi direi: certo. Anche perché, dopo il rientro di Moretti, ci fu un altro strano ritorno all'ovile: Prospero Gallinari. Si mise in contatto con noi nella primavera del 1973 e io andai ad incontrarlo alla stazione ferroviaria di Fiorenzuola d'Arda, vicino a Parma. Mi chiese di rientrare nelle Br: Simioni e i suoi sono degli intellettuali, mi disse, non combinano nulla. Così seppi da lui che cosa era successo, nel frattempo, alle "zie rosse". Avevano cambiato nome, si chiamavano "la ditta", teorizzavano e praticavano l'amore collettivo... L'amore collettivo? Erano i capi a formare le coppie, e potevano decidere all'improvviso di romperle per ricostituirle in modo diverso. Così Simioni esercitava un controllo pressoché totale sui militanti. Mi venne in mente il questionario che voleva farmi compilare Simioni e capii che cos'era "la ditta": una specie di setta dalla quale, una volta entrato, uno non poteva più uscire. Però Gallinari ne era uscito. Gallinari mi raccontò che alla fine del 1972 "la ditta" si era sciolta. I membri del gruppo dirigente (Simioni, Mulinaris, Berio, Troiano, Innocente Salvoni e la Tissot, gli stessi che poi avrebbero fondato a Parigi la famosa e famigerata scuola di lingue Hyperion) erano andati a vivere in una villa del Veneto. A tutti gli altri era stato detto: tornatevene a casa, riprendete la vita normale e infiltratevi nelle organizzazioni del movimento e della sinistra; quando sarà il momento, noi vi diremo che cosa dovrete fare. Se Gallinari le fece questa rivelazione, doveva essere sincero. Non le pare? Qualcosa doveva raccontarmi, per essere credibile. Altrimenti non lo avremmo ripreso nelle Br, e lui lo sapeva. Caratterialmente, Prospero era il prototipo dello stalinista: se il "partito" gli avesse chiesto di ammazzare la madre, lui lo avrebbe fatto. Quando tra noi parlavamo di lui, ci piaceva scherzare ricordando la famosa telefonata di Stalin a Bucharin, la notte prima che lo fucilassero: caro compagno Bucharin, gli disse Stalin piangendo, ti comunico che domani mattina sarai fucilato... Gallinari era così. Se Simioni, che aveva in pugno i suoi seguaci, gli avesse ordinato: vai lì e dì questo, lui l'avrebbe fatto senza discutere. Quali altri elementi ha, per ipotizzare un legame di Moretti e Gallinari con Simioni, anche dopo il loro ritorno a casa? Uno piccolo, ma credo molto significativo. Noi della prima generazione avevamo sempre chiamato tra di noi le Br l'"organizzazione". Molti anni dopo, alla fine del 1978, quando incontrai in carcere Azzolini e Bonisoli, mi colpì il fatto che loro, parlando delle Br, usassero tranquillamente il termine "la ditta". Gli chiesi come mai. Mi risposero che dopo la decimazione del gruppo storico, nel 1976 le Br vennero ristrutturate e da allora si era cominciato a chiamarle così. Di recente, leggendo una storia del Mossad, mi ha colpito il fatto che anche i suoi membri, quando parlavano del loro servizio segreto, lo definivano in gergo "la ditta"... Che cosa accadde dopo il rientro di Moretti e Gallinari nelle Br? Durante il sequestro Amerio, fummo contattati dal Mossad. Ci offrirono aiuto e protezione senza pretendere nulla in cambio: a loro bastava che noi esistessimo. Rifiutammo. Quale fu il canale utilizzato per arrivare a voi? Venne a parlarci Antonio Bellavita, direttore di Controinformazione, la rivista che fungeva da facciata legale delle Br (vi collaboravano anche Toni Negri, Emilio Vesce e altri che in seguito avrebbero fatto nascere l'Autonomia). Ci riferì il messaggio, spiegandoci che il tramite era un medico milanese... Il padre di Berio? Non credo... Bellavita, comunque, oggi é latitante a Parigi ed é certamente nel giro dell'Hyperion. Per una strana coincidenza, in quello stesso periodo, si mosse anche l'avvocato Alberto Malagugini, allora responsabile nazionale del settore problemi dello Stato del Pci, e che si diceva fosse molto legato all'Urss... Il suocero di Berio? Sì. Contattò me e Piero Morlacchi, che venivamo entrambi dal Pci, e ci fece questo discorso: guardate che per voi si stanno preparando tempi duri, se vi consegnate al giudice istruttore milanese Ciro De Vincenzo, che é un nostro amico, vi garantisco che ne uscirete puliti e ve ne tornerete a casa. Perché, secondo lei, Malagugini fece un passo del genere? Sapeva che stavano per prenderci, e non voleva ovviamente che saltasse fuori che molti brigatisti provenivano dal Pci. In quel periodo, il generale dalla Chiesa stava costituendo i nuclei antiterrorismo proprio con l'appoggio del Pci. Noi comunque non ci presentammo. Berio e sua moglie certamente sì; ne uscirono puliti e se ne andarono a Parigi, dove poi fondarono l'Hyperion, con Simioni e gli altri. Correva l'anno 1974... La vigilia della grande retata? Sì, cominciarono a scoprire i nostri covi e ad arrestare i compagni... E qui c'é un'altra storia inquietante che merita di essere raccontata. Nel novembre di quell'anno, scoprirono una nostra base a Robbiano di Mediglia, vicino Milano. Tra le altre cose, in quel covo, avevamo i materiali "sequestrati" nel maggio 1974 durante una nostra irruzione nella sede del Centro di Resistenza Democratica di Edgardo Sogno a Milano. Nell'ordinanza di rinvio a giudizio nei nostri confronti, il giudice Caselli a un certo punto scrisse: «...Assai singolare la presenza tra il materiale asportato al Crd di una fotografia di Dotti Roberto tolta dalla tomba di lui». Caselli era stupito che ci fosse tra le nostre cose una fotografia tolta da una lapide... Ammetterà che, in effetti, la circostanza é piuttosto strana? Si, ma io oggi sono in grado di spiegare quel particolare mai chiarito. Nell'aprile 1974 avevamo sequestrato il giudice genovese Sossi. In quei giorni compimmo un'altra azione clamorosa, "perquisimmo" la sede di Sogno, a Milano, e portammo via un sacco di roba. Una volta liberato Sossi, io e Mara Cagol cominciammo a studiarci le carte di Sogno. C'era un necrologio pubblicato sul Corriere della Sera a un anno dalla morte di questo Roberto Dotti, ed era firmato da Sogno e da altri suoi amici. "Strano", disse Mara...
Che cosa c'era di strano? Mara mi fece questo racconto: "Quando stavo con Simioni, avevo l'incarico di raccogliere i questionari fatti compilare ai militanti. Un giorno, Corrado mi portò alla Terrazza Martini di Milano e mi fece parlare con una persona che si chiamava Roberto Dotti. Corrado mi disse che le schede avrei dovute consegnarle a questo Dotti e che a lui avrei potuto rivolgermi anche in caso di necessità, se avessi avuto bisogno di soldi o altro". La Cagol non chiese chi fosse il signor Dotti? Certamente, lo aveva incontrato un paio di volte. E lui le aveva raccontato la sua vita. Ex partigiano del Pci, aveva fatto parte della "Volante rossa", condannato per l'omicidio di un dirigente Fiat compiuto a Torino subito dopo la guerra, era fuggito a Praga. Rientrato in Italia, non si era più iscritto al Partito Comunista, perché non ne condivideva la linea ormai, a suo dire, troppo sbilanciata a destra. Ecco, questa era la sua biografia. E quando Mara vide il necrologio, si domandò se quel Dotti fosse lo stesso che aveva conosciuto lei. Allora ci sembrava strano, e sinceramente impossibile, che una persona con quella biografia potesse stare con Sogno! Nel dubbio, io dissi: Mara, vado al cimitero, a Milano, stacco la foto dalla lapide e te la porto. Così feci. Dopo averla vista, Mara non fu in grado di riconoscerlo con certezza. Anche perché lo aveva visto solo due volte, quattro anni prima. E poi ovviamente una foto presa da una tomba in genere non assomiglia molto alla persona viva. E così, quella foto rimase lì... in attesa di chiarimenti. Lei, dunque, oggi ipotizza che il Dotti del necrologio e il Dotti della Terrazza Martini consciuto dalla Cagol fossero la stessa persona? No, io non ipotizzo: oggi ne sono certo. E la certezza l'ho avuta dallo stesso Sogno tre anni fa, leggendo Testamento di un anticomunista, l'intervista che Aldo Cazzullo gli fece per la Mondadori. Ecco, leggo alle pagine 110 e 111. "Come si assicurò i servigi di Dotti?", gli chiede Cazzullo. La risposta di Sogno: "Me ne parlò Piero Rachetto, socialista, partigiano in Val di Susa, dirigente di Pace e Libertà a Torino. Rachetto aveva aiutato Dotti a fuggire a Praga. Al suo ritorno in Italia, me lo indicò come sostituto di Cavallo. Dotti lavorò con me fino alla chiusura di Pace e Libertà, nel '58. Poi gli trovai una sistemazione grazie al mio vecchio amico Adriano Olivetti, che avevo conosciuto anni prima negli ambienti liberali. Olivetti lo assunse a "Comunità". Quando tornai dalla Birmania per fare politica, nel '70, Dotti lavorava alla Martini e Rossi -era il direttore della Terrazza Martini di Milano- e guadagnava un milione al mese. Si licenziò e venne da me, a guadagnare la metà...". La sua conclusione, dunque? Sulla base di questo elemento, si può quanto meno ipotizzare l'esistenza di un legame tra Simioni e Sogno, attraverso Roberto Dotti. freccia rossa che punta in alto

29 maggio 2003 (Dagospia)

- Prospero Gallinari, 53 anni, reggiano, condannato a diversi ergastoli per le imprese delle Brigate rosse negli anni Settanta, vive a Reggio nel quartiere Canalina in libertà vigilata per ragioni di salute (gli sono stati applicati diversi by pass cardiaci). Lo abbiamo intervistato. Gallinari, ha letto le dichiarazioni di Alberto Franceschini? "No, non le ho lette. E non ho intenzione di leggerle".
Davvero? E perchè? "Non so. Sarà l'età. Preferisco dedicarmi ai gialli". Franceschini accusa lei, Moretti e Simioni di aver messo le Brigate rosse nelle mani dei servizi segreti israeliani, e persino della Cia. (Abbozzo di risata). "È venuto il momento di chiedersi chi lo paga, Franceschini". Lavora all'Arci, a Roma. "Appunto. È sempre stato interesse di una certa sinistra falsificare la storia d'Italia". A cosa si riferisce? "La sinistra italiana ha sempre avuto bisogno di fare la vittima, no? Lo faceva il Pci ai nostri tempi, evidentemente l'andazzo continua ancora oggi". Ma quale sarebbe l'interesse attuale di Franceschini nel rileggere la storia delle Br? "Non lo so. È un problema di chi gli passa lo stipendio". Le accuse rivolte a lei e a Moretti sono gravi. In pratica, Franceschini vi accusa di tradimento. "Siamo a un livello di squallore assoluto. Davvero, non intendo scendere così in basso". La storia delle Br manovrate dal Mossad non è nuova, in effetti. "Sì, è roba vecchia, vecchissima". E la figura di Simioni? Franceschini gli attribuisce un ruolo-chiave. "Non c'è nessuna novità. Simioni proveniva dai giovani socialisti, ne parlò persino Craxi. Il quale disse, a proposito, di 'avere dubbi su un ex amico'. E proprio a Simioni si riferiva". Franceschini, però, rivolge a lei e a Moretti accuse ormai da molti anni. E voi non rispondete. "Sì, ha scritto molti libri e anche molti documenti. Ad esempio, quello della Direzione strategica dell'Asinara lo ha scritto lui. Evidentemente lo ha dimenticato". Come valuta queste rivelazioni a orologeria? "Ciascuno tira l'acqua al suo mulino. Le Brigate rosse sono ancora oggi uno strumento per fare lotta politica." Sono maturi i tempi per una scrittura concordata degli anni Settanta, che possa essere accettata dalle diverse parti in causa? "No, i tempi non sono ancora maturi. Sono troppi gli interessi in ballo. Guardi al caso Moro: dopo venticinque anni siamo sempre allo stesso punto". Quando sarà possibile analizzare il fenomeno delle Brigate rosse dal punto di vista storiografico? "Tra cinquant'anni o tra un secolo. Ma sarà roba per studenti di storia". freccia rossa che punta in alto

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